giovedì 6 ottobre 2011


LO STATO IDEALE SECONDO PLATONE

Credo che il fine di una società civile sia la libertà dei singoli cittadini, e che le norme che disciplinano la condotta dei medesimi siano fondate sui principi di umanità, di ragionevolezza, di uguaglianza. Tali norme, giacché stabilite dalla società civile mediante le regole della democrazia, che implicano la discussione critica e la vigilanza contro movimenti reazionari, sono modificabili perché possono essere fallibili.

Il futuro dipende dall’intelligenza e dalla responsabilità dell’uomo, dalla sua acquisizione del sapere scientifico, non da leggi universali e necessarie dedotte dalla metafisica dello storicismo o desunte dalla rivelazione di supposte entità divine (teologismo).

La storia non è il prodotto di un inesorabile destino né di una misteriosa volontà divina. La falsa credenza teistica di un popolo eletto, privilegiato dalla volontà di un ente divino a padroneggiare sugli altri popoli; o la falsa credenza in una razza biologicamente superiore o in una classe sociale eletta, destinate sia l’uno che le altre a dominare la terra e ad avere supremazia economica, rappresentano tutte un serio pericolo alle libertà democratiche.

Il mondo, come aveva intuito Eraclito, è un processo continuo in divenire tra forze in opposizione tra loro. Tutto si muove, nessuna cosa è stabile (se non in apparenza). Wittgenstein affermava che il mondo è la totalità dei fatti, cioè degli eventi, non delle cose. Il processo di cambiamento e di trasformazione nel mondo del diveniente storico non implica che esso sia necessariamente governato da una legge universale, immutabile, o che sia predeterminato da un inesorabile Fato. I mutamenti sociali nella storia umana non hanno alcun nesso con la pessimistica concezione esiodea della decadenza da un’Età dell’Oro e da una primitiva vita beata, verso successivi periodi storici regredenti. Falsa è la teoria, sostenuta da Platone, secondo la quale, arrestando ogni mutamento politico, s’interrompe il processo di corruzione politico. Insomma, non è vero, come pensava Platone, che lo stato perfetto, copia di quello originario, da lui idealizzato, sia quello governato da una casta di saggi filosofi, che sappiano preservarlo dal cambiamento e dalla corruzione. Platone assimilava il suo ideale di stato a quello mitico dell’Età dell’Oro, prima che il cambiamento (causato dalla discordia degli interessi economici individuali) lo corrompesse.

In verità, non sono mai esistite cose perfette e immutabili, come credeva Platone, teorizzando astratte Forme e Idee, esistenti nel cielo iperuranio e separate dalle cose sensibili, ponendole a fondamento della realtà diveniente, ossia delle cose sensibili che sempre più si allontanano dalle loro forme originarie. Dal mondo perfetto, vero, reale e buono delle immutabili Forme o Idee discenderebbero, quindi, le cose mutevoli nel tempo e nello spazio, che sono copie imperfette degli originari modelli, perciò imitazioni perverse della vera realtà. Tutte le cose viventi sarebbero, per Platone, soggette alla legge del declino, del decadimento storico, causa degenerante della società umana. Date queste premesse, l’obiettivo politico che si proponeva Platone era di riportare la società all’originaria perfezione dell’Età dell’Oro, sottraendola al corruttibile divenire eracliteo delle cose mutevoli. Arrestando il cambiamento sociale, secondo Platone, si può edificare lo stato ottimo, somigliante alla sua Forma o Idea originaria, divina, immutabile, perfetta.

Lo stato perfetto, dunque, è per Platone quello che più assomiglia alla Forma o Idea originaria di uno stato. Un cambiamento nello stato originario, primitivo, ha luogo quando i personali interessi economici fanno esplodere la lotta di classe. Il primo stadio di corruzione dello stato è, per Platone, la timocrazia, ossia il governo dei nobili che cercano onore e fama. A causa della loro contesa, lo stato timocratico degenera nell’oligarchia, ossia nel governo delle famiglie ricche, che escludono dal potere le classi con reddito inferiore al censo stabilito. Dalla guerra civile che ne consegue, si genera la democrazia, ossia il governo della libertà, identificata nell’arbitrio e nella licenza. L’antagonismo tra ricchi e poveri nello stato democratico degenera nella tirannide, ossia nella conquista del potere da parte di un capo carismatico, che lo conserva con l’uso della forza, asservendo tutto il popolo ai suoi dettami. La storia, quindi, per Platone, è storia della decadenza sociale, generata dalla lotta di classe, fomentata dagli interessi economici, ossia dalla discordia nell’ambito del potere.

Per risolvere il problema dell’eliminazione della lotta di classe e rifondare uno stato assomigliante a quello originario e perfetto, Platone propone lo stato di casta, totalitario e razzista, in cui la classe dominante, costituita da saggi filosofi e guerrieri, ha la supremazia assoluta sulla classe asservita dei lavoratori. Per preservare la classe dominante dalla discordia e dalla disunione, Platone propone il comunismo, ossia la proprietà comune di beni, donne e bambini. Per rafforzare la coesione e il sentimento di superiorità della classe dominante, Platone propone l’assoluto divieto della mescolanza tra le classi.

L’ambiente naturale, in cui vigono le leggi di natura, descrittive di fatti, non soggette al controllo umano, è diverso dall’ambiente sociale, caratterizzato da norme (convenzioni) imposte dall’uomo per disciplinare comportamenti umani e fatte rispettare mediante sanzioni. Le norme sociali (divieti e comandi) possono essere giuste o ingiuste e possono anche essere violate, a differenza delle leggi naturali, inviolabili, che sono o vere o false. Sono false quando è smentita l’ipotesi di regolarità di un fenomeno naturale. La concezione mitica secondo la quale le leggi di natura sono stabilite da entità divine, porta a credere che in particolari circostanze esse possano essere modificate da interventi divini o da pratiche magiche. Le convenzioni umane invece, a differenza delle leggi di natura, possono essere cambiate dall’uomo, essendo lui stesso moralmente responsabile delle sue azioni. La natura, invece, giacché consiste in fatti e regolarità, non è né morale né immorale. Tutti i fatti modificabili della vita sociale possono dar luogo a decisioni diverse (di modifica, di opposizione, d’indifferenza). E’ l’uomo che crea le istanze morali, i principi di etica umanitaria ed egualitaria, come il principio di tolleranza e di rispetto verso le altrui decisioni, purché esse non siano intolleranti; o come le politiche tese a minimizzare la sofferenza, prima che a massimizzare la felicità per tutti; o come le difese istituzionali per preservare la democrazia dalla tirannide. E’ l’uomo responsabile di approvare o respingere norme morali, mediante la sua libertà di coscienza (anche disobbedendo all’adempimento formale di una legge, ancorché essa sia imposta da un’autorità religiosa o da un ordinamento giuridico o da un tiranno). L’autonomia dell’etica è indipendente dalla religione e da qualsiasi ordinamento giuridico-politico, giacché dipende dalla coscienza individuale. L’uomo, dunque, è il legislatore delle norme sociali e, in particolare, di quelle morali, e da lui dipende il miglioramento o il peggioramento della vita sociale, da lui dipende la sua storia nel mondo. Non esistono un passato buono e un divenire pessimo: il futuro lo costruisce l’uomo, non l’inesorabile Fato o una misteriosa divinità.

Posto che naturale, secondo Platone, è tutto ciò che in una cosa è originario, divino, mentre convenzionale è tutto ciò che è stato cambiato o aggiunto o imposto dall’uomo, ne consegue che naturale è reale, vero e oggetto della conoscenza razionale, mentre convenzionale è apparenza, falso, opinabile. La natura di una cosa è determinata dalla sua origine. L’investigazione dell’origine delle cose, delle loro cause, è compito della scienza. La natura della società umana, la sua origine, è, secondo Platone, una convenzione, un contratto sociale, causa del quale è l’imperfezione della natura umana, la non autosufficienza dell’uomo. Solo lo stato, per Platone, è in grado di compensare le limitazioni naturali dell’uomo. Solo lo stato è autosufficiente e perfetto e quindi superiore all’individuo. L’autorità politica dello stato, sostiene Platone, si fonda sul principio naturale che chi è sapiente e intelligente comandi e governi e chi è ignorante ubbidisca. Dato che ciascun uomo nasce per natura completamente diverso dagli altri e con differente disposizione, Platone introduce il principio della divisione del lavoro in conformità alle singole disposizioni individuali determinate dall’ineguaglianza naturale degli uomini. Un’importante divisione è quella tra governanti e governati, fondata sulla naturale ineguaglianza tra padroni e schiavi, tra sapienti e ignoranti. Falsa è la teoria naturalistica della schiavitù e quella dell’ineguaglianza biologica e morale degli uomini, proposte da Platone e Aristotele (i Greci e i barbari sarebbero, secondo loro, diseguali: gli uni per natura sono liberi, gli altri schiavi). Ne consegue che, per i due filosofi aristocratici e razzisti, non solo gli schiavi, ma anche i lavoratori, essendo d’animo plebeo, non devono governare, riservando tale funzione alla casta dirigente dei nobili.

Come ogni cosa che nasce è soggetta a corruzione, così anche lo stato originario, quantunque perfetto, non può eludere la legge del decadimento, eccetto il caso in cui l’autorità dominante sia costituita da filosofi sapienti, capaci di bloccare ogni cambiamento politico. Il programma politico proposto da Platone, dunque, è totalitario e razzista, giacché si caratterizza per la netta divisione delle classi, quella dominante e quella dominata; per l’interesse esclusivo verso la classe dominante, fondata su rigide norme educative e sulla comunione di beni per garantire la coesione interna e rafforzare la coscienza di appartenenza a una classe superiore; per la propaganda diretta a modellare e unificare le menti. Lo stato idealizzato di Platone dovrebbe garantire la felicità dei cittadini e la giustizia. La felicità, però, secondo Platone, è quella che compete a ciascuna natura: a quella dell’uomo comune e a quella dell’uomo superiore. Il servo lavoratore, in sostanza, dovrebbe essere soddisfatto del posto che per natura gli compete nella società, senza aspirare ad altro. La giustizia, per Platone, è ciò che è nell’interesse dello stato, ossia il privilegio di una classe sulle altre. Ogni classe deve attendere alle attività che a ciascuna compete; ogni cambiamento e mescolanza tra le classi è ingiustizia. La giustizia, come la interpreta Platone, è diversa da quella democratica, essendo quest’ultima fondata sull’abolizione dei privilegi, sull’eguale trattamento dei vantaggi, sull’eguale limitazione delle libertà dei cittadini, sull’eguale trattamento degli stessi davanti alla legge (isonomia), sull’imparzialità dei tribunali.

La difesa di Platone del collettivismo e dello stato totalitario è la conseguenza della sua opposizione allo stato democratico, all’egualitarismo, all’individualismo (identificato, erroneamente, con l’egoismo e con la negazione dell’altruismo). Egli, giacché ritiene che sia un male la varietà del mutevole mondo delle cose, allo stesso modo considera che sia un male la libertà individuale dello stato democratico. Ciò spiega la sua difesa del collettivismo, in quanto negazione assoluta dell’interesse dei singoli a vantaggio dell’interesse collettivo, identificato (erroneamente) con l’altruismo (anziché, correttamente, con l’egoismo di classe). Buono e giusto, per Platone, è tutto ciò che è utile nell’interesse dello stato collettivo e che rafforza la classe dominante; male e ingiusto è, invece, ogni forza che minaccia lo stato e la sua classe superiore. Platone giustifica la disuguaglianza sociale del suo stato ideale con la differenza naturale delle disposizioni umane.

Gli ottimati che governano lo stato collettivo idealizzato da Platone devono avere il monopolio educativo della classe dirigente. Il fine educativo, però, non consiste nella stimolazione dell’autocritica e del pensiero critico; nell’affinare la ragione, la discussione argomentativa, la libera competizione del pensiero; nella ricerca della sapienza e nella comprensione dei limiti propri della natura umana. Esso, invece, consiste nell’indottrinamento, nel modellamento delle menti all’abitudine ad agire non separatamente dagli altri, nell’apprendimento della scienza eugenetica, nel controllo della purezza della razza eletta, nell’autoconsapevolezza di avere la conoscenza della verità, nell’aborrire ogni forma d’iniziativa dei singoli e ogni originalità d’idee, perché condurrebbero al cambiamento politico e al disordine. Gli ottimati, se necessario, devono purificare lo stato eliminando con la forza le persone indegne di appartenere alla loro classe e possono anche far ricorso alle menzogne della propaganda e agli inganni dei miti nell’interesse superiore dello stato.

Il metodo politico di Platone è rivoluzionario, non gradualistico. Egli non accetta compromessi ragionevoli o miglioramenti parziali, miranti a contrastare con metodi democratici i mali che affliggono la società, senza rimodellarla nella sua interezza, disponendosi a imparare dagli errori. L’approccio di Platone è mirato a conseguire un cambiamento globale, radicale, che coinvolge la società nella sua interezza. Il suo è il tentativo utopico di realizzare uno stato totalitario e razzista, governato dalla dittatura di pochi presunti saggi su una massa assoggettata di servi. E’ il desiderio estetico di costruire un mondo perfetto, un modello ideale, prescindendo dai principi egualitari e individualistici, negando il diritto di ogni uomo a modellarsi da sé la propria vita, senza impedire un’analoga libertà agli altri.
Lucio Apulo Daunio

 
Per approfondimenti si rimanda a:

POPPER K. R., La società aperta e i suoi nemici. Platone totalitario, vol. 1

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