sabato 24 settembre 2011


INTRODUZIONE ALLE LETTERE PAOLINE

             


         Saulo, più noto con il nome romano di Paolo, nato a Tarso (capoluogo della provincia romana di Cilicia) nel primo decennio dell’era volgare (e.v.), cittadino romano (gli abitanti di Tarso avevano diritto a ottenere la cittadinanza romana), ma greco di lingua (cita spesso la Bibbia greca nella traduzione della LXX), ebreo quanto a formazione religiosa (era fariseo, di stretta osservanza, e nazireo), commerciante di tende, avvezzo a vivere in ambienti multiculturali, insignito dalla Chiesa del titolo di “doctor gentium” (apostolo dei pagani), è l’ideatore del cristianesimo universale (katolikòs), rivolto a tutti (non quindi di carattere etnico, proprio di un popolo), svincolato dalle strettoie del giudaismo. Nelle epistole a lui attribuite (c.d. "proto-paoline"), o scritte sotto il suo nome (c.d. "deutero-paoline"), ma tutte considerate canoniche (perché ritenute ispirate da Dio), l’autore mostra di possedere una discreta formazione culturale. Egli non si rivolge a filosofi (ad eccezione dell'episodio del suo discorso nell'Areopago di Atene; cfr. At 17,22-34), bensì a gente comune. La sua morale risente in parte dell’influenza della filosofia stoica. La sua attività missionaria tra i “gentili” lo induce ad adattare il cristianesimo giudaico (espresso in lingua aramaica) al mondo pagano-ellenistico (di lingua greca o latina) e a considerare non più vincolante l’osservanza della legge rituale ebraica. Paolo assume a fondamentale importanza non più l’appartenenza a un determinato popolo eletto, bensì la fede in Gesù, il Cristo risorto. Alla circoncisione sostituisce il battesimo. Per questa sua “devianza” fu sospettato di apostasia e osteggiato dai notabili giudeo-cristiani di Gerusalemme e dagli ebrei ellenistici della diaspora. Paolo, dunque, può essere considerato come l’iniziatore della trasformazione del giudeo-cristianesimo nel pagano-cristianesimo di stampo ellenistico, che si formalizzerà e istituzionalizzerà poi nel cattolicesimo romano. Il cristianesimo giudaico, in sostanza, sarà esautorato dal paolinismo.

Il pareidolico e apofenico Paolo, durante il viaggio verso Damasco per arrestare dei neofiti cristiani su ordine del Sinedrio (ciò appare inverosimile, perché Damasco era fuori della giurisdizione del tribunale ebraico), è colpito da una folgorante allucinazione che lo stramazza al suolo, accecandolo (forse ebbe una convulsione causata da epilessia psicomotoria). In quello stato patologico di confusione mentale, egli crede di sentire la voce di Gesù, che lo rimprovera di perseguitarlo e lo invita a cambiar vita (cfr. At, capitoli 9.22.26). Abbagliato dalla divina illusoria teofania, Paolo ricupera la vista dopo tre giorni, in virtù dell’imposizione delle mani da parte di Anania di Damasco, discepolo di Gesù. Suggestionato dalla voce udita durante la visione, si fa iniziare alla fede di Cristo e al rito del battesimo, impartito dallo stesso Anania (At 9, 1 seg.). Dopo la conversione, presume di aver ricevuto direttamente da Gesù il conferimento del mandato missionario presso i “gentili”, cioè i non ebrei (cfr. Rm 1,1-6; 11,13), dove predica un personale “vangelo”, fondamento dell’incipiente fede cristiana di stampo paolino. L’autore dell’apocrifo “Kerygma petrou” (frammenti della Predicazione di Pietro, tramandati in citazioni) dubita circa l’illuminazione di Paolo e la sua pretesa ortodossia dottrinaria. Alcuni studiosi ipotizzano che Paolo fosse un delatore al servizio del Sinedrio e dell’autorità politica romana, e che la sua conversione sia stata indotta dal cambio della politica romana in Giudea, promossa dall’imperatore Claudio, che aveva ordinato la destituzione del procuratore Pilato e del sommo sacerdote Caifa. Auto-proclamatosi apostolo, Paolo confonde i suoi arbitrari giudizi morali con le regole emanate dall’Altissimo (idealizzato nel Cristo immaginario delle sue estasi), divulgandoli come valori universali. Egli, pur vivendo a Gerusalemme, dove si atteggiava a fanatico persecutore della setta dei nazareni, non mostra di avere conoscenza della vicenda del Cristo Gesù, nonostante i conclamati miracoli e il clamore suscitati presso la sua gente (come attestano i Vangeli). Paolo, per giustificare il suo stato di celibe, equivoco per la mentalità ebraica del tempo, inventa la dottrina della castità e l’ideale ascetico. In realtà, Paolo è ossessionato dalla sua fobia sessuale. Forse si tratta di quella “spina nella carne” che - dice Paolo – gli è stata conficcata da Satana. Egli vorrebbe che tutti fossero asessuati come lui. Della sua famiglia sappiamo solamente che ha una sorella di nome Febe (Lettera ai Romani 16, 1), e che il figlio di costei intercede presso il tribuno che aveva in custodia Paolo dopo il suo arresto (Atti degli Apostoli 23, 16). Nella Lettera ai Romani (16, 7.1 3), Paolo invia saluti ad alcuni parenti: ad Andronico e Giunia, suoi compagni di prigionia, a suo fratello Rufo e a sua madre che è anche madre di Paolo. Rufo e suo fratello Alessandro sono figli di quel Simone di Cirene che aiutò Gesù a portare la croce (Mc 15, 21). Se fosse vero che il “fratello” Rufo è parente di Paolo e figlio di Simone di Cirene, e che la madre di Rufo è anche la madre di Paolo, risulterebbe che il padre di Paolo è Simone di Cirene.

Sotto il nome di Paolo la Chiesa tramanda quattordici epistole (genere letterario ereditato dai filosofi greci) scritte in lingua greca (la koinè, il comune dialetto parlato dalla grande massa dei popoli del mediterraneo). Sono descritti nelle lettere i viaggi missionari di Paolo in Asia Minore, Grecia e Italia. Esse hanno come mittente Paolo (ad eccezione della Lettera agli Ebrei) e sono indirizzate a comunità del mondo ellenizzato, esortate (parenesi) a mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti. Queste epistole sono i più antichi documenti cristiani, databili intorno alla seconda metà del I secolo, modello per la redazione delle successive missive apostoliche, finalizzate alla propaganda della fede. Hanno la struttura simile alle orazioni giudiziarie, codificate da Cicerone e Quintiliano: indirizzo (praescriptum), esordio (exordium), riassunto di ciò che si sta per parlare (propositio), esposizione dei fatti (narratio), prove (probationes) per dimostrare la propria tesi o per demolire quella dell’avversario, esortazione e conclusione. Iniziano generalmente con un prescritto, costituito dal mittente, dal destinatario e dal saluto, seguito da un proemio. Segue quindi il corpo della lettera, dove si sviluppano temi teologici ed etici con spunti polemici e apologetici, ma non si descrivono né gli avvenimenti storici relativi all'esistenza terrena di Gesù ed ai suoi insegnamenti, né i numerosi miracoli da lui compiuti. Paolo non racconta né la vita né l’insegnamento specifico del Cristo, la cui vicenda, narrata nei successivi vangeli, è stata interpretata alla luce della teologia paolina. L’eloquio di Paolo, più che dimostrare, intende colpire la fantasia e il sentimento del lettore. La fede escatologica (cioè la speranza di vita oltre la morte) s’integra con la storia della salvezza attuata dal Cristo Gesù, messia spirituale, diverso dal re messia liberatore atteso dai giudei. Il saluto finale è spesso sostituito da un augurio o integrato con una dossologia (preghiera di lode e glorificazione di Dio). Si discute sull'autenticità delle lettere paoline. Le lettere indirizzate ai Romani, ai Galati, ai Filippesi, a Filemone, le due lettere ai Corinzi e la prima ai Tessalonicesi, si ritengono scritte da Paolo. In esse si palesa (implicitamente) il riconoscimento della divinità di Gesù, distinguendolo da Dio Padre e dallo Spirito Santo. Le altre epistole, invece, sono verosimilmente pseudo-epigrafe, cioè scritte sotto il nome di Paolo allo scopo di conferire a esse maggiore autorevolezza. Le lettere alle sette “chiese” (di Roma, Corinto, Efeso, Galazia, Filippi, Colossi, Tessalonica) si differenziano dalle tre pastorali, dirette a capi di comunità (a Timoteo, a Tito, a Filemone) e dalla lettera agli Ebrei, di ispirazione paolina.

Il numero sette ricorre spesso tra i simboli del Nuovo Testamento. Particolare rilievo ha nel libro di Apocalisse, dove questo numero ricorre per più di cinquanta volte (si parla infatti di sette Chiese, di sette corna del drago, di sette coppe dell’ira, di sette candelabri, di sette trombe, di sette spiriti, del libro dei sette sigilli, ecc. ecc.). L’evangelista Luca riferisce che dal corpo di Maria Maddalena, esorcizzata da Gesù, uscirono sette diavoli (la possessione diabolica era concepita come causa o conseguenza di disordini morali). L’evangelista Matteo riferisce che Pietro chiese a Gesù se doveva perdonare il prossimo fino a sette volte; l’altro rispose che doveva perdonarlo fino a settanta volta sette. Il simbolo del sette è presente nel cristianesimo con i sette sacramenti (battesimo, comunione, cresima, confessione, matrimonio, ordine, unzione: considerati segni efficaci dell'intervento di Dio nel mondo), i sette doni dello Spirito Santo (sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio), i sette peccati capitali (gola, lussuria, avarizia, superbia, accidia, invidia e ira), le sette virtù: 4 cardinali (forza, sapienza, giustizia e temperanza) e 3 teologali (fede, speranza e carità). Non mancano le sette richieste espresse nella preghiera del Padrenostro e i sette dolori di Maria, elevata a divinità quale Madre di Dio, ossia di Gesù. Sette erano i pianeti, sette le arti liberali, sette le note musicali, sette i colori dell’arcobaleno. Il simbolo del sette è ossessivo tra gli ebrei, tanto che il riposo del sabato nel settimo giorno, prescritto nel Decalogo, assume la connotazione terribile del tabù (è preferibile la morte piuttosto che la difesa dai nemici nel giorno del riposo, violando la Legge). Il numero sacro del sette ricorre in tutta la Bibbia, a partire dalla cosmogonia, descritta nel libro del Genesi, in cui Dio completa la creazione in sette giorni. La cosmogonia biblica ricalca luoghi comuni della mitologia sumerica e babilonese. La simbologia del sette è presente anche nella mitologia greca e romana.

Saulo/Paolo, prima della sua conversione, perseguì la setta dei seguaci del Nazareno Gesù, percepita dai giudei come eretica. Ad Antiochia, metropoli d’Oriente, si costituirà la prima comunità dei credenti in Cristo, provenienti dall'ebraismo e dal paganesimo, chiamati per la prima volta cristiani. Paolo è il primo teologo della fede cristiana, slegata dal giudaismo. Egli si prodigò come missionario presso le comunità giudaiche e pagane sparse nelle regioni ellenizzate del mediterraneo. A causa dei pagani convertiti incirconcisi, estranei alla tradizione ebraica, fu in dissidio con l’ortodossia seguita dalla comunità dei giudeo-cristiani di Gerusalemme. Illuminato dalla teofania di Cristo sulla via per Damasco, si convertì all'apostolato missionario tra i pagani (le gentes), convertendoli alla nuova “paideia”, cioè alla formazione etica e religiosa fondata sull'ethos (regola di vita) cristiano, secondo una sua personale interpretazione. In verità, egli iniziò dapprima il suo apostolato presso le comunità ebraiche, con scarso successo, a causa dell’ostilità dei suoi connazionali, che lo giudicavano un apostata. Per evitare rappresaglie nei suoi confronti, decise di cambiare aria, facendosi apostolo delle genti. Portò a compimento tre viaggi missionari, durante i quali subì vessazioni ed anche l’arresto (nel 58, a Gerusalemme) e la prigionia a Roma (fino al 62) in attesa di essere giudicato. Il Vangelo, che predicò ai pagani, era svincolato dalla stretta osservanza della legge ebraica. Lo adattò alla mentalità delle diverse comunità cui era destinato: greche, romane e giudaiche della diaspora. Della nascita miracolosa di Gesù e del suo concepimento da una vergine, a sua volta concepita immacolata (cioè senza peccato originale) per grazia ricevuta, Paolo tace; insiste invece sul miracolo della resurrezione di Gesù (che però non impressionava i pagani, maestri nel favoleggiare le gesta di essere divini). Egli, “vaso d’elezione” (illuminato dalla grazia di Dio), si faceva servo di tutti pur di arruolare il maggior numero di militi al seguito di Cristo. Chissà che non sia stato proprio lui l’Uomo di Menzogna, di cui parlano i testi apocrifi, che si contrapponeva al Maestro di Giustizia della comunità essena. Di Paolo, inventore del cristianesimo e suo primo inconsapevole teologo, le fonti storiche coeve, non di tradizione cristiana, tacciono.

Si ritiene che le lettere paoline, in parte contraffatte, siano state scritte intorno agli anni 50, mentre i Vangeli non prima degli anni 70. Gli evangelisti (nessuno dei quali è stato testimone oculare) hanno elaborato e mitizzato i loro racconti tenendo conto sia della tradizione giudaico-cristiana sia della teologia revisionista di Paolo. Il cristianesimo che emerge dai vangeli, infatti, è condizionato da un mix di messianismo, profetismo apocalittico, escatologismo, pacifismo, filosofia ellenistica, misteriosofia, esoterismo iniziatico, spiritualismo etico-religioso. Ciò potrebbe spiegare, in parte, perché in questi testi si riscontrano divergenti posizioni ideologiche in contraddizione tra loro. Rilevante è il disprezzo che Paolo manifesta per l’intelligenza e il sapere della cultura pagana. Assillanti le sue esortazioni: quella alla rassegnazione e all'accettazione della condizione sociale in cui ciascuno si trova, perché essa deriva dalla volontà divina; quella all'obbedienza verso le autorità costituite, perché ogni potere proviene da Dio. La politica cristiana della sottomissione all'ordine e alle autorità temporali, coniugata all'accettazione delle diseguaglianze sociali, frutterà alla Chiesa il predominio teocratico, quando l’imperatore Costantino, auto-proclamatosi tredicesimo apostolo, diverrà il braccio armato dello Stato totalitario in nome di Dio.


Lucio Apulo Daunio


mercoledì 21 settembre 2011


ATTI DEGLI APOSTOLI



Gli “Atti degli Apostoli”, attribuiti all’evangelista Luca, databili alcuni decenni dopo la stesura delle lettere di Paolo, narrano le vicende (acta = azioni) della comunità giudeo-cristiana posteriori alla crocifissione del Cristo Gesù. Luca, ancorché si attesti come stretto collaboratore di Paolo, ignora l’esistenza dell’epistolario paolino e tantomeno la dottrina teologica dell’altro. La pretesa dell’autore degli “Atti” di raccontare fatti storici contrasta con i continui riferimenti agli interventi divini, agenti nella storia, tipici delle narrazioni mitiche. I racconti sono arbitrarie ricostruzioni di ciò che i personaggi possano aver detto. Luca, in quanto credente, tende più a propagandare la propria fede, che ad attenersi scrupolosamente al metodo storico nella ricerca dei fatti. Il fine dell’autore è quello di raccontare una storia apologetica, che miri a rafforzare la fede dei lettori.

Nella prima parte sono particolarmente descritte le vicende dell’apostolo Pietro, quelle della Chiesa di Gerusalemme, quella dell’evangelizzazione nei paesi circostanti, quella del martirio del diacono Stefano (1,1-12,25); nella seconda parte, prevalgono le vicende dell’apostolo Paolo (13,1-28,31). Appena qualche accenno l’autore dedica a Giacomo e Giovani, le altre due colonne della Chiesa di Gerusalemme. La missione di evangelizzazione a tutti i popoli della terra è affidata ai “dodici” (1, 8), con potere di compiere miracoli e prodigi (Lc 9, 1-2, At 2, 43; 5, 12). L’apostolo Filippo è l’iniziatore dell’evangelizzazione della Samaria, dove converte Simon Mago, personaggio straordinario, che strabiliava il popolo con l’arte magica (8, 4 seg) e predicava un insegnamento esoterico, che rendeva l’iniziato partecipe della potenza divina (cfr l’apocrifo “Atti di Pietro e Paolo"). I miracoli operati da Filippo, però, secondo l’autore degli “Atti”, superavano le magie dell’altro (8, 6-7. 13).

Gli altri episodi descritti negli “Atti” riguardano: l’ascensione di Gesù risorto, involatosi tra le nubi del cielo; la morte di Giuda e la sua sostituzione con l’apostolo Mattia; la rumorosa e fantasiosa discesa dello Spirito Santo (il Paraclito, Consolatore, promesso agli apostoli dal Cristo risorto, che darà loro la forza per annunciare il vangelo in tutto l'ecumene), sotto forma di lingue di fuoco, che vanno a posarsi su ciascun apostolo durante la festa ebraica della Pentecoste; il discorso di Pietro contro gli empi giudei, responsabili della morte di Gesù il Nazareno, accreditato da Dio con prodigi, portenti e miracoli, e da lui risorto. Rilevante è l’incisività della requisitoria di Pietro contro gli ebrei, rei dell’uccisione di Cristo (2, 14-41; 3, 11-26; 4, 8-11; 5, 29-30). Li esorta a convertirsi, mediante il pentimento ed il battesimo purificatore (nel nome del Signore, non della Trinità, di là da venire), in modo da beneficiare dei doni carismatici dello Spirito Santo nell’attesa dell’instaurazione del regno messianico.

La testimonianza di fede di Pietro e degli apostoli di fronte al Sinedrio (4, 8-12; 5, 29-32), in concomitanza delle persecuzioni contro i fedeli del Nazareno, creano le premesse per il definitivo distacco del cristianesimo dal giudaismo. Il motivo del distacco è posto in risalto nel discorso pronunciato da Stefano (7, 2-53), seguito dalla sua visione (allucinazione) del Figlio di Dio, Gesù, seduto alla destra del Padre (7, 54 seg.). Accusato da alcuni membri della sinagoga per aver sconvolto la loro religione, pronunciando parole blasfeme contro Mosè e contro Dio, Stefano è condotto con violenza al Sinedrio per essere giudicato. La sua lunga difesa, frammista a invettive contro i giudici, termina con la blasfema glorificazione dell’uomo Gesù. Tappandosi le orecchie e gridando per lo sdegno, i membri del Sinedrio si scagliano contro di lui, trascinandolo fuori della città per lapidarlo. Saulo (Paolo), non ancora convertito (At, 9, 1 seg.), ne approva l’uccisione (8, 1a).

Gli Atti informano sulla vita delle primitive comunità cristiane, sulle origini della Chiesa di Gerusalemme, ancora legata alle tradizioni religiose ebraiche (come la circoncisione, la purificazione rituale, il riposo sabbatico e le preghiere nel tempio), nonché sulla formazione delle chiese sparse nel mondo pagano, sciolte dalle osservanze giudaiche. Mostrano altresì l’incipiente contrapposizione tra i giudeocristiani e i revisionisti seguaci della setta (intesa come gruppo religioso) dei Nazorei, capeggiati da Paolo. La primitiva comunità cristiana viveva nell’attesa della seconda venuta di Cristo. Gli adepti avevano i loro beni in regime di comunione e si riunivano sotto l’autorevole guida (governo) degli apostoli. Pregavano e celebravano pasti in comune (2, 42-47), simili alle agapi cultuali delle religioni misteriche, caratterizzate dalla consacrazione e salvezza dei partecipanti attraverso la comunione con la divinità e la partecipazione alla sua natura (antropoteismo). L’ingresso dei pagani nella comunità cristiana è attestato dalla visione di Pietro e dal suo discorso rivolto ai gentili residenti a Cesarea (10, 1 seg.). Miracoli e prodigi avvenivano tramite gli apostoli (2, 43), soprattutto (manco a dirlo!) per opera di Pietro, “primus inter pares” (3, 1-16; 5, 12-16, 9, 32-43;10, 44-48). L’era dei Pontefici, massimi capi della cristianità, è di là da venire.

Tra le varie ipotesi teorizzate allo scopo di poter spiegare la diffusione della “buona novella” nell’Impero romano, una riguarda il ritorno alle loro dimore della moltitudine di pellegrini giudei presenti in Gerusalemme, provenienti da diverse nazioni, testimoni del miracolo della Pentecoste (At 2, 1 e seg.); un’altra concerne il ritorno nei loro paesi di mercanti itineranti o di militi romani, che prestavano servizio in Palestina, convertiti alla nuova fede. La presenza di Pietro a Roma, secondo una tradizione, si spiegherebbe con la fuga da Gerusalemme, dopo la miracolosa liberazione dalla prigionia, verso un altro luogo sicuro, non precisato dal redattore degli Atti (12, 17). Secondo Eusebio (scrittore cristiano poco attendibile), Pietro raggiunse Roma tra la fine del regno (dal 37 al 41) di Caligola e il principio di quello (dal 41 al 54) di Claudio. San Girolamo, invece, indica l’anno 42 del regno di Claudio. Secondo certe tradizioni e interpretazioni, egli pose la sua cattedra lontano dai quartieri giudei di Roma per motivi a noi ignoti (forse per la turbolenza dei suoi compatrioti, più volte scacciati da Roma per turbamento dell’ordine pubblico). La conversione al cristianesimo di migliaia di persone a Roma potrebbe aver suscitato - secondo la testimonianza di Giustino (cfr. Apologia Prima 31, 6 e Dialogo con Trifone 17) - l’ostilità dei giudei. Svetonio (Claudius 25) racconta che l’imperatore Claudio ordinò (intorno all’anno 49) l’espulsione, per turbamento dell’ordine pubblico, di tutti gli israeliti (giudei e cristiani) da Roma, responsabili dei disordini provocati a causa di un certo Chresto. Versione confermata dagli Atti degli Apostoli (cfr. XVIII, 2). Secondo Dione Cassio (Hist. LX, 6), invece, Claudio si limitò a proibire le loro riunioni. Forse, anche Pietro partì con i cristiani espulsi da Roma. Lo si ritrova nel 50 a presiedere con Giacomo e gli altri apostoli il c.d. “Concilio di Gerusalemme” (At 15, 6 e seg.). Qualche anno dopo, nei saluti inviati da Paolo a diversi membri della comunità di Roma, manca il nome di Pietro (cfr. Lettera ai Romani 16, 3-15). Secondo una leggenda, Pietro sarebbe ritornato a Roma per contrastare la fama che Simon Mago si era procurato con gli incantesimi e per confutare la dottrina che l’altro andava propalando. Fatto prigioniero durante la persecuzione neroniana, Pietro riuscì a fuggire dal carcere. Percorrendo la via Appia, gli apparve Gesù, che lo invitò a ritornare sui suoi passi. Nuovamente arrestato, subì il martirio (forse nel 64). Fu crocifisso con la testa all’ingiù, come aveva richiesto agli aguzzini.

Nella seconda parte degli Atti, protagonista della narrazione è Paolo, vaso d’elezione (eletto da Dio), capo della setta dei Nazorei (At 24, 5; 28, 22). Autoproclamatosi apostolo dopo aver ricevuto la visione di Gesù sulla via per Damasco, presume d’aver da Lui ricevuto l’indottrinamento del vangelo (Ga 1, 15-17). Tuttavia, pur essendo le lettere di Paolo gli scritti più antichi del cristianesimo, nulla riportano della biografia di Gesù. Gli Atti pongono in rilievo alcuni discorsi di Paolo: quello agli ebrei, rei di deicidio (13, 16-41e 46-47); quello tenuto nell’Areopago d'Atene, dove tenta invano di convincere gli ascoltatori concordando il cristianesimo con la filosofia pagana (17, 22-31); quello d’addio ai responsabili della chiesa di Efeso, alla quale paventa le tribolazioni che potrebbero capitargli a Gerusalemme, dove stava andando per consegnare alla comunità giudeo-cristiana le offerte dei gentili convertitisi al paganesimo (20, 18-35). Seguono le orazioni pronunciate in sua difesa contro le accuse dei giudei (22, 1-21, 24, 10-21, 26, 2-29).

I discorsi, improntati al modello convenzionale della storiografia antica, riflettono il pensiero dell’autore degli “Atti” sui fatti ed i personaggi su cui indaga. Egli cerca di ammorbidire gli scontri inevitabili tra le diverse aree culturali del cristianesimo delle origini, cioè tra i convertiti provenienti dal paganesimo, che costituivano la setta degli apostolici, fondata da Paolo (cfr. l’apocrifo Vangelo di Filippo), e i convertiti d’origine giudaica, distinti a loro volta in Giudei residenti in Palestina e Giudei della Diaspora o Ellenisti, oltre alle sette cristiane di tipo gnostico. Solo gli apostolici, auto-definitisi cattolici, si affermeranno come istituzione gerarchica politica religiosa, dominante all’interno del cristianesimo.

Con la descrizione dei tre viaggi missionari di Paolo e dell’altro suo viaggio come prigioniero verso Roma, l’autore degli Atti intende mettere in risalto, per un verso, la diffusione del cristianesimo nell’impero romano (da connettere con l’atteggiamento generalmente benevolo dei funzionari romani nei confronti dell’attività missionaria paolina, ritenuta compatibile con i doveri civici, anche se non assimilabile al sincretismo della religione romana), per un altro verso, la rottura definitiva della Chiesa col giudaismo (che riteneva inammissibile e blasfema, dunque eretica, la dottrina predicata da Paolo). Gli ebrei accusarono di superstizione Paolo, perché credeva in Gesù vivo, anche se era morto. I cristiani, dissociandosi dal destino d’Israele, rifiutarono d’impegnarsi nella guerra messianica contro i Romani, che fu causa della rovina del popolo ebreo (distruzione di Gerusalemme nel 70, per mano di Tito; sterminio per mano di Adriano nell’anno135; successiva e definitiva diaspora della maggior parte di loro). In seguito a tali eventi, si disperse anche la comunità anti-paolina dei giudeo-cristiani di Gerusalemme. Durante tale periodo, in verità, il mondo giudaico era costituito da una pluralità di giudaismi, comprensivi dei vari cristianesimi, allora considerati dai “gentili” come sette giudaiche.

Paolo, nell’anno 58, accusato dai giudei di Cesarea al tribunale del procuratore romano Porcio Festo, si appellò a Cesare, avvalendosi del privilegio riservato ai cittadini romani (At 25, 10-12). Condotto a Roma nel 60, visse in semi-libertà in attesa del giudizio (At 28, 16). Assolto nel 63 dall’accusa, come risulta dalla seconda epistola a Timoteo (4, 17), si suppone che abbia lasciato Roma per intraprendere altri viaggi missionari (forse in Spagna, secondo Clemente Romano, Lett. ai Cor. 6). Secondo una tradizione, subì il martirio (forse nel 67) della decapitazione (pena per i cittadini romani) durante gli anni della persecuzione ordinata da Nerone (morto nel 68), che fece cadere sui cristiani e sulla loro religione, considerata superstizione malefica, i sospetti contro l’imperatore per l’incendio di Roma del 64. Da Nerone in poi diventerà più netta la distinzione tra ebrei e cristiani (nome entrato in uso per la prima volta ad Antiochia - cfr. At 11, 26 - ma non impiegato da Paolo nelle lettere). Due antichi testimoni, Clemente Romano (1 Lettera ai Corinzi 5,4) e Ignazio di Antiochia (Lettera ai Romani 4,3) non confermano ciò che una successiva tradizione affermerà circa il martirio di Paolo e di Pietro a Roma.

Straordinari sono i prodigi e i miracoli attribuiti a Paolo (At 19, 11-12), tra cui l’esorcismo di una schiava (16, 16-18) e la risuscitazione di un ragazzo (20, 7-12). Durante il viaggio verso Roma, per essere giudicato dal tribunale di Cesare, la nave che lo trasportava naufragò nei pressi di Malta, dove Paolo compì due prodigi contro il potere demoniaco. Morso da una vipera, rimase indenne dall’effetto letale del veleno. Ospitato dal magistrato che governava l’isola, guarì il padre affetto da febbre e dissenteria (28, 1-10). Durante i giorni della tempesta, approfittando dello stato d’animo dei suoi compagni di viaggio, propagandò la sua fede, impressionando gli uditori con il racconto rassicurante avuto dalla (presunta) visione di un angelo di Dio (27. 21-26).

La santa Chiesa cristiana cattolica romana, governata dal sedicente successore di Pietro, si è formata sulla catechesi di Paolo piuttosto che su quella di Pietro. L’uno fu crocifisso, nonostante l’assicurazione che le porte degli inferi (la morte) non avrebbero prevalso su di lui (Mt 16, 18-19), perché doveva compiere la missione (Gv 21, 17) di pascere il gregge di Cristo (inizio della “traditio lampadis”, cioè del passaggio di mano della testimonianza di fede). L’altro, essendo cittadino romano, fu decapitato, nonostante la promessa che nessuno gli avrebbe messo le mani addosso (At 18, 9-10). Molti cristiani, cui Paolo garantì che avrebbero giudicato persino i santi e gli angeli (1 Co 6, 1-3), furono abbandonati ad un atroce destino di morte. Quando però il cristianesimo, nel IV sec, divenne religione di stato, l’episcopato romano, anziché perseguire la moderazione e la semplicità di vita, ambì al potere e alle ricchezze connesse con l’assunzione dell’alta, influente carica di vescovo di Roma (cfr. Res gestae, libro XXVII, di Ammiano Marcellino).


Lucio Apulo Daunio


VANGELO SECONDO GIOVANNI



Il Vangelo secondo Giovanni (un pescatore originario di Betsaida, cittadina presso il lago di Galilea, discepolo di Giovani Battista, prima di seguire Gesù) è stato redatto in conformità a una tradizione orale risalente a un testimone oculare (Gv 19, 35; 21, 25), senza alcun riguardo alla ricerca storica, e con aggiunte e interpolazioni posteriori al nucleo originario. A differenza dei vangeli sinottici, improntati al genere parabolico e narranti presunti fatti storici, quello giovanneo è apologetico, dottrinario, ideologico. Evidenzia un lessico iniziatico (mistagogo), d’ispirazione gnostico-giudaica, e un linguaggio mistico-simbolico (come nell’espressione “acqua viva” per designare lo Spirito Santo). Il vangelo giovanneo riflette il pensiero di una comunità ellenico-cristiana, distaccatasi dall’ortodossia giudaica e vicina a una sorta di religione misterica. Interpreta il messaggio di Cristo secondo una concezione dogmatica, utilizzando le categorie filosofiche della cultura greco-ellenistica. L’autore espone la presunta dottrina di Gesù nella forma di ampi discorsi teologici e con un linguaggio figurato, che ricorda quello dei dissidenti Esseni della comunità di Qumran. La descrizione dell’ultima cena, prima della Pasqua, rappresenta la consumazione di un pasto comunitario, tipico della Regola degli Esseni. Durante la cena si evidenzia la lavanda dei piedi, quale atto d’umiltà testimoniato da Gesù. Non è rappresentata la scena del sacro convito sacrificale, simbolo della nuova alleanza con un nuovo popolo (che la Chiesa, non Gesù, trasformerà nel sacramento dell’Eucaristia e nel dogma della “transustanziazione”), descritta invece nei Vangeli Sinottici. Sono assenti gli esorcismi (guarigione degli indemoniati), tipica superstizione giudeo-cristiana. I miracoli, rappresentati come manifestazione della potenza divina, sono collegati a discorsi in cui Gesù rivela la sua identità, non mediante reminiscenze storico-biografiche, ma attestando pretestuose verità teologiche.

Il Gesù giovanneo, a differenza di quello descritto nei vangeli sinottici, proclama apertamente il mistero della sua divina missione salvifica. Egli è il “Logos” (Verbo, Parola creatrice, Ragione). Egli è la via (angusta), la verità (assurda), la vita (eterna). Egli è presso Dio e, addirittura, egli stesso è Dio; però Lui e il Padre sono uno (mistero inaccessibile alla ragione umana). Queste ed altre espressioni tautologiche non aggiungono significato a quanto si vuole spiegare, senza opportunamente dimostrare. L’evangelista si contraddice allorquando fa prima dire a Gesù che la testimonianza che lui rende a se stesso non è valida, invece è valida quella che gli rende Dio Padre (Gv 5, 31 seg.). Poi gli fa dire che la sua testimonianza è valida perché lui conosce donde viene e dove andrà (Gv 8, 13 seg.).

Il Vangelo in questione non può essere opera dell’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo il Maggiore, pescatori illetterati, che vivevano nei pressi del lago di Galilea, dato che il linguaggio usato dall’autore non è ebraico. Si ritiene, invece, che sia stato redatto in ambiente culturale ellenistico da un greco cristiano all’inizio del II secolo, in conformità ad una cernita di precedenti tradizioni orali, tra cui quella relativa alla testimonianza di un discepolo di Gesù (Gv 19, 35; 21, 24-25), dalla quale si dovrebbe desumere il valore storico del Vangelo. Questa pretesa storicità non può essere condivisa, dato che appare fondata su di una presunta testimonianza da parte di un anonimo testimone oculare di quanto avvenuto al tempo di Gesù. Questo testimone, peraltro, non sarebbe dovuto morire prima del ritorno apocalittico del Cristo (Gv 21, 22-23). Invece morì, forse nel rimpianto della mancata realizzazione della “parusia” di Cristo (ancora di là da venire). L’autore, esprimendosi con un linguaggio mitico-teologico, tende a stravolgere i fatti, anziché descriverli nella loro concretezza. Il suo scopo è quello di dimostrare la divinità di Gesù, trascurando gli aspetti biografici.

Il prologo, che apre il Vangelo, è un inno al Logos (identificato nel Cristo Gesù), principio originario, generatore del mondo (archè), preesistente al tempo della storia. L’evangelista afferma che Cristo è in stretta comunanza con Dio: egli stesso è Dio. Il linguaggio è tipico dell’astrattismo espressivo di chi è versato nella filosofia della scuola platonica. La teologia che si espone è in contraddizione con quella veterotestamentaria. Cristo, secondo l’autore, è la ragione di Dio, il Verbo creatore del mondo e del tempo. Egli si è incarnato (cioè è entrato nella realtà degli uomini) per portare la luce (cioè il bene) in un mondo di tenebre (cioè malvagio). Conoscendo lui, si comprende anche il Padre, al quale egli ritornerà, dopo aver compiuto la sua missione terrena. Al suo posto, invierà il Paraclito, lo Spirito Santo consolatore, che illuminerà i cristiani con la perfetta conoscenza delle cose di Dio (pia presunzione). L’autore del Vangelo nega l’unicità di Dio, professata da Mosè, quando afferma che Gesù è Dio, accanto ad un altro Dio e da lui distinto. Poi si contraddice, facendo dire a Gesù che il Padre è più grande di lui (Gv 14,28) e che il Padre è suo Dio (Gv 20,17). Gesù stesso attesta nei sinottici che solamente il Padre è Dio (Mc 10,18; 14,36; 15,34; Mt 26,39; 27,46; Lc 18,19; 22,42). Paolo anche distingue Dio dall’uomo Gesù, che considera come mediatore fra Dio e gli uomini (1 Tm 2, 5), assiso alla destra del Padre (Col 3, 1).

La redazione del Vangelo risente della rottura definitiva e ufficiale del giudaismo con il cristianesimo, verificatasi sul finire del I secolo, e delle conseguenti ostilità dei giudei contro le comunità cristiane. Farisei e sommi sacerdoti sono presentati come accaniti avversari di Gesù, che rifiutano di accogliere il suo messaggio e la pretesa divinità, perciò sono calunniati come figli del diavolo, perché incapaci di ascoltare la parola annunciata da Gesù. Solo coloro che l’accolgono, e che Dio Padre ha dato a lui (per grazia ricevuta), sono i figli meritevoli del Regno celeste. Questi sono i suoi veri amici, cui comanda l’amore reciproco (Gv 15, 12-17). Il rifiuto dei giudei ad accogliere la fede di Cristo favorirà l’evangelizzazione dei gentili, cui si dedicherà maggiormente l’apostolo ecumenico Paolo. L’autore del vangelo, ricorrendo spesso a formule simboliche, in piena contraddizione con quanto affermato altrove, parla di Gesù mentre rivela se stesso come Dio. L’uomo-Dio Gesù, spiega l’autore, è stato inviato dal Padre celeste allo scopo di redimere i peccati degli uomini, purché si convertano alla nuova fede. Cristo, pur essendo Dio, si dimostra ligio alla volontà del Padre fino alla fine della sua missione, accettando di morire come un malfattore sulla croce, che i cristiani poi rappresenteranno come segno di gloria e di vittoria sul mondo. Ai credenti Gesù promette il premio della vita eterna dopo la morte, nel giorno del giudizio universale. I non credenti, invece, subiranno l’ira di Dio (cioè del Padre). Dal punto di vista etico, ne consegue che gli uni sono moralmente buoni, gli altri cattivi. Così, secondo una concezione dualistica, tutto il genere umano è diviso in figli della luce (i cristiani, operatori di verità e di giustizia) e figli delle tenebre (i miscredenti, operatori di menzogna e d’iniquità). Scarse sono, rispetto ai sinottici, le citazioni scritturistiche, adattate alle circostanze, cui l’autore fa riferimento. Le ricorrenti feste religiose (Gv 5, 1; 7, 10), di cui due relative alla Pasqua (Gv 2, 13; 12,12), giustificano i viaggi missionari di Gesù tra Galilea e Giudea con un passaggio per Samaria. A differenza degli altri evangelisti, per i quali il ministero pubblico di Gesù dura un solo anno, Giovanni lo prolunga di due o tre anni.

Frequenti sono le incoerenze concettuali che si riscontrano, oltre che all’interno del Vangelo giovanneo, con i sinottici. L’Epilogo, incentrato sul dialogo del Risorto con Pietro, cui conferisce il “mandato” di pascere il suo gregge, è verosimilmente un’aggiunta posteriore (utile per avvalorare il primato di Pietro). Ne consegue che la testimonianza riportata dall’evangelista riguardo all’anonimo “discepolo che Gesù amava” (Gv 21, 20), che sembra voler primeggiare nelle grazie del Maestro, non appare veritiera (Gv 21, 24), non essendo egli vissuto fino al supposto ritorno di Gesù alla fine dei tempi. Riguardo al discepolo che Gesù amava, taluni studiosi ipotizzano che possa trattarsi dell’amico Lazzaro di Betania (Gv 11,3.5.36). Secondo la tradizione, l’apostolo Giovanni svolse opera di evangelizzazione in Asia Minore (Efeso, Isola di Patmos, dove ricevette la rivelazione dell’Apocalisse). Una tradizione di origine gnostica accenna a un insegnamento segreto impartito da Gesù a Giovanni e da lui trasmesso in segreto ai suoi discepoli e da questi di generazione in generazione pare sia stato tramandato fino ai Templari. Un’altra leggenda vuole che i suoi insegnamenti siano stati affidati a Maria Maddalena, prima della sua partenza con altri discepoli di Gesù verso la Gallia (Marsiglia) per sfuggire alle persecuzioni giudaiche. Giovanni morì a Efeso per cause naturali verso la fine del I secolo, durante il regno di Traiano. Altri scritti canonici attribuiti a Giovanni o alla sua scuola sono le tre lettere cattoliche e l’Apocalisse.


Lucio Apulo Daunio



VANGELO SECONDO LUCA



All’evangelista Luca sono stati attribuiti sia l’omonimo Vangelo sia gli Atti degli Apostoli, databili entrambi (prima stesura originale) verso la fine del primo secolo. Luca, medico pagano, nato ad Antiochia, di cultura classica, non è stato testimone oculare delle vicende di Cristo. Il suo vangelo (dedicato a un personaggio illustre, come d’uso presso gli scrittori ellenistici) ha qualche affinità con il messaggio annunciato da Paolo, di cui, secondo la tradizione, era suo collaboratore (Col 4, 14). Egli, prestando eccessiva fiducia alle testimonianze raccolte (trasmesse prevalentemente in forma orale), si rivela narratore fantasioso e inattendibile. Del resto, sia lui che il suo maestro Paolo non furono testimoni oculari dei fatti di cui narrano. Scambia le leggende, desunte dalla tradizione e da anonime testimonianze tramandate dalle comunità cristiane, con la concretezza storica, travisando la verità a fini apologetici. Egli, imbevuto di fede, non ha dubbi sull’autenticità degli eventi narrati e sulla loro rispondenza alla realtà, dimostrando scarsa valutazione critica delle fonti consultate. Luca diventerà una figura leggendaria. Secondo la tradizione, subì il martirio in Beozia (o in Bitinia, secondo san Girolamo) e il suo corpo, sepolto a Tebe, fu in seguito traslato a Costantinopoli e poi a Padova. Vantano di possedere il suo cranio, la città di Praga e quella di Roma. Una leggenda lo vuole pittore di molti ritratti della Madonna.

Si discute tra gli studiosi se sia l’autore del vangelo omonimo, senz’altro rimaneggiato nella redazione a noi pervenuta. Scritto in lingua greca, il vangelo risente dell’ambiente culturale ellenistico. Redatto con stile elegante e forbito, era destinato alle comunità pagane convertite al cristianesimo. Luca dà un’immagine dell’autorità romana meno sfavorevole rispetto a quella con cui raffigura i persecutori giudei di Gesù. Inquadra i misteri della vita di Cristo in una cornice storica, collegandoli alle antiche Scritture e interpretandoli secondo una visione teologica. Fa nascere Gesù, conosciuto come il Nazareno (probabile seguace di un particolare ideale religioso, simile a quello praticato dalla comunità degli Esseni di Qumran), a Betlemme, in Giudea, la città di Davide, da cui secondo le profezie si attendeva la venuta del Messia, liberatore d’Israele. Poiché la sacra famiglia viveva in Galilea, adduce il pretesto di un censimento a fini fiscali, imposto dall’autorità romana, per trasferirla in Giudea, a Betlemme, città natia di Giuseppe, per adempiere l’obbligo censuario (ciò non pare veritiero, stante la consuetudine romana di far registrare la gente nei luoghi di residenza, non di nascita). Inquadra la vicenda della nascita di Gesù al tempo in cui Quirino era governatore della Siria e della Giudea (con la deposizione di Archelao nel 6 d.C., Giudea e Samaria divennero provincia senatoria con capitale a Cesarea Marittima; la Galilea, invece, restò nelle mani di Erode Antipa, sotto tutela romana, fino al 39). Secondo i calcoli di Luca, Gesù sarebbe nato intorno al 6-7 d. C. (in contraddizione con il Vangelo di Matteo, che colloca la nascita di Gesù al tempo di Erode il Grande, morto nel 4 a.C.). In quegli anni (come narra Giuseppe Flavio in Guerra giudaica e Antichità giudaiche) esplode la rivolta anti romana, capeggiata da Giuda il Galileo, fondatore del movimento nazionalista degli Zeloti. Alcuni studiosi, sulla base di taluni passi dei Vangeli, ipotizzano un collegamento di Gesù e degli apostoli con questo movimento politico.

Luca attribuisce a Gesù, divinizzandolo ancor prima della nascita, i titoli di “Maestro” e di “Signore” e lo designa come il “Salvatore”, che redime l’umanità dai peccati con il sacrificio cruento di se stesso. S’inventa la parentela fra la madre di Gesù e quella di Giovanni Battista, il profeta di una setta millenaristica, precursore di Gesù, che andava predicando il battesimo di penitenza in remissione dei peccati. Riporta il leggendario episodio (ignorato dagli altri evangelisti) del ritrovamento di Gesù adolescente, che dialoga con i dottori nel Tempio. Colloca l’ascensione in cielo di Gesù il giorno stesso della risurrezione (in contraddizione con gli “Atti degli Apostoli”, a lui attribuiti, dove l’ascensione sarebbe avvenuta quaranta giorni dopo la risurrezione, durante i quali vi sono state innumerevoli apparizioni del risorto). In Marco, sia il racconto della risurrezione sia quello dell’ascensione in cielo sono considerati dagli studiosi un’aggiunta posticcia. Su questa verità cardine del cristianesimo gli evangelisti presentano versioni difformi. Paolo non è da meno, e aggiunge che il Risorto è apparso persino a lui, l’ultimo degli apostoli, un aborto (1 Co 15, 5-8).
               
          Il Vangelo secondo Luca racconta con parabole (più di quaranta esposizioni allegoriche, con intenti morali e dottrinari, veri e propri artifizi retorici) le verità di fede e gli insegnamenti attribuiti a Gesù. La parabola del mendicante Lazzaro e del ricco Epulone (16, 19 seg.), dove si racconta che alla loro morte l’uno va in Paradiso e l’atro nell’abisso infernale (simboleggiato dalla Geenna, luogo di rovine e immondezzaio di Gerusalemme, cfr. 12, 5), tormentato dal fuoco inestinguibile (cfr. 3, 17), intende rappresentare, per un verso, la misericordia e la ricompensa per i poveri, per un altro verso, la radicale condanna della ricchezza. La parabola delle mine (19, 11-27) vuole significare che per entrare nel regno celeste occorre attivarsi per far fruttare gli insegnamenti ricevuti dall’annuncio del vangelo: la ricompensa sarà proporzionata ai risultati ottenuti. La parabola del buon samaritano (10, 25-37) intende dimostrare che non basta l’osservanza della Legge per meritare la vita eterna, se, indipendentemente dall’appartenenza a una religione, manca la carità verso il prossimo. La parabola della moneta smarrita (15, 8-10) vuole significare che un peccatore che ha perso la fede è più importante di quelli che non l’hanno persa. La parabola della pecora smarrita (15, 3-7) vuole significare che Dio gioisce più per un peccatore smarrito e ritrovato nella fede che per i giusti che non hanno perso la fede. La parabola del figlio perso e ritrovato (15, 11-32) esprime l’amore del padre per il pentimento del figlio prodigo. La parabola del fariseo e del pubblicano (18, 9-14) fa notare che chi si esalta davanti a Dio sarà umiliato e, viceversa, che si umilia sarà esaltato. Le parabole degli invitati al banchetto di nozze (14, 16-24) e quella dei vignaioli omicidi (20, 9-19) condannano inesorabilmente chi rifiuta la parola annunciata nel Vangelo. La parabola del seminatore (8, 4-15) vuole intendere che la parola di Dio fruttifica solo nei cuori che lo accolgono senza remore. La parabola del granello di senape (13, 18-19) vuole significare che una volta seminata la parola di Dio in animi che sanno comprenderla, potrà crescere e farsi grande. Dio non voglia!
            
            Secondo la distorta logica degli evangelisti, l’artificio retorico della parabola nascondeva il significato del mistero della fede a chi non era in grado di comprenderlo, essendo riservato agli eletti ricolmi di Spirito Santo, spettro invisibile, apportatore di carismi. Così sia, per chi voglia credere.


 Lucio Apulo Daunio

sabato 17 settembre 2011



VANGELO SECONDO MATTEO



PARTE PRIMA



Gli evangelisti Matteo e Luca, in buona sostanza, attingono parte delle loro narrazioni dal testo di Marco, accentuandone il miracolismo e integrandolo con citazioni prelevate da una comune fonte. Non sono testimoni oculari della vicenda di Cristo. L’uno e l’altro introducono, contraddicendosi frequentemente (come sul tempo della nascita e sul luogo di residenza della sacra famiglia), elementi biografici leggendari (invenzioni), attingendo a mitologie pagane ed ebraiche, integrandole con il mito della nascita soprannaturale di Gesù, creduto Figlio di Dio, fattosi uomo (divina incarnazione) per salvarci da una biblica, mitica colpa originale. Luca s’inventa anche la nascita miracolosa di Giovanni Battista, un profeta precursore del Messia e di lui probabile parente. Il concepimento per intervento divino è un tema ricorrente nei racconti mitologici, di cui non sono esenti neanche i libri dell’A.T. (come la nascita miracolosa d’Isacco dalla sterile Sara, moglie d’Abramo, cfr. Gn 21, 1-4, e la nascita di Sansone, che si sacrifica per salvare il suo popolo, cfr. Gdc 13, 1 seg. e 16, 27-31). La tradizione culturale ebraica disdegnava il celibato e il nubilato. La Legge, infatti, sollecitava tutti gli individui al matrimonio. Rimanere vergine e nubile, per una donna, era un segno di maledizione divina. Anche per la donna coniugata ma sterile, valeva il medesimo pregiudizio. La concezione della sterilità come castigo di Dio ebbe ripercussioni sui costumi sessuali giudaici. Nell’antica tradizione ebraica, infatti, si riscontrano: poligamia, concubinato, prostituzione e incesto. Pare che il serraglio del re Salomone racchiudesse 700 regine e 300 concubine, e che lo stesso, oltre a spassarsela con l’infedele regina di Saba, tollerasse culti stranieri. Nel tempio di Jahvè si praticava la prostituzione sacra (Dt 23, 18, 1Re 14, 24 e 15, 12 e 22, 47, 2Re 23, 7, Ger 5, 7, ecc.). Il “Cantico dei Cantici” è la testimonianza della vita gaia e sensuale d’Israele in quei tempi. Questi costumi non scandalizzavano Jahvè, che invece si accese d’ira per le depravazioni di Sodoma e Gomorra. Si riteneva, inoltre, che il concepimento di una donna sterile fosse causato da un intervento divino, perciò il figlio da lei partorito si considerava sacro. In verità, poteva essere sterile l’uomo, anziché la donna; ma in quei tempi s’ignorava la sterilità maschile. Quanto al concepimento miracoloso, è più realistico credere a una relazione adulterina. La verginità, maschile o femminile, solo con il cristianesimo assurgerà a virtù d'ordine religioso. Un privilegio esclusivo sarà conferito dai padri conciliari alla madre di Gesù, Maria, designata a concepire il Figlio di Dio per intervento dello Spirito Santo, pur rimanendo sempre vergine, prima durante e dopo il parto, per decreto conciliare. Già l’evangelista Luca, nel racconto della natività, aveva posto in risalto il ruolo di Maria, alla quale le successive generazioni avrebbero attribuito l’appellativo di beata per aver remissivamente accolto l’annuncio di Dio. In Matteo, invece, è Giuseppe (il cui ruolo nella vicenda di Cristo sarà del tutto secondario) che riceve l’annuncio della nascita divina, dopo essersi accorto dello stato di gravidanza della giovane promessa sposa. L’importanza di Maria assurgerà a dignità cultuale con la nascita e lo sviluppo della mariologia, fino a diventare una vera e propria mariolatria con l’invenzione delle innumerevoli “madonne”. La beata vergine immacolata, madre di un uomo chiamato Gesù, elevata dormiente dalla terra, accolta nella gloria di Dio, è festeggiata dai cristiani il giorno 15 agosto. Incoronata e proclamata Regina dei cieli (novella Iside), avvocata dei peccatori presso Dio sovrano, redentrice del mondo, liberatrice dalla morte, consolatrice e maestra, è sommamente venerata come Madre di Dio. La sua mitica casa natale, miracolosamente trasportata dalla Palestina a Loreto, è tuttora idolatrata come Santa Casa (che sia o non quella originaria, trasportata dai templari, è argomento di secondaria importanza per i cristiani). Il Concilio di Efeso, nell’anno 431, decreterà Maria vera Madre di Dio. Un altro privilegio sarà attribuito più tardi: quello dell’immunità dalla colpa del peccato originale sin dal momento del suo concepimento, nonostante che due eminenti dotti cristiani (Bernardo di Chiaravalle nel XII secolo e Tommaso d’Aquino nel XIII sec.) abbiano negato il suo immacolato concepimento. Il dogma dell’Immacolata Concezione sarà proclamato per afflato divino da Pio IX l’8 dicembre del 1854 (giorno di festa comandata). Il beato (!) Pio IX, esattamente dieci anni dopo, con la pubblicazione del Sillabo, condannerà tutte le dottrine moderniste del tempo, ritenute anticattoliche. Il Concilio Vaticano I, nel 1870, decreterà il primato della giurisdizione del Papa su tutta la Chiesa e la conseguente infallibilità del papa, per quanto concerne le definizioni “ex cathedra”, sulle dottrine riguardanti la fede e alla morale. Lo stesso Concilio proclamerà l’autenticità della dottrina cattolica in virtù della Rivelazione e della Fede. San Pio X, nel 1907, condannerà il modernismo (movimento di rinnovamento del cattolicesimo) come eresia, confermando l’immutabilità dottrinaria della Chiesa.  Egli pretese altresì la sottomissione dei dottori esegeti della Sacra Scrittura alle decisioni della Santa Sede e della pontificia commissione biblica non solo riguardo alle decisioni già formulate sulle verità di fede, ma anche di quelle da formularsi in avvenire (irriformabilità della tradizione dogmatica). Il Concilio Vaticano II proclamerà l’inerranza (impossibilità di errore) della Sacra Scrittura, in quanto ispirata da Dio nella persona dello Spirito Santo. Il Magistero della Chiesa, insomma, avoca a sé l’ufficio dell’autentica interpretazione della parola di Dio, scritta nella Bibbia o trasmessa dall’afflato divino ai sedicenti vicari di Dio.







PARTE SECONDA



Il Vangelo c.d. “secondo Matteo”, pervenuto nella traduzione in lingua greca (si discute se l’originale sia stato scritto in lingua ebraica e se la copia pervenuta fino a noi sia un rimaneggiamento del perduto Vangelo degli Ebrei, vicino ai testi della comunità essena di Qumran). Differisce da quello di Marco, non solo perché riporta (come il Vangelo di Luca) i detti (logia) di Gesù, ma soprattutto per le amplificazioni miracolistiche, le aggiunte leggendarie, il tono ieratico e il carattere ecclesiastico che lo contraddistingue. Redatto intorno agli anni 90 in ambiente giudaico-cristiano (forse da un maestro residente ad Antiochia), gli si attribuisce somma importanza teologica, giacché da esso si desume sia il primato della catechesi, fonte di principi dottrinari, sia il primato di Pietro, fondante l’autorità vicaria del pontefice. L’evangelista elabora una genealogia di Gesù finalizzata a dimostrare la sua presunta discendenza dalla reale dinastia di Davide. Attesta che Gesù è il Messia degli ebrei, che porta a compimento l’ebraismo, come ritiene annunciato dalle profezie bibliche. Lo presenta come un Rabbi (maestro), critico del formalismo dei Farisei e portatore di una rinnovata “legge”, finalizzata alla fondazione di un nuovo popolo di Dio (cfr. la parabola degli amministratori malvagi in 21, 33-43). Gesù è chiamato Nazoreo (nazoraios è l’uomo della verità, secondo il Vangelo gnostico di Filippo) in adempimento di una profezia biblica (non riscontrabile in nessun passo dell’Antico Testamento). Così è anche chiamato nei Vangeli secondo Giovanni e negli Atti degli Apostoli. Nei Vangeli secondo Marco e Luca, invece, è chiamato Nazareno. Il termine nazarenos è stato interpretato come abitante di Nazareth, villaggio individuato in tempi successivi a quello di Gesù. Taluni studiosi lo pongono in relazione al termine naziyr, cioè al voto di nazireato, oppure al termine netser, che in senso figurato può significare colui che germoglia dalla discendenza del re Davide, (cfr. oracolo di Isaia 11, 1). L’appellativo Nazoreo o Nazareno non è utilizzato nelle lettere di Paolo e nell’Apocalisse. Nazaret, villaggio della Galilea, è menzionato per la prima volta nelle perdute “Cronografie” di Sesto Giulio Africano (183-256 e.v.), profondo conoscitore della Palestina, citate da Eusebio di Cesarea (265-340 e.v.). Eusebio, peraltro, appare storico inattendibile, essendo fautore dell’uso della menzogna come medicina, come scrive nella sua opera “Storia ecclesiastica”.

Il Vangelo matteano inizia introducendo una discutibile genealogia di Gesù per evidenziarne l’aspetto regale: la sua identità ebraica e la discendenza dal re Davide (in contrasto sia con la successiva affermazione della sua figliolanza divina, sia con l’umiltà della nascita in una stalla, da un padre putativo, di mestiere falegname, sia con il suo insegnamento teso a imitare un ideale di vita fatto di remissività e povertà). Segue il racconto della nascita a Betlemme per attestare che egli è il messia atteso dagli ebrei (secondo le Scritture, il Messia sarebbe dovuto nascere a Betlemme, città di Davide). La mitica nascita da una vergine lo accredita come Figlio di Dio. La leggendaria visita dei Magi (forse sacerdoti di religione mitraica), che guidati da una stella vengono ad adorarlo in una grotta a Betlemme, attesterebbe il suo riconoscimento anche da parte dei non giudei. La fuga in Egitto della sacra famiglia e il successivo ritorno intendono richiamare la sofferenza del popolo d’Israele durante la cattività in Egitto e il susseguente esodo. La dubbia persecuzione d’Erode il Grande anticipa il tema dell’ostilità dei giudei per il Cristo Gesù e per i suoi seguaci. L’elenco delle beatitudini (c.d. “Discorso della Montagna”) designa il codice della morale evangelica: una morale non schietta e disinteressata, bensì condizionata da premi e castighi nell’aldilà. Il discorso escatologico annuncia l’inizio delle tribolazioni per l’umanità, preda di Satana, prima della fine violenta del mondo. Altri episodi leggendari sono concentrati negli ultimi due capitoli del Vangelo. Il racconto della passione presenta diverse interruzioni per porre in evidenza la morte tragica di Giuda Iscariota (27, 3-10), la leggendaria visione della moglie di Pilato (27, 19), l’improbabile rito del lavaggio delle mani di Pilato (27, 24-25), i segni apocalittici apparsi mentre Gesù spirava (27, 51-54). L’episodio concernente l’apparizione del Risorto agli apostoli, investendoli di poteri carismatici ed esortandoli a esercitare in perpetuo la missione di annunciare il vangelo a tutte le genti del mondo, battezzando i neofiti nel nome della divina Trinità (Mt 28, 16-20) è, secondo la maggior parte degli studiosi, un’aggiunta posteriore, dunque una mistificazione (atteso che Gesù stesso aveva profetizzato l’imminente fine dei tempi, ancor prima che gli apostoli potessero ammaestrare tutte le genti - cfr. Mt 10, 23; 24, 34; 26, 64). Divine Trinità erano già note nel paganesimo, come il mito della triplice luna, la Trimurti degli Indù, l’Ermete trismegisto (cioè tre volte grande), il gruppo trinitario egizio di Osiride, Iside e Horus, la variante ellenistica di Serapide, Iside e Arpocrate, la potentissima trinità greca di Zeus, Atena ed Ermes, quella capitolina di Giove, Giunone e Minerva, quella arcaica di Giove, Marte e Quirino. Secondo la scuola pitagorica, il numero tre era il numero dell’armonia e della perfezione, composto di unità e diversità, perciò si considerava espressione della divinità. Numerose sono le citazioni profetiche (un espediente letterario volto ad avvalorare una verità teologica) per mostrare (infondatamente) che gli eventi della vicenda di Gesù sono stati predetti dalle antiche Scritture e che non vi è rottura tra il Vangelo e il giudaismo, tra la nuova legge e quella di Mosè (Mt 5, 17-20). Gesù, insomma, professa la sua fede nelle promesse divine, dichiarando d’essere venuto nel mondo per attuarle, portando però non la pace, ma la spada (Mt 10, 34).

Il Vangelo secondo Matteo, espressione delle comunità giudaiche convertite al cristianesimo, riflette le attese religiose del giudaismo messianico, che si collegano alla credenza dell’imminente fine del mondo, accompagnata da un rinnovamento universale. Nel Vangelo domina il tema della realizzazione delle promesse messianiche di Gesù, identificato con vari appellativi: Cristo (Messia), Figlio di Davide, Figlio di Dio. Segno della nuova Alleanza non è più la circoncisione, ma il battesimo con acqua e con Spirito. L’annuncio del regno di Dio e della nuova fede, ancorché predicato entro i confini del giudaismo (Mt 10, 5-6), porterà alla rottura con la tradizione giudaica e alla conseguente apertura del messaggio salvifico ai gentili (Mt 28, 19-20). L’antica tradizione ecclesiastica attribuiva il Vangelo in questione all’apostolo Matteo, detto anche Levi, un pubblicano convertito da Gesù (Mt 9, 9-13). La recente indagine critica, invece, ha stabilito che si tratta di un differente autore, un giudeo-cristiano, che ha consultato diverse fonti, tra cui il vangelo di Marco. Né l’uno né l’altro autore, però, sono stati testimoni oculari delle vicende del Nazareno. La redazione definitiva è fatta risalire al periodo successivo alla distruzione di Gerusalemme (70 d.C.). Una variante del Vangelo secondo Matteo è l’apocrifo “Vangelo degli Ebrei”, citato dai Padri della Chiesa, redatto in ambiente giudeo-cristiano dai c.d. Nazareni, che adottarono la nuova fede senza rinunciare all’osservanza della Legge. Il “Vangelo degli Ebrei” era accettato anche dagli Ebioniti, che respingevano l’insegnamento paolino e negavano la divinità di Cristo. L’evangelista Matteo andò a predicare il vangelo in Etiopia, dove subì il martirio. Le reliquie dell’apostolo, trasferite dall’Etiopia in diverse regioni, trovarono definitiva sistemazione nella cattedrale di Salerno.


 Lucio Apulo Daunio




VANGELO SECONDO MARCO

"Rari e felici i tempi in cui è permesso di pensare ciò che si vuole, e di dire ciò che si pensa" (Tacito, Historiae, I,1)

LA CRITICA NON CONOSCE TESTI INFALLIBILI (Ernest Renan)




Il Vangelo secondo (cioè non di, ma attribuito a) Marco, redatto in Italia nella seconda metà del I secolo (forse, dopo il 70, anno della distruzione di Gerusalemme e del Tempio) in conformità a tradizioni siriane, si ritiene che sia il più antico e quindi il più conforme alle originarie memorie tramandate dalle prime comunità cristiane. Come i successivi vangeli, non è esente da quel processo inevitabile di reinterpretazioni e rielaborazioni teologiche, durante la trasmissione del messaggio originario, per avvalorare maggiormente la narrazione dei fatti o le particolari convinzioni e finalità di una delle tante comunità cristiane dell’epoca. Alcuni studiosi ritengono che l’apocrifo Vangelo di Tommaso Apostolo (considerato come “Quinto Vangelo”), d’ispirazione gnostica, possa essere la c.d. “fonte Q”, cioè l’ipotetico documento originale, sulla base del quale sono stati in seguito elaborati i testi dei tre Vangeli sinottici. Il Vangelo marciano, pervenuto in lingua greca, risente dell’influenza della cultura occidentale (per la presenza di vari latinismi), essendo destinato alla Chiesa di Roma, formata prevalentemente da “gentili” di formazione culturale pagana (come quando fa riferimento all’adulterio commesso da una donna che ripudia il marito, non ammissibile nella società giudaica, dove solo l’uomo poteva ripudiare la moglie; cfr. Mc 10, 12). Ha uno stile semplice, popolare, paradigmatico. Rimarchevole è l’insegnamento autoritario, prescrittivo, dottrinario, che si ritiene abbia impartito Gesù di Galilea, detto il Cristo (=Messia). I suoi esorcismi, che rivelano il suo potere di comandare agli spiriti impuri, gli procurano fama presso il popolo (Mc 1, 27-28). L’evangelista descrive Gesù come un personaggio apolitico, astorico, provvisto di una doppia natura, umana e divina (un’assurdità). Mancano i riferimenti cronologici e i dettagli biografici. L’immediatezza del racconto entra nel vivo della vicenda del Nazareno (Nazarenos), cercando di mettere in luce l’umiltà e l’alone di mistero che lo circonda. Il Vangelo marciano, in verità, inizia “ex abrupto” con la solenne proclamazione della sua divina identità: egli è il Cristo, Figlio di Dio (Gesù, però, si autodefiniva “Figlio dell’uomo"). Egli è venuto ad annunziare l’imminenza del suo Regno (si discute se sia da realizzare in terra o in cielo), essendosi compiuto il tempo di attesa delle profezie messianiche, e iniziato il tempo escatologico. Come intende l’evangelista dimostrarlo? Lo dimostra appellandosi ai miracoli da lui compiuti, alla testimonianza del Padre celeste (cioè alla voce udita durante il rito del battesimo e alla visione descritta nell’episodio della trasfigurazione), al riconoscimento attestato dagli spiriti impuri (i demoni), all’esclamazione pronunciata dal centurione romano ai piedi della croce. La divinità di Gesù la desume altresì sia dagli episodi in cui egli giustifica la non osservanza del riposo del sabato sia dalla vantata potestà di rimettere i peccati. Secondo alcuni studiosi (Unterbrink, Donnini, Cascioli e altri), la vicenda di Gesù è la ricostruzione storica (la controfigura) del patriota galileo Giuda di Gamala, stante le scarse notizie biografiche su di lui.

Marco (sotto il cui nome si cela l’anonimo redattore del vangelo) era il soprannome di Giovanni di Gerusalemme, figlio di quella Maria nella cui casa si radunavano i primi cristiani (At 12, 12. 25). Fu compagno di Paolo e Barnaba (At 12, 25), ma anche collaboratore di Pietro (1 Pt 5, 13), del quale, secondo la tradizione cristiana (Papia), avrebbe utilizzato la predicazione come fonte principale della sua testimonianza. In verità, nulla si conosce della predicazione di Pietro, salvo quanto riportato dagli Atti degli Apostoli, dalle due lettere cattoliche a lui attribuite (dove indica Marco come suo figlio, cfr. 1 Pt 5,13), dall’apocrifo Vangelo di Pietro (databile alla fine del II sec.). Il Vangelo marciano (come anche quelli lucano e giovanneo) non riporta il riconoscimento del primato ecclesiale di Pietro (cfr. Mt 16, 17 seg.) né presenta affinità con il “vangelo” predicato da Paolo. Omette inoltre la polemica anti-farisaica di Gesù e il discorso sulle beatitudini. Manca la genealogia di Gesù. L’autore, che si cela sotto lo pseudonimo di Marco, non è stato un testimone oculare della vicenda di cui narra. Egli è un pagano convertito e ha redatto il vangelo interpretando e sistemando in modo organico antiche testimonianze, raccordandole alla mentalità dei suoi lettori. Marco, infatti, mostra di avere scarse conoscenze geografiche della Palestina e dei luoghi cui gli episodi narrati si riferiscono (cfr. Mc 5, 1 seg. e 7, 31). La mobilità di Gesù è descritta come un peregrinare continuo da un luogo all’altro. L’evangelista ignora gli usi ebraici in materia di divorzio (cfr. Mc 10, 12). Cita una profezia dal libro di Isaia (Is 29, 13), non secondo la versione della Bibbia ebraica, bensì nella posteriore traduzione greca della Bibbia dei Settanta (Mc 7, 7).

La breve vita pubblica di Gesù, rappresentata dall’evangelista, inizia con l’investitura messianica, mediante il battesimo somministrato dall’asceta Giovanni Battista, e termina con la condanna a morte e la successiva resurrezione. A differenza degli altri vangeli sinottici (Matteo e Luca), quello secondo Marco non descrive né la genealogia di Gesù (la presunta discendenza dal re Davide) né la miracolosa natività né la supposta verginità della madre né le generalità del padre putativo (Giuseppe, il falegname). Questo vangelo tace riguardo alla Sacra Famiglia, della quale gli altri due evangelisti divagheranno con storie inverosimili. Marco, negando la discendenza di Gesù da Davide (Mc 12, 35 seg.), si discosta dall’attesa messianica dei giudei, che attendevano un messia politico, restauratore della potenza di Israele. In Marco, il carattere di Gesù appare non esente da intemperanze (come la maledizione del fico) e da comportamenti riprovevoli (come la cacciata dei mercanti dal Tempio). Del resto, lui non è buono come il Padre (Mc 10, 18). Marco non riporta le “beatitudini” proclamate da Gesù nel “discorso della montagna” (cfr. Mt 5). Quanto all’epilogo concernente l’apparizione del Risorto (Mc 16, 9-20), verosimilmente si tratta di un falso letterario, aggiunto posteriormente, dato che nei più antichi manoscritti questo vangelo si chiude con la fuga delle donne dal sepolcro di Gesù trovato vuoto. La testimonianza del soggiorno di Gesù in terra pagana (Mc 7, 24-37), può spiegarsi con la tardiva redazione del vangelo in un’epoca in cui l’attività missionaria si svolgeva anche tra i non giudei. Marco insiste sul segreto messianico e sulla necessità del sacrificio di Cristo per l’umana salvezza, giacché egli non permetteva ai demoni di svelare la sua identità (Mc 1, 25.34; 3, 12). Egli proibiva a chi assisteva ai suoi prodigi, e soprattutto ai miracolati, di propagandare quanto avevano visto riguardo alle guarigioni, apparentemente miracolose, a beneficio di pochi, meritevoli del suo beneplacito (Mc 1, 44 e 5, 43 e 7, 36 e 8, 26). Forse perché tali guarigioni, mostrando la soprannaturale potenza del Cristo, avrebbero potuto renderlo sospetto di stregoneria, mettendolo nei guai. Forse perché aveva scarsa considerazione della sua attività taumaturgica, non paragonabile con le opere benefiche elargite dal Padre celeste, degne di pubblico riconoscimento (cfr. Tb 12, 7). Persino agli apostoli intimava di non raccontare a nessuno la sua divina identità messianica (Mc 8, 30), almeno fino a quando non fosse risorto dalla morte (Mc 9, 9). I discepoli, del resto, temevano la sua potenza e non sempre comprendevano l’insegnamento delle parabole, le predizioni apocalittiche riguardo alla città santa (che sono, verosimilmente, predizioni “post eventum”, in quanto redatte dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70) e quelle inerenti al suo triste destino per riscattare i peccati degli uomini (Mc 4, 13.41; 6, 49-52; 8, 17-21; 9, 32). Non le comprendevano neanche i tre apostoli più intimi di Gesù, ai quali rivelò, durante l’episodio della trasfigurazione, la sua pretesa entità divina (Mc 5, 37; 9, 2; 14, 33). Dopotutto, solo a loro Gesù insegnava i misteri del regno di Dio (Mc 4, 10-12), svelando cose nascoste fin dall’origine del mondo (Mt 13, 10-11.35; Lc 8, 9-10). Come potevano però i suoi discepoli comprendere, mentre consumavano il pasto dell’ultima cena, che stavano mangiando il suo corpo (un grave sacrilegio per la concezione ebraica) e bevendo il suo sangue, che stava per versare per molti a suggello della nuova alleanza? Del resto, neanche Gesù conosceva tutti i misteri del Padre celeste (Mc 13, 32). Gli apostoli, per giunta, lo abbandonarono, quando fu arrestato, e non credettero all’annuncio della sua resurrezione. Marco pone in risalto la potenza carismatica di Gesù, della quale beneficerebbe il credente, dando ascolto con fede salda alla verità da lui annunciata (16, 16-18). I segnati dalla potenza della fede saranno, parola di Gesù, provetti guaritori, esorcisti, poliglotti, indenni ai veleni. Ne consegue che chi non manifesterà questi carismi sarà persona di debole fede? Ai giorni nostri, i fedeli in Cristo non sembrano possedere segni carismatici. Chiunque però, secondo la decisione sancita dai padri conciliari durante la sessione del Concilio di Costantinopoli dell’anno 543, non darà ascolto alla verità annunciata nel vangelo, sarà condannato irrimediabilmente all’eterna sofferenza nel fuoco inestinguibile dell’inferno (della cui esistenza si è pronunciato il Concilio Primo Lateranense nel 1123). Le pene minacciate dal Cristo Gesù, per chi non crede al suo vangelo, sono eterne, non più circoscritte a qualche generazione, come aveva stabilito Dio Padre, facendo scontare ingiustamente ai figli la colpa dei padri (Es. 20, 5).

La mistica trasmissione della potenza e sapienza divina, avvolta nel mistero, l’apostolo Paolo, ministro di Gesù e amministratore dei misteri di Dio, annunziava ai perfetti: gli iniziati all’arcano salvifico di Cristo (1 Co 2, 6-7; 4, 1, Rm 16, 25-27). Il cristianesimo, infatti, presenta molte analogie con le religioni misteriche diffuse nell’impero romano (soprattutto con il mitraismo). Concorrente del cristianesimo era la religione misterica del dio della luce, Mitra, assimilato al Sole Invitto, venerato di domenica (giorno del sole). Il mitraismo presentava non solo analogie cultuali (banchetto sacro, purificazione, celebrazione del natale del dio, sua incarnazione tramite il ventre di una vergine, nascita in una grotta, morte del dio all’età di trentatré anni, assunzione in cielo) e iconografiche (rappresentazione del triplice Mitra con l’aureola), ma anche attese di salvezza dei seguaci alla fine dei tempi (risuscitazione dalla morte). L’iniziato ai misteri di Mitra, dopo aver raggiunto il settimo grado di perfezione (quello di Padre), rappresentava il dio in terra, indossava paramenti e copricapo rossi (come i cardinali) e portava (come porterà l’alta gerarchia clericale cristiana) un bastone pastorale ricurvo, simbolo di potere. Si ritiene plausibile che il cristianesimo abbia assorbito caratteri e riti cultuali propri della religione mitraica allora in voga nel mondo ellenistico-romano.

Marco riporta il discorso apocalittico sulla fine sconvolgente e dolorosa dei tempi (escatologia) e l’avvertimento di Gesù a non credere ai falsi cristi portatori di segni e prodigi. I segni di costoro sono opera del maligno, non segni divini, come erano invece accreditati i presunti carismi degli apostoli. Clemente Alessandrino testimonia (secondo un manoscritto della cui autenticità si discute) la tradizione esoterica della chiesa d’Alessandria e l’esistenza di un Vangelo segreto di Marco, accessibile solo agli iniziati ai grandi misteri. Chi ha fede in Dio può compiere miracoli, perché tutto è possibile a chi crede (9, 23): basta un minimo d’autentica fede (Lc 17, 5-6). Dio può ogni cosa (10, 27). Tutto ciò che a lui si chiede con fede, mediante la preghiera, si ottiene (11, 22-24). Nulla è impossibile a Dio (Mt 17, 20; 21, 22). Inoltre, chi crede nel Figlio, farà opere anche più grandi di lui (Gv 14, 12-14). Nei santuari cristiani molti infelici pregano e sperano di essere esauditi. Invano versano lacrime all’impietoso dio! Gesù conferirà agli apostoli addirittura il potere (giudiziario) di perdonare o condannare i peccati degli uomini (Gv 20, 22-23). La Chiesa presume di aver ereditato tale potere. I cristiani, al tempo di Marco, credevano imminente il ritorno di Cristo risorto (parusia) e la conseguente fine del mondo. La pia illusione dell’imminente accadimento escatologico si ritorse presto in cocente delusione e fu rimandato a tempo indeterminato.

Secondo la tradizione (Eusebio di Cesarea, Jacopo da Varagine), Marco fu eletto vescovo di Alessandria d’Egitto, dove subì il martirio sotto il regno di Nerone. Delle spoglie del santo non si seppe più nulla dopo il quarto secolo. Nell’anno 828 il suo presunto cadavere fu trasportato segretamente da Alessandria a Venezia da due mercanti intenzionati a trafugare la preziosa reliquia con ogni mezzo per dare lustro all’emergente città lagunare e alla nuova basilica realizzata.


Lucio Apulo Daunio



CONTRADDIZIONI CRISTIANE



Dio non riconosce nel suo regno condizioni di privilegio (un avvertimento di Gesù agli Israeliti, che non volevano convertirsi al suo credo). Nella sua vigna gli ultimi operai ingaggiati saranno equiparati ai primi e tutti, cominciando dagli ultimi chiamati, otterranno la medesima mercede (Mt 20, 1-16). Chi ha dato di più, dunque, avrà il medesimo trattamento di chi ha dato di meno o di chi si converte nell’ultimo istante di vita? Giammai! A Dio è lecito donare le sue grazie come più gli aggrada. Secondo Gesù, infatti, gli ultimi saranno i primi e i meno operosi saranno paragonati ai più industriosi. I cristiani meno zelanti, dunque, saranno privilegiati? Senza contare poi che agli apostoli, che avevano abbandonato tutto per seguirlo, egli promise mari e monti, troni di gloria, toghe di giustiziere, vita eterna e ricompense centuplicate in terra e in cielo (Lc 18, 28-30, Mc 10, 28-30, Mt 19, 27-29). Questo favorevole trattamento aveva loro promesso in ricompensa di tutte le sofferenze che avrebbero patito per causa sua. Le autorità giudaiche, infatti, lisciarono a dovere il pelo a Cristo e ai suoi seguaci, considerati eretici e blasfemi. Nerone pure sembra che abbia addossato ai giudeo-cristiani la responsabilità dell’incendio di Roma. I cristiani furono condannati e bruciati come torce per illuminare i viali dei suoi giardini. Al tempo dell’imperatore Domiziano, quando i cristiani furono ufficialmente distinti dagli Ebrei per ragioni fiscali, molti di loro subirono il martirio. Infatti, qualora fossero stati denunciati, sarebbero stati passibili di reato d’ateismo, se avessero disconosciuto la religione dello Stato e rifiutato di sacrificare alle divinità. Le vittime di queste persecuzioni come saranno ricompensate in cielo? Non è dato sapere. La Chiesa, intanto, li ha beatificati e santificati come martiri per la fede. Anche i pii cristiani, pur non avendo subito persecuzioni, potranno ottenere (post mortem) gli onori dell’altare per l’esemplarità di vita (salvo raccomandazioni e sollecitazioni per accorciare i tempi delle lungaggini burocratiche per la loro canonizzazione e salvo il diverso peso numerico dei miracoli loro attribuibili). Gesù promise abbondanti ricompense anche ai credenti più operosi, ancorché ingaggiati per ultimi tra le file dei cristiani. Ai cristiani neghittosi, invece, dichiarò che non avrebbe tenuto conto del loro modesto impegno (Mt 25, 14-30; Lc 19, 11-28). Chi poi, avendo da lui ricevuto le sue grazie, non darà i frutti attesi, sarà addirittura reciso come una pianta sterile (Lc 13, 6-9). Il servo infingardo, infatti, sarà gettato nelle tenebre esteriori a mugugnare per l’eternità, con stridore di denti, e a versare fiumane di lacrime. Così disse e così sarà, per buona pace di chi ci crede. Persino pubblicani e meretrici, ingaggiati nella vigna di Dio, passeranno nel regno dei cieli avanti ai farisaici giudei, formalisti seguaci delle prescrizioni mosaiche attestate dal terribile Jahvè (Mt 21, 28-32). I cattivi vignaioli giudei, pur essendo ingaggiati per primi, non avendo dato buoni frutti, saranno sterminati e sostituiti dai nuovi coloni cristiani (Mt 21, 33-41). Molti sono gli invitati (Israeliti) al banchetto nuziale, ma pochi gli eletti che accetteranno l’invito. Chi non si presenterà alle olimpiche nozze, rivestendo l’abito nuovo del cristiano, sarà gettato nelle tenebre esteriori, dove con stridore di denti verserà lacrime amare in eterno (Mt 22, 1-14).

Quanto al popolo eletto, per loro la pacchia era finita. Non potevano più considerarsi dei raccomandati, perché non avevano risposto al richiamo salvifico di Cristo, né al precedente appello di Giovanni Battista. Preferiti erano invece pubblicani e meretrici, disposti a convertirsi. I Giudei, dunque, poiché onoravano Dio solo a parole e non con i fatti, furono esclusi dal suo regno (Mt 21, 28-32). Gesù li accusò di osservare scrupolosamente e acriticamente le loro avite tradizioni, di essere legati più alla forma che alla sostanza dei precetti. Dal loro punto di vista, però, colpevole era Gesù, che fattivamente sovvertiva le loro istituzioni. Restando fermi nelle loro convinzioni, i giudei non si lasciarono intimidire dalle minacce dell’eretico nazareno. Questi li tacciò di malvagità e di durezza di cuore, e li condannò alle pene infernali per essersi rifiutati di convertirsi al suo credo (Mt 21, 33-46; Mc 12, 1-12; Lc 20, 9-18). L’ebreo, che non voleva farsi cristiano, era considerato da Paolo come un ribelle, perché non si riduceva all'ubbidienza del Vangelo, norma assoluta di verità. Il reprobo, a causa del suo comportamento, ammassava contro di sé l’ira di Dio, che avrebbe poi scontato con tribolazioni e angustie opprimenti, su questa terra e nell’aldilà, mediante la giustizia giudicatrice di Dio (Rm 2, 1-10). Sempre secondo l’illuminato Paolo, davanti al tribunale di Cristo, in funzione giudicante su delega del Padre, sarà applicata la norma della retribuzione (2 Co 5, 10). In altri termini, ciascuno sarà compensato o castigato secondo le opere buone o malvagie compiute (cuique suum). Soprattutto non vi saranno favoritismi di persona (Rm 2, 11). Insomma, i buontemponi cristiani, meritevoli di godersi i celesti prati d’asfodelo, saranno giudicati tutti con eguale criterio? Che cosa accadrà quel giorno lassù, alla fine dei tempi, non è chiaro, salvo per chi avrà il privilegio di salire oltre il settimo cielo. Stia attento costui, se riceverà l’onore di essere invitato al banchetto di Dio, di non ambire ai primi posti a tavola, comportandosi alla maniera farisaica, ma di presentarsi in tutta umiltà (Lc 20, 45-47). Chi si umilia per amore di Dio e del prossimo sarà innalzato alla sua mensa, dove godrà l’assegnazione di un posto privilegiato (Lc 14, 7-11). Alleluia!

Gli Israeliti, pur essendo stati chiamati per primi al banchetto nel regno di Dio, hanno respinto l’invito; pertanto, in quanto fedifraghi, sono stati condannati a essere precipitati nelle tenebre esteriori. Al posto del popolo eletto, sono stati chiamati i peccatori e i pagani, purché si mostrino degni dei doni (spirituali) e delle sofferenze (materiali) che sono loro elargiti durante il convito messianico (Mt 8, 10-12 e 22, 1-14, Lc 14, 15-24). Nel regno di Dio è stata piantata una nuova vigna e un nuovo popolo è stato chiamato per farla fruttificare. Questo nuovo popolo è paragonato ai tralci che danno buoni e abbondanti frutti, purché restino in continua unione con la vite, cioè con Cristo. Se però un tralcio non porta frutto, sarà reciso (Gv 15, 1-8). I viticoltori cristiani, brilli per l’abbondante bevuta d’inebriante vino evangelico, s’illudono di conoscere la suprema verità (in vino veritas).

Gesù, che tutto perdona, non condona gli increduli. Dai suoi seguaci, intanto, pretende un illimitato perdono; lui, invece, non perdonerà nel giorno dell’ira. Reclama altresì (Lc 10, 25-37) un amore incondizionato verso Dio (alla cui stirpe Gesù appartiene per decreto conciliare) e verso il prossimo (ossia tutti: amici e nemici, giudei e pagani, ricchi e poveri, onesti e disonesti). Lui, intanto, ama e prega Dio (cioè se stesso nella persona del Padre). Si sacrifica sulla croce per attuare la volontà del Padre. Dopotutto, sa che all’umiliazione seguirà la gloriosa apoteosi nel regno dei cieli (Fl 2, 6-11). Ama il suo prossimo, ma a una condizione: che si converta alla sua fede, pena l’atrocità dell’inferno per i reprobi. Alle minacce del poco misericordioso ebreo Gesù, preteso re del cielo e della terra, i suoi zelanti rampolli faranno seguire i fatti, spedendo all’altro mondo, a loro insindacabile giudizio, chi avrà perduto il bene dell’intelletto per aver trasgredito alle norme di fede codificate dai successori di Pietro. Le verità assolute di Cristo e dei suoi rampanti interpreti non sono suscettibili di essere revocate in dubbio. Chi ha rispetto di sé e dei propri simili, rifugga dall’illusoria astrazione cristiana, foriera di un pernicioso fondamentalismo.

Gesù raccomanda ai ricchi, quando offrono banchetti, di non invitare parenti o amici o potenti signori, che possono a loro volta ricambiare l’invito. I ricchi, per essere buoni cristiani, devono invitare poveri o storpi o ciechi o diseredati, che non hanno modo di contraccambiare. Solo così dimostrano che il dono è fatto per amore, senza attendere una ricompensa, che sarà invece elargita nell’aldilà, dove si godrà il ben di dio (Lc 14, 12-14). Per meritarsi la vita eterna, non si deve giudicare il prossimo, anche se si ha a che fare con nemici che ci perseguitano. Questi, anzi, li dobbiamo amare, sfamare, dissetare, ospitare e fargli visita, qualora si trovino in gattabuia (Mt 5, 44 e 7, 1 e 25, 42-43). Paolo, l’illuminato da Dio, è di contrario avviso. Secondo lui, il reo deve essere giudicato e condannato. Bestemmiatori e peccatori vanno abbandonati a Satana per la rovina della loro carne, affinché lo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore (1 Co 5, 1 seg; 1 Tm 1, 20). Satana, dunque, nella visione di Paolo, assume una funzione positiva. Egli è castigatore dei vizi degli uomini, ai quali mortifica la carne per consentirgli la salvezza dello spirito. Se così stanno le cose, non si dovrebbe più parlare d’eterni castighi, e la funzione (invenzione) di Satana andrebbe rivalutata in positivo. Paolo, in ogni caso, non è propenso a mischiare la comunità dei cristiani con i peccatori, a sedersi a tavola con impudichi, cùpidi, idolatri, blasfemi, ubriaconi, ladri e gente di bassa risma. Ordina quindi di scomunicare il cristiano perverso, la mela marcia, contrariamente al suo divino ispiratore, che non indugiava a mischiarsi con ogni risma di peccatori e persino a banchettare con loro (1 Co 5, 11-13). Vero è che anche Gesù minacciò scomuniche a destra e a manca, ma queste attenevano le anime prave, escluse dal banchetto delle mistiche nozze di lui con i suoi fedeli nel mitico regno celeste. Egli, a differenza di Paolo, non si scandalizzava dei peccatori, perché era di cuore retto (omnia munda mundis). Paolo, invece, cerca di preservare i cristiani, lavati con il battesimo di fuoco, dal contatto con impuri e viziosi, quali sono gli adulteri, gli effeminati, i depravati, i maldicenti, i consanguinei incestuosi e simili. Costoro, essendo stati diseredati dal regno di Dio, non hanno nulla da spartire con i santi cristiani, giustificati (redenti) dal lavaggio del battesimo e meritevoli di essere salvati (1 Co 6, 9-11).

Giustificati i santi cristiani? Un corno! Paolo, infatti, dovette intervenire con autorità per dirimere le liti tra i santi cristiani della chiesa di Corinto, che tra beghe e ripicche quotidiane si beccavano tra loro, citandosi presso i tribunali pagani (1 Co 6, 1 seg). Egli non voleva che quei veraci cristiani, creature di Dio, adissero i tribunali pagani. Non sia mai! La giustizia pagana, per lui, era somma ingiustizia. Diverso giudizio espresse quando inviò ai fratelli romani (Rm 13, 1-7) il panegirico dell’autorità profana. In quella missiva Paolo sosteneva che ogni potere proviene da Dio. Anche nell’epistola a Tito (Tt 3, 1) rammentò il dovere dell’obbedienza alle autorità costituite. Ai Corinzi, invece, decretò di dirimere le liti nel foro della Chiesa, mediante responso dei santi giudici cristiani, i più umili tra loro. A suo giudizio, un giorno gli umili santi cristiani giudicheranno il mondo e persino gli angeli del Signore; perciò essi, a maggior ragione, erano competenti a giudicare anche le misere bagattelle dei (poco santi) cristiani di Corinto. Meglio sarebbe per la loro salvezza, che gli offesi patissero cristianamente il torto subito dal fratello. Se proprio volevano giustizia, era preferibile lavare i panni sporchi in famiglia, piuttosto che ricorrere a un’autorità che non aveva più alcun fondamento, poiché era imminente l’avvento del regno di Dio. Forse, per raffreddare i bollenti spiriti di certi santi cristiani, occorrerebbe battezzarli con gelida acqua, piuttosto che attizzarli col sacro fuoco dello Spirito Santo. La storia del cristianesimo, purtroppo, abbonda di spiriti infocati, intolleranti, scellerati. Quanto ai Corinzi, dalla lettera di Paolo si evince che avevano bollente anche l’impulso sessuale, per quanto si sforzassero di restare morigerati. In effetti, quanto più reprimevano i loro istinti biologici, tanto più l’impudicizia aveva buon gioco. Neanche l’usbergo dello Spirito Santo li proteggeva dalla lascivia dei sensi. Folleggiando con il sesso, profanavano il loro corpo, santuario di Dio, perciò furono condannati da Paolo (1 Co 6, 12 seg). Stuprare il proprio fisico con l’impudicizia, infatti, significa distruggere il sacro tempio di Dio in esso dimorante, subendo così la sua vendetta (1 Co 3, 16-17). Il peccato d’impudicizia, a giudizio di Paolo, è peccato contro il proprio corpo; qualunque altro peccato, invece, sta fuori (anche il suicidio e l’autolesionismo?). Mah!
         

  Lucio Apulo Daunio