LO STATO IDEALE SECONDO PLATONE
Credo che il
fine di una società civile sia la libertà dei singoli cittadini, e che le norme
che disciplinano la condotta dei medesimi siano fondate sui principi di
umanità, di ragionevolezza, di uguaglianza. Tali norme, giacché stabilite dalla
società civile mediante le regole della democrazia, che implicano la
discussione critica e la vigilanza contro movimenti reazionari, sono
modificabili perché possono essere fallibili.
Il futuro
dipende dall’intelligenza e dalla responsabilità dell’uomo, dalla sua
acquisizione del sapere scientifico, non da leggi universali e necessarie
dedotte dalla metafisica dello storicismo o desunte dalla rivelazione di
supposte entità divine (teologismo).
La storia non
è il prodotto di un inesorabile destino né di una misteriosa volontà divina. La
falsa credenza teistica di un popolo eletto, privilegiato dalla volontà di un
ente divino a padroneggiare sugli altri popoli; o la falsa credenza in una
razza biologicamente superiore o in una classe sociale eletta, destinate sia
l’uno che le altre a dominare la terra e ad avere supremazia economica,
rappresentano tutte un serio pericolo alle libertà democratiche.
Il mondo, come
aveva intuito Eraclito, è un processo continuo in divenire tra forze in opposizione
tra loro. Tutto si muove, nessuna cosa è stabile (se non in apparenza).
Wittgenstein affermava che il mondo è la totalità dei fatti, cioè degli eventi,
non delle cose. Il processo di cambiamento e di trasformazione nel mondo del
diveniente storico non implica che esso sia necessariamente governato da una
legge universale, immutabile, o che sia predeterminato da un inesorabile Fato.
I mutamenti sociali nella storia umana non hanno alcun nesso con la
pessimistica concezione esiodea della decadenza da un’Età dell’Oro e da una
primitiva vita beata, verso successivi periodi storici regredenti. Falsa è la
teoria, sostenuta da Platone, secondo la quale, arrestando ogni mutamento
politico, s’interrompe il processo di corruzione politico. Insomma, non è vero,
come pensava Platone, che lo stato perfetto, copia di quello originario, da lui
idealizzato, sia quello governato da una casta di saggi filosofi, che sappiano
preservarlo dal cambiamento e dalla corruzione. Platone assimilava il suo
ideale di stato a quello mitico dell’Età dell’Oro, prima che il cambiamento
(causato dalla discordia degli interessi economici individuali) lo corrompesse.
In verità, non
sono mai esistite cose perfette e immutabili, come credeva Platone, teorizzando
astratte Forme e Idee, esistenti nel cielo iperuranio e separate dalle cose
sensibili, ponendole a fondamento della realtà diveniente, ossia delle cose
sensibili che sempre più si allontanano dalle loro forme originarie. Dal mondo
perfetto, vero, reale e buono delle immutabili Forme o Idee discenderebbero,
quindi, le cose mutevoli nel tempo e nello spazio, che sono copie imperfette
degli originari modelli, perciò imitazioni perverse della vera realtà. Tutte le
cose viventi sarebbero, per Platone, soggette alla legge del declino, del decadimento
storico, causa degenerante della società umana. Date queste premesse,
l’obiettivo politico che si proponeva Platone era di riportare la società
all’originaria perfezione dell’Età dell’Oro, sottraendola al corruttibile
divenire eracliteo delle cose mutevoli. Arrestando il cambiamento sociale,
secondo Platone, si può edificare lo stato ottimo, somigliante alla sua Forma o
Idea originaria, divina, immutabile, perfetta.
Lo stato
perfetto, dunque, è per Platone quello che più assomiglia alla Forma o Idea
originaria di uno stato. Un cambiamento nello stato originario, primitivo, ha
luogo quando i personali interessi economici fanno esplodere la lotta di
classe. Il primo stadio di corruzione dello stato è, per Platone, la
timocrazia, ossia il governo dei nobili che cercano onore e fama. A causa della
loro contesa, lo stato timocratico degenera nell’oligarchia, ossia nel governo
delle famiglie ricche, che escludono dal potere le classi con reddito inferiore
al censo stabilito. Dalla guerra civile che ne consegue, si genera la
democrazia, ossia il governo della libertà, identificata nell’arbitrio e nella
licenza. L’antagonismo tra ricchi e poveri nello stato democratico degenera
nella tirannide, ossia nella conquista del potere da parte di un capo carismatico,
che lo conserva con l’uso della forza, asservendo tutto il popolo ai suoi
dettami. La storia, quindi, per Platone, è storia della decadenza sociale,
generata dalla lotta di classe, fomentata dagli interessi economici, ossia
dalla discordia nell’ambito del potere.
Per risolvere
il problema dell’eliminazione della lotta di classe e rifondare uno stato
assomigliante a quello originario e perfetto, Platone propone lo stato di
casta, totalitario e razzista, in cui la classe dominante, costituita da saggi
filosofi e guerrieri, ha la supremazia assoluta sulla classe asservita dei
lavoratori. Per preservare la classe dominante dalla discordia e dalla
disunione, Platone propone il comunismo, ossia la proprietà comune di beni,
donne e bambini. Per rafforzare la coesione e il sentimento di superiorità
della classe dominante, Platone propone l’assoluto divieto della mescolanza tra
le classi.
L’ambiente
naturale, in cui vigono le leggi di natura, descrittive di fatti, non soggette
al controllo umano, è diverso dall’ambiente sociale, caratterizzato da norme
(convenzioni) imposte dall’uomo per disciplinare comportamenti umani e fatte
rispettare mediante sanzioni. Le norme sociali (divieti e comandi) possono
essere giuste o ingiuste e possono anche essere violate, a differenza delle
leggi naturali, inviolabili, che sono o vere o false. Sono false quando è
smentita l’ipotesi di regolarità di un fenomeno naturale. La concezione mitica
secondo la quale le leggi di natura sono stabilite da entità divine, porta a
credere che in particolari circostanze esse possano essere modificate da
interventi divini o da pratiche magiche. Le convenzioni umane invece, a
differenza delle leggi di natura, possono essere cambiate dall’uomo, essendo
lui stesso moralmente responsabile delle sue azioni. La natura, invece, giacché
consiste in fatti e regolarità, non è né morale né immorale. Tutti i fatti
modificabili della vita sociale possono dar luogo a decisioni diverse (di
modifica, di opposizione, d’indifferenza). E’ l’uomo che crea le istanze morali,
i principi di etica umanitaria ed egualitaria, come il principio di tolleranza
e di rispetto verso le altrui decisioni, purché esse non siano intolleranti; o
come le politiche tese a minimizzare la sofferenza, prima che a massimizzare la
felicità per tutti; o come le difese istituzionali per preservare la democrazia
dalla tirannide. E’ l’uomo responsabile di approvare o respingere norme morali,
mediante la sua libertà di coscienza (anche disobbedendo all’adempimento
formale di una legge, ancorché essa sia imposta da un’autorità religiosa o da
un ordinamento giuridico o da un tiranno). L’autonomia dell’etica è
indipendente dalla religione e da qualsiasi ordinamento giuridico-politico,
giacché dipende dalla coscienza individuale. L’uomo, dunque, è il legislatore
delle norme sociali e, in particolare, di quelle morali, e da lui dipende il
miglioramento o il peggioramento della vita sociale, da lui dipende la sua
storia nel mondo. Non esistono un passato buono e un divenire pessimo: il
futuro lo costruisce l’uomo, non l’inesorabile Fato o una misteriosa divinità.
Posto che
naturale, secondo Platone, è tutto ciò che in una cosa è originario, divino,
mentre convenzionale è tutto ciò che è stato cambiato o aggiunto o imposto
dall’uomo, ne consegue che naturale è reale, vero e oggetto della conoscenza
razionale, mentre convenzionale è apparenza, falso, opinabile. La natura di una
cosa è determinata dalla sua origine. L’investigazione dell’origine delle cose,
delle loro cause, è compito della scienza. La natura della società umana, la
sua origine, è, secondo Platone, una convenzione, un contratto sociale, causa
del quale è l’imperfezione della natura umana, la non autosufficienza
dell’uomo. Solo lo stato, per Platone, è in grado di compensare le limitazioni
naturali dell’uomo. Solo lo stato è autosufficiente e perfetto e quindi
superiore all’individuo. L’autorità politica dello stato, sostiene Platone, si
fonda sul principio naturale che chi è sapiente e intelligente comandi e
governi e chi è ignorante ubbidisca. Dato che ciascun uomo nasce per natura
completamente diverso dagli altri e con differente disposizione, Platone
introduce il principio della divisione del lavoro in conformità alle singole
disposizioni individuali determinate dall’ineguaglianza naturale degli uomini.
Un’importante divisione è quella tra governanti e governati, fondata sulla
naturale ineguaglianza tra padroni e schiavi, tra sapienti e ignoranti. Falsa è
la teoria naturalistica della schiavitù e quella dell’ineguaglianza biologica e
morale degli uomini, proposte da Platone e Aristotele (i Greci e i barbari
sarebbero, secondo loro, diseguali: gli uni per natura sono liberi, gli altri
schiavi). Ne consegue che, per i due filosofi aristocratici e razzisti, non
solo gli schiavi, ma anche i lavoratori, essendo d’animo plebeo, non devono
governare, riservando tale funzione alla casta dirigente dei nobili.
Come ogni cosa
che nasce è soggetta a corruzione, così anche lo stato originario, quantunque
perfetto, non può eludere la legge del decadimento, eccetto il caso in cui
l’autorità dominante sia costituita da filosofi sapienti, capaci di bloccare
ogni cambiamento politico. Il programma politico proposto da Platone, dunque, è
totalitario e razzista, giacché si caratterizza per la netta divisione delle classi,
quella dominante e quella dominata; per l’interesse esclusivo verso la classe
dominante, fondata su rigide norme educative e sulla comunione di beni per
garantire la coesione interna e rafforzare la coscienza di appartenenza a una
classe superiore; per la propaganda diretta a modellare e unificare le menti.
Lo stato idealizzato di Platone dovrebbe garantire la felicità dei cittadini e
la giustizia. La felicità, però, secondo Platone, è quella che compete a
ciascuna natura: a quella dell’uomo comune e a quella dell’uomo superiore. Il
servo lavoratore, in sostanza, dovrebbe essere soddisfatto del posto che per
natura gli compete nella società, senza aspirare ad altro. La giustizia, per
Platone, è ciò che è nell’interesse dello stato, ossia il privilegio di una
classe sulle altre. Ogni classe deve attendere alle attività che a ciascuna
compete; ogni cambiamento e mescolanza tra le classi è ingiustizia. La
giustizia, come la interpreta Platone, è diversa da quella democratica, essendo
quest’ultima fondata sull’abolizione dei privilegi, sull’eguale trattamento dei
vantaggi, sull’eguale limitazione delle libertà dei cittadini, sull’eguale
trattamento degli stessi davanti alla legge (isonomia), sull’imparzialità dei
tribunali.
La difesa di
Platone del collettivismo e dello stato totalitario è la conseguenza della sua
opposizione allo stato democratico, all’egualitarismo, all’individualismo
(identificato, erroneamente, con l’egoismo e con la negazione dell’altruismo).
Egli, giacché ritiene che sia un male la varietà del mutevole mondo delle cose,
allo stesso modo considera che sia un male la libertà individuale dello stato
democratico. Ciò spiega la sua difesa del collettivismo, in quanto negazione
assoluta dell’interesse dei singoli a vantaggio dell’interesse collettivo,
identificato (erroneamente) con l’altruismo (anziché, correttamente, con
l’egoismo di classe). Buono e giusto, per Platone, è tutto ciò che è utile
nell’interesse dello stato collettivo e che rafforza la classe dominante; male
e ingiusto è, invece, ogni forza che minaccia lo stato e la sua classe
superiore. Platone giustifica la disuguaglianza sociale del suo stato ideale
con la differenza naturale delle disposizioni umane.
Gli ottimati
che governano lo stato collettivo idealizzato da Platone devono avere il
monopolio educativo della classe dirigente. Il fine educativo, però, non
consiste nella stimolazione dell’autocritica e del pensiero critico;
nell’affinare la ragione, la discussione argomentativa, la libera competizione
del pensiero; nella ricerca della sapienza e nella comprensione dei limiti
propri della natura umana. Esso, invece, consiste nell’indottrinamento, nel
modellamento delle menti all’abitudine ad agire non separatamente dagli altri,
nell’apprendimento della scienza eugenetica, nel controllo della purezza della
razza eletta, nell’autoconsapevolezza di avere la conoscenza della verità,
nell’aborrire ogni forma d’iniziativa dei singoli e ogni originalità d’idee,
perché condurrebbero al cambiamento politico e al disordine. Gli ottimati, se
necessario, devono purificare lo stato eliminando con la forza le persone
indegne di appartenere alla loro classe e possono anche far ricorso alle
menzogne della propaganda e agli inganni dei miti nell’interesse superiore
dello stato.
Il metodo
politico di Platone è rivoluzionario, non gradualistico. Egli non accetta
compromessi ragionevoli o miglioramenti parziali, miranti a contrastare con
metodi democratici i mali che affliggono la società, senza rimodellarla nella
sua interezza, disponendosi a imparare dagli errori. L’approccio di Platone è
mirato a conseguire un cambiamento globale, radicale, che coinvolge la società
nella sua interezza. Il suo è il tentativo utopico di realizzare uno stato
totalitario e razzista, governato dalla dittatura di pochi presunti saggi su
una massa assoggettata di servi. E’ il desiderio estetico di costruire un mondo
perfetto, un modello ideale, prescindendo dai principi egualitari e
individualistici, negando il diritto di ogni uomo a modellarsi da sé la propria
vita, senza impedire un’analoga libertà agli altri.
Lucio
Apulo Daunio
Per approfondimenti si rimanda
a:
POPPER K. R., La società aperta e
i suoi nemici. Platone totalitario, vol. 1
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