sabato 12 novembre 2011



PAOLO
APOSTOLO CRISTOPATICO



Paolo, il tredicesimo apostolo cristo-patico, inventore del cristianesimo, iniziatore del lungo processo di riforma e distacco della nuova fede dall’ebraismo, nella sua esaltazione cristologica, si onora d’essere il servo (schiavo) di Cristo (Kyrios), Messia d’Israele, Figlio dell’uomo, Signore onnipotente, immagine vivente dell’Altissimo. Paolo, vaso d’elezione, tramortito lungo la via per Damasco da convulsioni allucinatorie (At 9,1 seg. e 22,6 seg.), fu gratificato dalla Grazia del Cristo risorto (non del Cristo storico). In verità, i compagni di viaggio udirono il suono di una voce, ma non videro nessuno (cfr. At 9, 7); o videro una luce, ma non udirono voci (cfr. At 22, 9): dunque, nell’uno o nell’altro caso, non compresero il fenomeno occorso al loro compagno Paolo. Questi, verosimilmente, essendo sofferente di epilessia, ebbe una crisi commista a una visione mistica durante un viaggio. Può anche darsi, invece, che un’umana passione a noi ignota gli abbia reso invisa la fede dei suoi padri, inducendolo ad abbracciare quella dei nazareni, seguaci di Gesù. Ad ogni modo, in seguito alla conversione, si sentì deputato a compiere la missione di apostolo delle genti non ebraiche: i gentili, pagani, stigmatizzati dalle Scritture come impuri cani infedeli (cfr. Salmi 22, 16; Mt 15, 21-28). L’autorità, in fede sua, non gli deriva da uno dei dodici apostoli o da qualche comunità cristiana, ma dal Cristo stesso, dal quale, durante la visione, apprese direttamente la “buona novella” (Ga 1, 1-20). Anche Maometto rivendica di aver ricevuto, attraverso la voce dell’arcangelo Gabriele, il verbo di Dio, che i suoi seguaci hanno poi incartato nel Corano. Diffusa era in molte antiche civiltà la convinzione che la volontà degli dei potesse essere interpretata da taluni sedicenti messaggeri, anche mediante l'osservazione di segni specifici, da cui trarre auspici. Paolo non dubita che il Vangelo che lui predica sia stato annunciato, prima della venuta del Messia, tramite gli oracoli dei profeti (Rm 1, 1-7). Ancor meno dubbi ha riguardo al Cristo, che crede essere venuto ad esistenza con umana natura dalla stirpe di Davide e poi costituito Figlio di Dio con natura divina in base alla risurrezione dai morti. Sembra, dunque, che, durante la sua umana esistenza, il Cristo abbia temporaneamente rinunciato alla natura divina, per riacquistarla soltanto temporaneamente con l’episodio della trasfigurazione (Mc 9, 1-7) e definitivamente con la resurrezione. Paolo, quindi, sembra che distingua in Gesù due stadi: quello dell’uomo privo d’attributi divini e quello posteriore alla resurrezione, quando l’uomo Gesù recupera la pienezza della sua divinità. Crediamo, invece, che le cose stiano diversamente, e cioè che un uomo di nome Gesù, stimato come un profeta, sia stato divinizzato dai suoi seguaci dopo la sua morte e insignito dell’altisonante titolo "Figlio di Dio" (non nel senso di filiazione fisica, ma come titolo prestigioso, essendogli stata conferita una importante missione da Dio). Per l’autore del Vangelo secondo Giovanni, invece, Gesù è il Verbo (il Logos divino), che si è fatto carne (vale a dire uomo, senza rinunciare ai suoi attributi divini) e ha preso dimora in mezzo agli uomini (Gv 1, 14). In altri termini, Dio Padre concepisce un “alter ego”, il Figlio, che si manifesta nel mondo come Dio, nonostante nasca come uomo (il mito di Zeus, come padre di figli divini, si ripete). Se paolo distingue le due nature attribuite al Cristo Gesù, Giovanni è categorico riguardo alla pienezza della natura divina dell’uomo Gesù. Nella Lettera ai Filippesi (Fl 2, 5-11), Paolo, il teologo della croce, afferma che Gesù, nascendo simile agli uomini, annientò la sua essenza divina, facendosi servo di Dio e a lui obbedendo in tutta umiltà fino a morire per gli altri (una virtù stoica, prima che cristiana) nell’ignominia della crocifissione (che, umanamente, mal sopportò). Per questo il Padre lo ha esaltato ed insignito della dignità del titolo di “Signore”, superiore ad ogni altro. Gesù, quindi, in quanto uomo, pare che abbia bisogno, come i re della terra, di segni distintivi e titoli onorifici per la sua gloria. Che Gesù sia persona divina e che in sé racchiuda tutti i tesori della sapienza e della conoscenza (Col 2, 3), non pare punto vero, giacché dichiara espressamente di non conoscere né il giorno né l’ora degli eventi escatologici e della sua parusia (Mt 24, 34-37; Mc 13, 32). Se neppure gli angeli del cielo ne sono a conoscenza, dato che l’onniscienza è un requisito che possiede esclusivamente il Padre, l’ignoranza di Gesù è quindi da attribuire alla mancanza della sua natura divina. Dunque, viene anche meno la presunta consustanzialità del Figlio con il Padre. Fatto sta che sulla misteriosofia cristiana è preferibile lasciare la parola (senza prestarvi cieca fede) alla speculazione dei teologi, ingegnosi costruttori di laboriose costruzioni mentali di genere fantastico. Certo è che Gesù non è onnipotente come il Padre, non potendo superare i limiti che gli sono stati assegnati nel suo essere nel mondo. Egli può modificare la parte assegnata a ciascuna vita umana solo con l’autorizzazione del Padre. Da questo punto di vista sembra che abbia un potere maggiore di quello attribuito a Zeus, sopra il quale imperava Moira, la dea filatrice degli umani ineludibili destini.

La notizia che Paolo fosse un persecutore dei cristiani prima della conversione e che fosse stato inviato in missione a Damasco, capitale della Siria, per arrestare i cristiani e tradurli a Gerusalemme, appare priva di fondamento, non avendo il Sinedrio effettivo potere di coercizione nell’ambito di una diversa amministrazione. C’è chi congettura che “Damasco” indicherebbe il nome del luogo in cui gli asceti Esseni di Qumran si erano esiliati. Sia questi sia i cristiani, fatte le debite differenze, avevano in comune l’atteggiamento di dissenso religioso-messianico nei confronti della corrotta classe sacerdotale e politica d’Israele (gli Erodiani), volta a salvaguardare i propri interessi in combutta con le autorità romane. Gli Esseni si caratterizzavano per il loro rigorismo cultuale, il celibato, la comunione dei beni, l’organizzazione gerarchica, il nazionalismo, l’attesa escatologica e l’opposizione alla classe sacerdotale dominante. I proto-cristiani, ebrei messianici, che credevano nell’imminente arrivo di un re proveniente dalla stirpe davidica per riscattare Israele dalla dominazione straniera, avevano delle affinità con gli Esseni.

Paolo crede d’essere strumento di Gesù, da lui arruolato sulla strada verso Damasco per portare il “verbo” divino ai gentili (i pagani), ai re della terra e ai figli d’Israele (At 9, 3-6. 15). Il dio paolino non ha più confini: è ecumenico, spoliticizzato. Nel discorso che fa in sua difesa di fronte al re Agrippa ed al governatore Festo, Paolo dichiara che Gesù (di cui nega la morte, cfr. At 25, 19) lo ha consacrato apostolo, incaricandolo di annunciare il Vangelo ai gentili per condurli all’obbedienza della fede in Cristo (At 26, 12-18). Veramente Gesù l’aveva incaricato di convertire anche i figli d’Israele, ma i notabili della Chiesa di Gerusalemme, Giacomo, Pietro e Giovanni, erano di diverso avviso. Si riservarono per loro il compito di evangelizzare i Giudei e assegnarono Paolo e Barnaba al servizio missionario presso i popoli non circoncisi (Ga 2, 7-9). Forse in considerazione del fatto che Paolo, commerciante di stoffe, era più avvezzo a trattare con i “gentili”. Gesù, sicuramente, non si adombrò. Ciò che importava era arruolare reclute da inquadrare nella sua milizia. Paolo diventava così l’antesignano di una nuova fede, il cristianesimo, da lui plasmato ammorbidendo il rigido formalismo giudaico. La nuova religione sarà consolidata e riadattata ai vari contesti culturali dall’opera assidua dei padri apostolici, dei dottori della chiesa, degli apologeti e degli intellettuali organici dediti al servizio della fiorente istituzione cristiana, tesa alla conquista (conversione) dei ceti pagani, oltre che giudaici. Il cristianesimo storico, nonostante la pretesa di fondarsi sulla divina rivelazione, è in realtà un prodotto culturale dell’uomo, come ogni altra religione. Fondamentalmente intollerante è il cristianesimo religioso, giacché fondato sul mono-triteismo giudaico-cristiano, che esclude l’esistenza di altre divinità e, quindi, di altre religioni. Se unico è il vero Dio, unica è anche la vera fede; ne consegue che se non possono esistere altre divinità, neanche possono essere veritiere altre fedi. Se le altre fedi possono essere benevolmente accreditate, in quanto possibile strumento per conoscere l’Altissimo, il Vangelo, invece, è dogmaticamente creduto vera rivelazione di Dio annunciata agli uomini dal figlio Gesù. In realtà, ciò che le Sacre Scritture rivelano sono soltanto testimonianze prefabbricate da manipolatori ideologici e fondate su astratti concetti teistici, che la dogmatica ecclesiale garantisce come verità annunciate da Dio. In verità, mancano le prove incontrovertibili atte a testimoniare l’eccezionale storica teofania di Dio, che invece di mostrarsi direttamente al mondo e contemporaneamente a tutti gli esseri umani, si racconta che sarebbe apparso sotto le spoglie di un santone ebreo di nome Gesù, trasformato dai suoi fedeli in Figlio di Dio. Le bibliche scritture, in sostanza, intendono avvalorare una “veritas” fondata sulla divina “illuminatio”, cioè sulla testimonianza d’uomini che si accreditano come illuminati dalla divina sapienza, ma che, di fatto, attestano una loro convinzione in una fede irrazionale e contraddittoria, accidentalmente determinatasi nel corso della storia. Il cristianesimo, come tutte le fedi religiose, è una superstizione, e per giunta goffa e truculenta, simboleggiata dal sacrificio della sofferenza sulla croce di un uomo, abbandonato da Dio e dai suoi discepoli. Si fonda sull’innaturale risuscitazione di un cadavere e sull’apoteosi di un uomo redivivo, la cui immagine, adorata in chiese-museo, rappresenta una lugubre testimonianza di una deprivazione culturale, offensiva della dignità umana. Sulla mistificata divinazione di un uomo, su una credenza non storicamente accertabile, si fonda il potere sovrano, ecumenico, millantato dalla Chiesa cattolica come voluto dal Cristo-Dio. Un potere concreto, supportato da un apparato economico-politico, da tecnologie massmediatiche e da scenografiche rappresentazioni rituali, pregne di simboli, di addobbi sontuosi e grotteschi, di vocalità noiose, di nenie tediose. Il tutto diretto da un cadaverico regista, assiso sul trono regale di un monumentale e sfarzoso edificio rinascimentale, dove pontifica al mondo intero, propagando “urbi et orbi” la spettacolare mercanzia della mondana Chiesa cattolica a esclusivo profitto degli addetti, ipocritamente celato sotto le mentite spoglie della sete millenaria di giustizia, che sarà attuata nella notte dei tempi ultimi mediante l’intervento nella scena del mondo del “deus ex machina”, il Cristo redentore, inflessibile giustiziere.

Paolo non si vergogna di annunciare il Vangelo (Rm 1, 16 seg.), ossia la fede in un uomo messaggero di Dio, trasformato poi in suo “alter ego”. Egli crede che Gesù sia venuto tra gli uomini ad annunciare la divina parola e a indicare la strada da seguire per garantirsi l’eterna salvezza, dopo la morte, nel paradisiaco regno dei cieli. Egli ha apportato la salvezza non solo per gli ebrei (i soliti raccomandati), ma anche per i greci (ai quali saranno assimilati i romani e gli altri popoli della terra). Gli ebrei, invece, non hanno voluto riconoscere Gesù (i soliti ingrati) né come l’atteso Messia né tantomeno come essere divino. Anzi, stracciatesi le vesti, lo accusarono d’essere un sobillatore, un malfattore, un bestemmiatore, un sacrilego, che si spacciava non solo per “Re dei Giudei”, ma addirittura per “Figlio di Dio”. Gesù non si difese dalle accuse né s’avvalse della retorica dello Spirito Santo. Fu condannato alla pena di morte per crocifissione, come un infame. Questo era il destino che il Padre gli aveva riservato, il prezzo da pagare per riscattare i peccati dell’umanità. Nel Regno di Dio vigono leggi deterministiche. Le colpe degli uomini dovevano essere espiate con il sacrificio del Figlio Redentore. Dio non ha rinunciato alla nèmesi (vendetta) per ripristinare l’ordine distrutto dalla “hybris” (tracotanza) dell’uomo. Perciò s’è macchiato di un grave delitto contro se stesso, essendo colpevole dello spargimento del sangue del Figlio. Il sacro rito della messa, officiato dai sacerdoti, commemora l’espiazione di Gesù (“homo sacer”), simbolicamente offerto al Padre come vittima (“hostia”) sacrificale (“sacrificium”). Quale novello Dioniso, Gesù diventa salvatore e dispensatore di libertà, potendo sciogliere ogni legame. L’umanità - a giudizio di Paolo - s’è mostrata poco riconoscente del sacrificio di Cristo, del sangue da lui versato per la liberazione dell’uomo dal male e dalla prigionia del peccato. Essa non ha voluto riconoscere Dio, che pure s’è manifestato con le opere del creato e non solo (in modo più diretto) nella storia d’Israele (dove, in verità, s’è connotato quale imperioso Dio degli eserciti, regnante e legiferante). Seguendo la loro sciocca sapienza, anziché la coscienza, gli uomini lo hanno mortificato, preferendo glorificare degli idoli, piuttosto chi parlava ai loro cuori. Adombrati dalla malvagità e con la coscienza ottenebrata, gli uomini hanno proseguito a vivere nell’immoralità (come la concupiscenza dell’omosessualità femminile e maschile) e nell’idolatria, scatenando nuovamente l’ira divina e la conseguente condanna all’eterna morte. A questa punizione non sfuggiranno, nel giorno del giudizio universale, neanche quei giudei che avranno compiuto identiche azioni malvagie (Rm 3, 1 seg.). Questa è la morale della favola cristiana, secondo l’apostolo Paolo, servo (schiavo) di Cristo.


Lucio Apulo Daunio



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