lunedì 26 dicembre 2011


PAOLO  
INVENTORE DEL CRISTIANESIMO



Paolo, l’inventore del cristianesimo, fulminato dalla fede in Cristo sulla via per Damasco, apostatizzò dal giudaismo, sottraendosi al dominio della Legge mosaica. La Legge, infatti, a suo dire, non giustificava l’uomo, perché, se l’avesse giustificato, Cristo sarebbe morto invano (Ga 2, 18-21). Paolo, pur avendo abbandonato il giudaismo per aderire a Cristo, non mancò di ritornare al giudaismo, nonostante i suoi ammonimenti (Ga 5, 1), sottomettendosi al giogo della schiavitù, indotta dall’osservanza scrupolosa della Legge. Che era impossibile, anche per un giudeo rigoroso, osservare le innumerevoli prescrizioni della Legge, se ne rese conto lo steso apostolo Pietro. Egli, infatti, considerò l’inopportunità d’imporre ai pagani convertiti l’osservanza della Legge, ritenendola un giogo duro da sopportare persino dai Giudei (At 15, 10-11). Soave e leggero, invece, era il giogo del vangelo di Cristo (Mt 11, 28-30). Della mitezza e umiltà di cuore proclamate dal vangelo, l’irruente Paolo (ma anche il burbero Pietro) non sempre ne fece tesoro (Ga 5, 12). Del resto, anche l’apocalittico Gesù minacciò e imprecò a destra e a manca.

La Legge - dice Paolo - ha avuto una funzione provvisoria durante il tempo d’attesa del Messia, il Cristo Gesù, il Salvatore. Ora, dopo la comparsa di Gesù, essa non è più utile per la salvezza (Rm 10, 4; Ga 3, 19 seg.).  In verità, essa fu scritta con il pugno di Jahvè e da lui ordinata a perenne vigenza (Es 12, 14-20). Se, dunque, come sostiene Paolo, solo per mezzo di Cristo l’umanità può trovare la salvezza, non essendo più sufficiente essere un buon giudeo, osservante della Legge, perché Dio ha tardato nell’inviarci la panacea della grazia tramite il Figlio? L’illuminato Paolo, il sognatore di Dio, nel suo vaniloquio ai Galati (Ga 4, 1 seg.), afferma che la Legge ha tutelato l’immaturità del popolo giudaico, fino a quando l’insindacabile giudizio di Dio lo ha riconosciuto (bontà sua) maturo. Il ritardo di Dio nel concedere la salvezza all’umanità, Paolo lo giustifica addossando la colpa all’immaturità degli ebrei. Se la speranza (spes ultima dea) di poter vivere dopo la morte nell’estasi eterna della visione di Dio, se questa speranza cristiana diverrà certezza, la vita ultraterrena appare all’umana ragione insopportabile e noiosa. Se, invece, tale speranza è l’illusione d’orditi inganni clericali, dopo la morte tutto finirà (mors ultima ratio). Un eterno sonno, privo di sogni, ci sommergerà nel Lete, il fiume dell’oblio. Dio lo voglia!

Ai Galati (Ga 3, 26-28), Paolo dichiara che dopo il battesimo, patrimonio di tutti i credenti (contrariamente alla circoncisione, eredità esclusiva dei maschi giudei), non esistono più differenze per i seguaci di Cristo: né di popolo né di condizione sociale né di genere. Un principio, questo, non ancora del tutto realizzato né dai cristiani né dalla Chiesa, che è divenuta potenza temporale, istituzionalizzata e legittimata a spacciare per verità il mito cristiano. Ai tempi di Cristo la donna aveva certamente più dignità di quanto non ebbe qualche secolo dopo. Poteva essere dotata di particolari carismi (doni spirituali, cfr. 1 Co 12, 1 seg.; 14, 26; Rm 12, 6-8; Ef 4, 11), avere incombenze religiose ed essere altresì annoverata tra gli apostoli, cioè tra i discepoli impegnati nell’evangelizzazione (Rm 16, 1-24; Fl 4, 2-3). Gesù, del resto, si mescolava con le donne, rispettabili e non, meravigliando persino i discepoli (Gv 4, 27). Le donne facevano parte del suo seguito e lo servivano (finanziando la sua missione). Ai Corinzi (1 Co 11, 3 seg.), invece, Paolo predica la disuguaglianza gerarchica tra Dio e Cristo, tra Cristo e uomo, tra uomo e donna (Eva è una propaggine d'Adamo). Nella scala gerarchica, Paolo colloca Dio come superiorità assoluta, cui subordina prima Cristo, poi l'uomo e infine la donna (meno perfetta rispetto all’uomo). Il luminare Agostino puntualizzerà che la donna non è stata creata come l’uomo a immagine e somiglianza di Dio. Paolo, pur divenendo un seguace di Cristo, restava pur sempre culturalmente un giudeo. Il giudaismo, infatti, proibiva alla donna, ritenendola impura, di occuparsi di cose sacre. La puerpera era soggetta alle norme di purificazione (Lv 12, 1-8). Nelle sinagoghe la donna non aveva il diritto di parlare e quando si presentava in pubblico doveva avere il capo coperto. Paolo, attenendosi ai costumi giudaici, per le donne dispose che nelle assemblee liturgiche avessero il capo coperto con un velo per riguardo agli uomini (non a Dio). Se non volevano indossare il cristiano “chador”, dovevano tagliarsi i capelli (similmente ai fanatici seguaci di culti orientali); se si vergognavano di farsi vedere con la testa rasata, dovevano coprirsi il capo. L’uomo, invece, aveva il dovere di scoprirsi il capo, essendo immagine e gloria di Dio, diversamente dalla donna, che fu creata per la gloria dell’uomo da una sua costola. Per questo la donna doveva portare un segno (marchio) di dipendenza (d’inferiorità) sul capo, anche per rispetto verso gli angeli (mah! Non si sa mai. Potrebbero nuovamente incaponirsi della bellezza delle donne, osservandole con le fluenti chiome scoperte). Non si comprende la ragione per cui queste supposte entità asessuate dovrebbero trovare sconveniente la testa chiomata delle donne, e non anche la folta capigliatura degli uomini. In verità, i “gentili”, uditori delle prediche paoline, non avevano l’abitudine giudaica di coprirsi il capo con un mantello durante la preghiera. Varie furono le giustificazioni (pregiudizi) addotte dalla Chiesa cattolica per negare il sacerdozio femminile. La donna, considerata biologicamente inferiore all’uomo, creato ad immagine di Dio, è vissuta per molti secoli nei paesi cristianizzati in stato di sudditanza del maschio, nel quale si presumeva che predominasse la ragione. Paolo proibì alle donne, durante il raduno agapico della comunità, di prendere la parola, salvo che non fosse dotata di carismi. In tal caso poteva predicare e profetizzare su ispirazione divina, osservando comportamenti decorosi. Se non aveva ispirazione, doveva tacere (1 Co 14, 34-40). Parlare nelle sante assemblee degli uomini era disdicevole per lei. Se voleva apprendere, poteva interrogare in casa il marito, cui era assoggettata, essendo l’uomo capo della donna (Ef 5, 21 seg.; Col 3, 18). La Bibbia, infatti, impone alla donna di sottomettersi all’uomo (Gn 3, 16). Ad avviare le giovani ai loro doveri familiari e domestici, a essere persone sagge, prudenti, buone, caste e docilmente sottomesse ai propri mariti, erano deputate le sante matriarche (Tt 2, 1 seg.). Quanto all’abbigliamento, Paolo (1 Tm 2, 9-15) raccomandava la decenza, proibendo loro di apparire imbellettate, con vesti sontuose e ornamenti preziosi. Ciò che si addiceva alle pie donne era l’ornamento interiore, soprattutto la taciturnità. Paolo non permetteva loro d’insegnare, ma solo d’imparare in silenzio, con perfetta sottomissione all’uomo. Questa sudditanza della donna la giustificava ricorrendo ai primordi della creazione, al mito della nascita primigenia d’Adamo e di quella successiva di Eva da una costola dell’uomo (Gn 2,7. 18. 22). In verità, anche la Bibbia è incerta a chi dei due spetta il primato della nascita. Se Adamo riceve l'aureola da Jahvè, gli Elohim (il Dio concepito dagli ebrei come un insieme di manifestazioni di potenza) la consegnano prima agli animali e poi all’umanità, senza distinzione di sesso (Gn 1, 20-31). Paolo, che si atteggia a maschilista, affetto dalla psicosi del peccato, addebita il primato della colpa originaria a Eva (mito di Pandora), pur di giustificare l’inferiore natura femminile. Il mito del peccato originale, commesso da supposti primi avi in violazione di tabù divini, da cui consegue la colpa da espiare di tutta la loro discendenza, è una pretestuosa corbelleria biblica (Rm 5, 12). I dotti teologi della Chiesa trionfante affibbiarono alla donna il marchio di tentatrice, sostenendo che doveva vergognarsi persino del fatto di essere, in quanto donna, discendente di Eva. La misoginia chiesastica, avvalendosi dei pregiudizi dell’antichità pagana, considerò la donna poco intelligente e inferiore all’uomo, quindi indegna al conferimento del sacramento dell’ordine (sacerdozio). Agostino, santificato e addottorato dalla Chiesa, le voleva ignoranti e segregate tra le pareti domestiche al fine di evitare che la loro peccaminosa bellezza tentasse la purezza dei santi cristiani. Lui le conosceva bene, avendo amoreggiato a lungo con loro. Maometto, addirittura, paragonerà la donna a un campo da arare tutte le volte che l’uomo la desidera. La donna, secondo Maometto, deve essere sempre disponibile a soddisfare l’uomo (al pari di una prostituta). La missione, che Paolo assegna alla donna, strumento dell’uomo, è la generazione di figli, per mezzo della quale anche lei potrà salvarsi, perseguendo le prescritte virtù cristiane. Sulla medesima linea di Paolo si schierò l’apostolo Pietro, che assegnò alla donna il compito di conquistare il marito alla fede in Cristo, osservando un modello di vita esemplare, consono al vangelo di Cristo (1Pt 3, 1 seg.). Il cattolicesimo, nella sua bi-millenaria storia, ha negato pari opportunità alle donne e ha mostrato di non essere immune da comportamenti discriminatori verso persone differentemente credenti.

La nuova legge, decretata da Gesù, libera dal peccato e dalla morte chi con fede la osservi (Rm 8, 2 seg.). Vivere secondo la carne, conduce l’uomo al peccato ed alla morte; vivere secondo la legge dello Spirito, soffocando le debolezze della carne, conduce l’uomo a Dio. Delle cose dello Spirito non si occupa la legge giudaica (Ga 5, 16-26). Essa, secondo Paolo, non si occupa di gioia, pace, amore, bontà, benevolenza, mitezza, fiducia, grandezza d’animo e padronanza di sé. Perché dunque Jahvè non ha infuso tale ricchezza morale nell’animo del suo prediletto popolo? Mistero! Che poi l’uomo, in forza dello Spirito, possa liberarsi totalmente dagli istinti della sua natura e non sottostare alle bramosie della carne (fornicazioni, impurità, dissolutezze, idolatrie, magie, litigi, gelosie, ambizioni, invidie, orge e altre consimili umane debolezze), appare del tutto inattendibile. “Sursum corda”, cristiani! Voi credenti, che patite immani sofferenze a imitazione di Cristo, sarete degni di vita eterna nell’agognato regno dei cieli! Gli altri, diversamente credenti, colpiti dagli inevitabili mali del loro essere nel mondo, sperano nell’eterno riposo nel regno dell’oscura morte, ma non perché colpevoli di essersi abbandonati agli istinti perversi, bensì per aver terminato con dignità un’esperienza singolare di vita, non asservita al credo di un misterioso dio e ai diktat della sua Chiesa. L’unico conforto per i non cristiani è la speranza di aver arricchito l’umanità con valori ispirati a ideali umani, convinti della razionalità propria dell’uomo di decidere insieme le norme di vita con i propri simili. Se credere in Cristo è un dono che l’uomo riceve da Dio (Gv 6, 44. 65), allora occorre fortuna, come vincere un terno al lotto. Chi non è predestinato, non potrà essere giustificato e glorificato. Gli eletti, pieni di grazie, di cui “ab aeterno” è stabilito il destino, che meriti hanno per godersi il regno delle voluttà paradisiache? Pur ammettendo che l’uomo sia libero di scegliere, senza subire condizionamenti, non è assurdo credere in “verità” impossibili da verificare? Ignorare il veto della ragione per abbracciare l’irrazionalità di una fede, è un’offesa alla nostra intelligenza. Se esiste nell’aldilà Lucifero, il ribelle di Dio, abbia almeno lui pietà per tutti i disgraziati morituri, indegni del dono divino! Iniqua appare la somma giustizia (summum ius, summa iniura) del giusto immisericordioso dio cristiano (Rm 8, 28-30), nei confronti di chi, pur non incappando nell’accusa di “asèbeia” (disprezzo degli dei), è colpevole non d’ostilità verso Dio, bensì di “atheos” (negazione degli dei), per sfiducia in ogni fede religiosa trascendente, perciò non probante.

L’amato fratello Paolo, che non era immune da intemperanze e opportunismi, neanche l’apostolo Pietro lo capiva, quando il suo modo d'esprimersi era poco chiaro o incomprensibile (2 Pt 3, 15-16). Beati siano gli illuminati interpreti dei divini misteri! Paolo, ebbro di Cristo, ebreo di stirpe della tribù di Beniamino, circonciso, fariseo quanto alla Legge, zelante persecutore della setta cristiana, irreprensibile quanto a giustizia legale, esempio raro di fenomeno umano, rinuncia al suo brillante stato e ai conseguenti vantaggi per seguire gli invisi accattoni della combriccola nazarena: le vie della fede sono inspiegabilmente misteriose!  Che cosa sarà veramente accaduto a Paolo per compiere questa svolta della sua vita? Che sia stato convertito dalla visione del risorto Gesù, secondo il racconto delle Sacre Scritture, non pare verosimile. Com'è noto, i guai della pentola li conosce il coperchio. Fatto sta che l’apostata Paolo si mise ad abbaiare contro i suoi ex confratelli ebrei, vituperandoli come cani, cattivi operai, falsi circoncisi. Veri circoncisi, non nella carne, ma secondo lo spirito, erano solamente i rampolli cristiani (Fl 3, 1 seg.). Paolo, ricolmo di zelo per Dio, si vantò di essere un giudeo, istruito ai piedi di Gamaliele nella rigorosa osservanza della Legge. Egli, prima di convertirsi a Cristo, perseguitò a morte i cristiani (At 22, 3-4); ma, dopo la conversione, predicò l’inutilità salvifica della circoncisione, simbolo perenne dell’alleanza e servitù a Dio (Ga 5, 1 seg.). Non solo era inutile, ma anche pericolosa, perché i fresconi che non volevano rinunciare a farsi circoncidere il prepuzio erano poi obbligati a mettere in pratica la totale osservanza della Legge (Ga 5, 2-4; Rm 2, 25). Ottemperando a essa, secondo Paolo, non solo rischiavano le maledizioni del burbero Jahvè, ma altresì perdevano la protezione del suo magnanimo Figlio. Paolo malignava contro certi ostinati ebrei, che volevano offrire il loro prepuzio a Dio, provocando scompiglio nella comunità cristiana. Costoro, a suo giudizio, potevano anche farsi mutilare interamente il membro! Che in lui vivesse lo spirito di Cristo (Ga 2, 20), non si dubita, dato che neanche il Messia, Dio professo, era immune da intemperanze verbali. Che poi Paolo portasse nel suo corpo i contrassegni di Cristo (Ga 6, 17), è senz’altro vero, dato che le buscò più volte a causa del suo intemperante caratterino e dell’intransigenza del suo attivismo fideistico. Non sempre esemplari furono i comportamenti di Paolo, e non solo con riferimento alla questione della circoncisione. Egli, infatti, si adattava alle circostanze che di volta in volta si presentavano. Quando aveva paura, mutava opinione, come l’astuto polipo muta il colore. Circoncise Timoteo per timore dei giudei (At 16, 1-3), rendendosi così colpevole di trasgressione (Ga 2, 18). Rinnegò pubblicamente la fede in Cristo per giudaizzare con i giudei in osservanza della legge del nazireato (At 21, 15-26).  La sua presenza nel Tempio fu causa di una sommossa, e poco mancò che lo linciassero. Fu salvato e tratto in arresto dal tribuno della coorte romana (At 21, 27 seg.). Accusato di aver profanato il Tempio e di predicare contro la Legge, dichiarò “coram populo” d'essere giudeo di stretta osservanza. Tuttavia, ammise di aver apostatato dalla fede ebraica a causa della fulminante visione del Nazareno, che lo rapì in estasi e lo convinse a farsi apostolo delle genti (At 22, 1 seg.). Il discorso tenuto in sua difesa (At 23, 1 seg.) non convinse gli accusatori giudei, che andarono in bestia, mentre farneticava di visioni e rapimenti. La sua arringa fu interrotta bruscamente dalle grida del popolo (vox populi, vox Dei), che lo voleva morto. Ormai alle strette, Paolo decise di salvare la pelle con un’astuzia. Chiese protezione alle autorità romane, che presenziavano nel Tempio, dichiarando d’essere cittadino romano (civis romanus sum). In quel frangente ritenne opportuno romanizzare con i Romani. Il giorno seguente, condotto per ordine del tribuno al giudizio del Sinedrio (in cui la maggioranza dei membri erano farisei e sadducei) per l’accertamento delle accuse addebitategli, Paolo, nato cittadino romano, ma di stirpe giudaica, che aveva doppie e triple verità secondo le circostanze, adeguandosi più a Proteo che a Cristo, si dichiarò fariseo puro sangue al fine di attirare su di sé la loro benevolenza (captatio benevolentiae). Poi, allo scopo di aizzare i farisei contro i sadducei (l’aristocrazia giudaica rigidamente conservatrice, che negava la resurrezione dei morti e l’esistenza di angeli e spiriti), aggiunse che l’accusa contro di lui concerneva la sua speranza nella resurrezione di Cristo (la necessità aguzza l’ingegno). Il Sinedrio si divise per una disputa pro o contro la resurrezione dei corpi. La disputa si tramutò in baruffa, che tosto degenerò in tafferugli e ci fu tumulto. Il tribuno, temendo un probabile linciaggio del prigioniero, cittadino romano, per evitare grane, decise di sottrarlo al pandemonio che si era scatenato tra i giudei, riconducendolo in caserma sotto folta scorta di militi. Eppure, in favore dei suoi meritevoli e gloriosi fratelli giudei, Paolo era disposto a votarsi alla maledizione divina e persino ad essere separato da Cristo (Rm 9, 3 seg.). Mah!


Lucio Apulo Daunio



lunedì 5 dicembre 2011



SE IL CRISTIANESIMO POSSA
ESSERE
DEGNO DI FEDE



Non possono esservi presso Dio - afferma il Vangelo predicato da Paolo - favoritismi di persone, come invece ci sono nel mondo, dove tra gli uomini si discrimina tra il povero e il ricco (Pr 22, 2). Paolo dichiara che Dio è tale (quindi imparziale) per tutti gli uomini, che siano giudei o pagani (Rm 3, 29). Nell’Antico Testamento, invece, si legge che Jahvè, Dio degli Ebrei, concesse i suoi favori esclusivamente al popolo giudaico. Egli è l’unico vero Dio e Israele è il figlio suo primogenito (Es 3, 15 e 4, 22 e 5, 3 e 7, 16). Dunque, per l’Antico Testamento, né Gesù è il figlio primogenito di Dio né gli altri popoli sono da lui prediletti. Mosè, infatti, conosce un solo Dio, non anche Figlio e Spirito Santo. Paolo, nella sinagoga d'Antiochia, predicava che il Dio d’Israele esaltò il suo popolo per liberarlo dalla (presunta) schiavitù in terra d’Egitto (At 13, 17-19). Non solo concesse loro il suo aiuto ai danni del faraone e del popolo egiziano (che si buscò il triste flagello delle dieci piaghe), ma distrusse persino sette altri popoli per dare loro la terra, che aveva promesso al patriarca Abramo per la cieca fede da lui professata (Gn 15, 6). Abramo, infatti, trovò gradimento presso Jahvè per non aver disobbedito all’insensato ordine di sacrificargli il figlio Isacco (Gn 22, 1 seg.). A ricompensa della sua incondizionata sottomissione, Jahvè lo giustificò, cioè lo santificò (Rm 4, 3; Ga 3, 6). Ed è proprio in base alla fede che, parola di Paolo, Dio riconoscerà e giustificherà i “figli” d’Abramo, ancorché di stirpe diversa (Ga 3, 7-9). Le tribù della terra, che benediranno Abramo, godranno la benedizione dell’Altissimo ed otterranno in eredità eterna l’ingresso nel santuario celeste. I popoli che invece lo malediranno, saranno maledetti in eterno, parola di Dio (Gn 12, 3). Genti della terra, siete avvertite!

Paolo mente quando dichiara che il Dio di cui predica non concede favoritismi (Rm 2, 11). In realtà, egli consente ai ricchi di opprimere i poveri (Pr 29, 13); ciò nonostante, ha la sfacciataggine di dire che non ha preferenze per gli uni o per gli altri (Gb 34, 19), prendendosi persino cura e degli uni e degli altri (Sp 6, 7). Perché anche dei ricchi oppressori? Perché a questi non preferisce, invece, i poveri oppressi? E’ già tanto se egli non gode per la rovina dei viventi (Sp 1, 13). Si dà per certo che da lui proviene ogni cosa (Sir 11, 14), anche l’esistenza del male (Is 45, 7).  Se la morte è entrata nel mondo, la colpa è del diavolo (Sp 2, 24). Sarà pure colpa di costui; tuttavia, questo funesto spirito manigoldo, insidiatore dell’uomo, è pur sempre una malefica creatura di Dio. Ingannato dal satanasso, l’uomo è stato privato della sua originaria incorruttibilità. Dio, pur sapendo che la sua innocente creatura in Eden era priva della conoscenza del bene e del male, ha consentito che fosse tentata e corrotta da una sua diabolica creatura, ma anziché punire il tentatore, ha castigato l’uomo e tutta la sua discendenza. Tuttavia, in virtù della divina Sapienza, l’uomo potrà riacquistare la sua santità originaria (Sp 2, 23; 6, 17-21). Paolo, intanto, ci avverte che Dio, divino ragioniere, compenserà ogni uomo secondo le opere da lui compiute (Rm 2, 6 seg.). Dio concederà la vita eterna ai giusti (ligi al Vangelo e alla dogmatica del “verbo” clericale), mentre ai non giusti, considerati malvagi, infliggerà opprimenti tribolazioni e angustie in eterno tra le fiamme dell’Inferno. Mah!

La nuova Alleanza (Testamento), sigillata nel Vangelo, non si manifesta, secondo Paolo, nella dimensione pubblica né si basa su segni esteriori, come quello della circoncisione. Essa appartiene al regno spirituale ed invisibile. Consiste, infatti, in una trasfigurazione interiore, mediante la predisposizione ad accogliere nel proprio animo lo Spirito di Dio (Rm 2, 25 seg.). Di fatto, la nuova Alleanza ha abrogato l’antica, che Dio volle perenne e marcata con un segno nella carne, sancendo per il trasgressore la pena della recisione dal suo popolo (Gn 17, 9-14). Questo era il patto che Abramo aveva stilato con Dio e che impose come norma per la sua discendenza. Abramo pendeva dalle labbra di Dio e operava (senza discutere) conformandosi alla sua volontà (Eb 11, 8. 17). Quando arrivò nel mondo Gesù, proclamato “Figlio di Dio”, predicò ai “figli” d’Abramo che le regole erano modificate; che il patto, che suo Padre aveva imposto a Mosè, non aveva funzionato e che perciò era necessaria una nuova e più perfetta legge. Gli si doveva credere sulla parola (sic et simpliciter). Chi gli prestava fede, avrebbe potuto conoscere la sua verità liberatoria, svincolandosi dall’osservanza delle prescrizioni della Legge (Gv 8, 31-59). In verità, alla schiavitù della Legge mosaica è subentrata quella della dottrina cristiana, conformata ai diktat del pontefice massimo, capo indiscusso della Chiesa gerarchizzata.  Non più la manna (che per merito di Mosè scese dal cielo per sfamare il popolo d’Israele), ma la parola annunciata da Cristo, (pretesa) verità assoluta, era il nuovo pane di vita disceso dal cielo, che si doveva ingurgitare per vivere in eterno (Gv 6, 26-59).

La fede è la forza che vincola i fedeli alla parola salvifica di Gesù. Gli si presta fede, e ci si lascia da lui persuadere, perché ritenuto degno di fede. E’ un rapporto reciproco di fedeltà quello che s’instaura tra il fedele, che giura fedeltà, e Gesù, essere divino, che promette fedeltà. E’ una fede nell’altrui fede. In verità, Gesù non professò mai apertamente d’essere la seconda ipostasi della Divina Trinità. Questo guazzabuglio teologico, come altre impareggiabili idiozie pretesche, disquisite in esagitati sinodi e consessi clericali, fu partorito durante dogliose e rissose dispute conciliari su questioni di lana caprina. La fede in una supposta divinità, dispensatrice di supreme verità salvifiche, può mascherare un inganno.

Paolo, nato ebreo, ancorché cittadino romano, non ha dubbi sulla grandezza e superiorità del popolo d’Israele, testimone e custode delle promesse di Dio (Rm 3, 1 seg.). L’attesa liberazione del popolo eletto per opera di un Redentore fa parte dell’eredità dei suoi compatrioti. La malvagità e l’infedeltà di alcuni non intaccano la benefica giustizia divina. Dio è sempre disponibile a perdonare il peccatore penitente. Paolo (2 Tm 2, 8-13), che non mentisce perché dice sempre il vero (in sua fede), testimonia che il Cristo Gesù è Dio, anche se, per quanto riguarda la sua natura umana, discende dalla stirpe di Davide (Rm 9, 1.5). Gesù rimane fedele, anche se l’uomo non lo è, perché non può rinnegare la sua essenza divina, la parola data, immutabile come l’amore che dona a chi è disposto a morire insieme con lui. Essere giudeo e seguire la fede d’Abramo, però, non è un vantaggio rispetto alle altre genti (Rm 3, 9 seg.). Tutti gli uomini, infatti, parola di Paolo, sono sotto il dominio del peccato. La Legge di Mosè, da una parte, e la coscienza degli uomini, dall’altra, non sono una garanzia per la salvezza. L’uomo è debole, ma può riscattarsi dal male, che alligna nella sua natura, mediante la fede in Cristo, l’unico vero Dio che può giustificarlo (santificarlo), consentendogli di operare il bene e vincere il male. La colpa originaria del primo uomo (da cui è scaturita la faida di Dio per tutte le successive generazioni) è stata riscattata con il sacrificio di Cristo (il sangue del quale ha placato l’offesa subita dal Padre). La redenzione dell’uomo per merito di Cristo ha consentito a Dio di scendere nuovamente a patti con la sua inaffidabile creatura. Per la nostra salvezza, non ci resta che abbracciare il “Figlio dell’uomo”, di stirpe giudaica, ipostasi di un trinitario dio, che ha accolto nel suo grembo anche i “gentili”, affinché risplenda in perpetuo un nuovo arcobaleno, simbolo di pace tra Dio e gli uomini d’ogni stirpe. A chi ha fede in lui, sottomettendosi incondizionatamente e operando in conformità del suo Vangelo, di cui è sommo interprete l’infallibile papa della Chiesa cattolica romana, egli elargisce il suo benevolo favore, il dono della giustificazione (l’intervento divino necessario a redimere l’uomo, condannato dalla propria natura al peccato). La fede, piuttosto che le opere prescritte dalla Legge, è ciò che conta per la salvezza dell’anima. Abramo stesso, ancorché incirconciso, ottenne la giustificazione in forza della fede, non della Legge mosaica (che non c’era ancora). Solo in seguito suggellò la giustificazione con il segno della circoncisione. Per essere giustificati, dunque, occorre la fede, incondizionata, non il segno della circoncisione (Rm 4, 1 seg.). In vero, il patto che Dio concesse ad Abramo, convalidandolo con la circoncisione, era eterno e inviolabile, pena la caduta nel peccato (Gn 17, 14). Lo stesso Abramo, del resto, non ebbe sempre una fiducia incondizionata verso Dio. Quando gli fu chiesto l’olocausto del figlio Isacco, egli ubbidì senza battere ciglio (Gn 22, 1 seg.); ma quando Dio gli promise il possesso della terra dal torrente d’Egitto al fiume Eufrate, pretese un segno per potergli credere (Gn 15, 7-8. 17).  Inoltre, quando superò il secolo di vita e Dio promise che sua moglie Sara, ormai novantenne, avrebbe partorito un figlio, Abramo, incredulo, sorrise (Gn 17, 17). Noi, invece, che non siamo padri eletti, che non abbiamo ricevuto il dono della fede, prima di batterci il petto e invocare nell’atto di contrizione il “miserere nostri, Domine!”, dovremmo perlomeno dubitare che l’Eccelso s’è fatto uomo, sacrificando se stesso nella persona del Figlio, per redimerci da un’atavica presunta offesa dei nostri avi. Noi, gente di poca fede, “figli” dell’incredulo apostolo Tommaso, senza uno straccio di prova incontrovertibile, dubitiamo. In assenza di un valido riscontro storico dell’emblematica figura del santone ebreo Gesù, verosimilmente divinizzato “post mortem” dai suoi fanatici epigoni, non possiamo ritenere come vero ciò che appare inverosimile, contraddittorio, assurdo, irrazionale, velato di mistero. La fede paradossale nell’inattendibile sacra storia cristiana rende l’uomo ingannevolmente pago, alienato da sé, sottomesso incondizionatamente all’altrui volontà.

Paolo contrappone Adamo a Gesù, l’uno in funzione inversa dell’altro (Rm 5, 12 seg.). Il primo, commettendo il peccato di disobbedienza, generò la morte fisica e spirituale del genere umano; il secondo, invece, donò la grazia con la quale poter riacquistare la vita eterna. Sulle orme di Paolo, i cristiani contrapposero Eva a Maria, la prima, generatrice di morte come Adamo, l’altra, liberatrice dalla morte per aver ubbidito alla volontà di Dio, offrendo il proprio ventre per generare il Figlio. Maria perciò, qualche tempo dopo la sua morte, fu santificata come donna sempre vergine (ante partum, in partu, post partum: mistero glorioso!), assunta direttamente in cielo (miracolo glorioso!) e venerata come immacolata Madre di Dio (il Cristo Gesù divinizzato). Le feste comandate in onore della Madonna, “turris eburnea”, e “refugium peccatorum”, dal cristiano vanno senza indugio onorate.

Per far parte della schiera di Cristo occorre sottomettersi al rito purificatorio del battesimo, per mezzo del quale si attua la palingenesi: l’uomo vecchio muore per rigenerare l’uomo spirituale. Rivestito dell’usbergo della grazia, il cristiano potrà liberarsi dal peccato (pia illusione). Divenuto servo di Cristo, potrà aspirare alla vita eterna (Rm 6, 1 seg.). La Legge mosaica, per quanto santa, ha suscitato nell’uomo la consapevolezza del peccato (Rm, 7, 1 seg.). Essa consiste in comandi e divieti che obbligano l’uomo a prendere una decisione: osservare o trasgredire i precetti. Se non vi fosse la Legge, non vi sarebbe nemmeno la consapevolezza del peccato. La Legge, inoltre, non dà né la forza necessaria per non trasgredire i suoi precetti, giacché questa forza proviene solamente da Dio, né la giustificazione, che si ottiene in virtù della fede. Per giunta, quelli che si basano sulle opere della Legge, quantunque santa, rischiano una maledizione, se non perseverano nell’adempimento delle varie prescrizioni (Dt 27, 26; Ga 3, 10-11).

Adamo ebbe coscienza del peccato? Dio gli donò la vita nel giardino dell’Eden, proibendogli di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, pena la sua morte. Ogni altro frutto, anche quello dell’albero della vita, poteva mangiarne. L’uomo, dunque, viveva in Eden senza la consapevolezza del male e senza conoscere la morte. Il divieto imposto da Dio ad Adamo era inefficace, non essendo sufficiente a impedire la sua caduta nel peccato. Adamo, infatti, non aveva la consapevolezza della colpa come conseguenza della trasgressione, essendo incapace d’intendere il bene e il male. Ne consegue che la punizione inflitta da Dio a lui e alla sua discendenza è stata ingiusta (Gn 2, 8 seg.; 3, 1 seg.). L’uomo, dopo aver mangiato il frutto dell’albero proibito, disubbidendo a Dio ma senza malizia (e quindi senza che gli si possa addebitare la colpa), scacciato dall’Eden, ha acquisito una coscienza, ancor prima di avere la Legge. L’acquisizione di una coscienza, però, non lo rende immune dal compiere azioni malvagie, essendo indotto a ciò dalla sua fragile natura, del condizionamento della quale è responsabile il Creatore. Non poteva Dio, uno o trino che sia, creare l’umanità senza prendersi, e farci prendere, tanti mal di pancia, evitando anche i mal di testa a tanti dotti teologi, che spremono le loro meningi nel vano tentativo di far quadrare il cerchio delle divine contraddizioni?


Lucio Apulo Daunio



POPOLI E CIVILTA' DELL'ITALIA PRE-ROMANA

 

La ricostruzione storica degli antichi popoli che abitarono l’Italia si desume da tradizioni leggendarie, da fonti scritte indirette (notizie tramandate da storici greci e latini: Erodoto, Tucidide, Diodoro Siculo, Dionigi di Alicarnasso, Polibio, ecc.) e dall’interpretazione di vestigia immobili e reperti mobili scoperti dagli archeologi.

L’Italia pre-romana era abitata da una moltitudine di popoli differenti per lingua e livelli socio-culturale. Di lingua non indoeuropea erano i Liguri, gli Etruschi, i Sicani (che occupavano il centro della Sicilia) e i Reti (stanziati nelle regioni del Trentino e dell’Alto Adige). Tra i popoli di lingua indoeuropea si distinguono quelli non italici: Celti (Insubri, Boi, Senoni) nella pianura padana, Elimi nella regione nord-occidentale della Sicilia, Iapigi in Puglia (distinti in Dauni tra il Gargano e il Tavoliere, Peucezi nella terra di Bari e Messapi nel Salento), da quelli italici: Veneti, Osco-Umbri, Latini, Siculi (stanziati nella Sicilia orientale).

Greci, Micenei e Fenici colonizzarono in più tempi l’Italia meridionale, fondando nuovi insediamenti, politicamente autonomi dalla madrepatria, cui rimasero legati dal sentimento religioso. Magna Grecia (Megàle Ellàs) è il nome dell’Italia meridionale colonizzata dai Greci, detti Italioti. Tra i Greci, intorno al secolo VIII ante era volgare, gli Euboici colonizzarono le coste e le isole della Campania (Cuma, Ischia, Neapolis) e quelle presso Reggio Calabria. Pithecusa sull’isola di Ischia si ritiene che sia il più antico insediamento dei coloni greci in Italia. Gli Achei si attestarono lungo la costa ionica, a Metaponto, Sibari, Crotone. Gli Spartani fondarono Taranto. I coloni Locresi fondarono Locri Epizefiri in Calabria. I Colofoni, in fuga dall’Asia Minore, si stanziarono sulle coste della Basilicata, dove fondarono Siris (in seguito rifondata col nome di Heraclea, attuale Policoro). Gli abitanti di Samo per sfuggire al tiranno emigrarono in Campania dove fondarono Dicearchia (ora Pozzuoli). I Focesi dell’Asia Minore fondarono Elea sulle coste campane, che i Romani denominarono Velia. A queste prime emigrazioni dalla Grecia e dalla Ionia, seguirono altre, indotte da motivi economici e commerciali, ma anche a causa di lotte politiche. Coloni greci approdarono anche in Sicilia. I rapporti con le popolazioni indigene dell’Italia si mantennero amichevoli, almeno fino al VI secolo. Le differenti stirpi dei coloni greci innescarono la rivalità tra le città della Magna Grecia con l’inevitabile conseguenza di guerre e distruzioni. L’intervento dei Romani a protezione di città alleate si concluse con l’egemonia della potenza romana sulle città della Magna Grecia.

I coloni greci fondarono le città in prossimità di corsi d’acqua, lungo le coste italiche, in modo da usufruire dei porti. Le città erano difese da una cinta di muri, oltre i quali si predisponevano le necropoli. Il terreno agricolo circostante era suddiviso tra i coloni. La compagine interna alla città era costituita in modo da distinguere lo spazio riservato alla vita pubblica e religiosa da quello abitativo. L’impianto urbano aveva una struttura a reticolo (secondo una disposizione funzionale, teorizzata da Ippodamo di Mileto): strade larghe con direzione est-ovest, tagliate perpendicolarmente da strade più strette con direzione nord-sud. Lungo i lati dei marciapiedi scorrevano le fogne e i canali per la raccolta delle acque piovane. Le attività artigianali pericolose erano collocate in spazi periferici. Punto focale della città era l’area sacra, dove erano edificati i templi alle divinità, all’esterno dei quali si ponevano le are per i sacrifici e le cerimonie religiose. Una linea di confine delimitava l’area sacra da quella profana. Gli edifici templari, arricchiti con fregi, erano di stile dorico o ionico. Lo spazio pubblico adibito alla politica e agli affari, l’agorà, era collocato in prossimità del santuario per essere sotto la protezione divina. Nell’agorà, libero da edifici, si trovavano particolari monumenti (in onore di divinità protettrici o di eroi fondatori) e l’erario. Il luogo predisposto ad accogliere l’assemblea dei cittadini consisteva in uno spazio centrale circondato da gradini (trasformato poi in teatro). La necropoli era sistemata su un terreno non produttivo. Le sepolture erano a inumazione o a incinerazione. Le ceneri, raccolte in un’urna, erano poste in una fossa con il resto del corredo del defunto. Più tardi compariranno tombe a struttura monumentale. Nelle aree artigianali si producevano manufatti di pregio (ceramiche, gioielli, statuine votive, ecc.).

Filosofi, matematici, poeti, musici e legislatori testimoniarono l’alto valore culturale raggiunto dalla Magna Grecia. A Locri Epizefiri operarono il filosofo Timeo, il poeta lirico Senocrito e le poetesse Teano e Nosside. Il poeta Stesicoro, l’Omero della lirica corale, e il giurista legislatore e storico Caronna, vissero a Catania. A Reggio di Calabria, Ibico, poeta di lirica corale, lo scultore Clearco e lo storico Ippi. A Crotone, il matematico e filosofo Pitagora e il medico e astronomo Alcmeone. I filosofi Senofane (di Colofone), Parmenide e Zenone furono i fondatori della scuola di Elea (la Velia dei Romani, presso Salerno), che diedero impulso al libero pensiero, critico nei confronti della mitologia omerica ed esiodea. Rintone di Siracusa, attivo a Taranto, fu l’inventore della farsa fliacica (commedia popolare improvvisata sulla base di un canovaccio). Di Taranto erano anche lo scienziato Archita, che suscitò ammirazione in tutto il mondo greco, il musicologo Aristosseno, il filosofo Liside e il poeta Leonida. In Sicilia, oltre al poeta siceliota Stesicoro, operarono anche i poeti corali: Pindaro, Simonide e Bacchilide. Il filosofo, poeta e commediografo Epicarmo e il tragediografo Eschilo operarono a Siracusa, città che diede i natali allo storico Antioco. Leontini diede i natali al sofista Gorgia, che visse in Sicilia fino a tarda età, prima di recarsi ad Atene.

Prima dell’arrivo dei coloni greci, l’Italia meridionale era occupata da popoli indigeni di diverse etnie, lingue, culture. Nelle zone interne della Campania erano stanziati gli Osci di ceppo sannitico, appartenenti al gruppo Osco-Umbro. Ausoni e Aurunci, in particolare, abitavano i territori dal basso Lazio fino allo stretto di Messina. In Puglia, erano stanziati gli Iapigi provenienti dall’Illiria. Questi, dopo essersi amalgamati con la popolazione indigena, furono distinti in Dauni (nel foggiano), Peucezi (nel barese), Messapi (nel Salento). I Romani chiamarono Apuli e Apulia rispettivamente popolazioni e territori abitati da Dauni e Peucezi; chiamarono invece Calabria il territorio abitato dai Salentini. Gli Iapigi erano consanguinei degli Enotri, popolazione illirica che viveva nella Basilicata e nella Calabria settentrionale, prima dell’arrivo dei Lucani, italici di lingua osca. I Brettii o Bruzi erano italici che abitavano luoghi fortificati della Calabria con la capitale a Cosenza.

Nella Sicilia orientale, prima che arrivassero i coloni dalla Grecia, abitavano i Siculi (provenienti dal Lazio). I Sicani (autoctoni) occupavano la regione centrale dell’isola. Gli Elmi (provenienti dall’Asia Minore) erano stanziati nella regione occidentale, dove Fenici e Cartaginesi (c.d. Popoli del Mare) avevano colonie a Mozia, Palermo e Solunto. I rapporti tra i coloni greci e le genti del luogo furono spesso conflittuali. I Calcidesi (provenienti dall’isola greca di Eubea) fondarono Zancle, Naxos, Catania, Messina, Reggio Calabria; i Corinzi, Siracusa; i Megaresi, Megara Hyblaea e Selinunte; i Rodiesi e i Cretesi, Gela e Agrigento.

Tra le prime manifestazioni culturali dei coloni greci in Sicilia, si evidenziano quelle inerenti alla costruzione di massicci templi dorici (stile severo), abbelliti con sculture figurative, circondati da colonne, a Siracusa, ad Agrigento, a Selinunte, a Segesta. Durante le ricorrenze festive si apprestavano per più giorni spettacoli nei teatri, edificati nei pressi dei santuari. La recita era eseguita da attori uomini, che sostenevano anche ruoli femminili, calzavano coturni, indossavano particolari maschere che amplificavano la voce, sostituendo alla mimica facciale la gestualità. Si utilizzavano anche appositi macchinari scenici.

Anche la Sardegna, dove era già fiorita la civiltà nuragica (caratterizzata dalla costruzione di monumenti megalitici della cui effettiva funzione si discute), fu colonizzata da Fenici, Cartaginesi e Greci in più tempi, che convissero con la popolazione autoctona sarda.

Sanniti, Latini, Umbri, Piceni, Sabini e altre etnie popolavano l’Italia centrale tra Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo prima della loro sottomissione al dominio romano. Sulla fascia costiera dell’Abruzzo erano dislocati: Petruzi, Vestini, Marrucini, Frentani. All’interno della regione abitavano: Peligni, Equi, Marsi, Sabini e altri. I Sabini, i più potenti, occupavano un territorio che dal centro della penisola si estendeva fino a Roma. I centri abitati da tutte queste popolazioni erano edificati sulle alture e cinte di fortificazioni. Le attività prevalenti erano la caccia, la pastorizia e l’artigianato. Lungo la costa e nelle vallate dei fiumi delle Marche erano dislocati i Piceni, attivi negli scambi commerciali per via mare con gli altri popoli dell’Adriatico. Tra le attività artistiche di questo popolo, particolare rilievo ha avuto la scultura (Guerriero di Capestrano). A Nord del territorio dei Piceni vivevano i Senoni, di stirpe celtica. La più antica popolazione italiana, gli Osco-Umbri, si estendeva in una vasta zona dell’Italia centrale, oltre l’attuale omonima regione, fino a toccare le coste adriatiche e tirreniche. Vivevano sulle alture, in villaggi fortificati, dediti alla pastorizia, all’agricoltura, all’estrazione e lavorazione dei metalli (nella zona di Terni). Punti di aggregazione per decisioni politiche e per celebrare ricorrenze festive erano i santuari. Importante reperto storico per la conoscenza di questo antico popolo sono le bronzee Tavole di Gubbio, scritte in lingua umbra e contenente prescrizioni rituali per il collegio sacerdotale. Il Lazio era abitato dai Latini, popolazione di pastori e agricoltori, federati in una lega sacra. Il più importante centro religioso dei Latini, dedicato a Giove Laziale, si trovava tra i Colli Albani. Secondo la leggenda, nel Lazio approdarono i profughi di Troia sotto la guida di Enea. Gli indomiti Sanniti, di lingua osco-umbra, imparentati con i Sabini, abitavano il territorio del Sannio, nella zona appeninica centro meridionale (Abbruzzo, Molise, Daunia). Erano distinti in Carricini, Pentri, Caudini e Irpini (gli ultimi due erano i più esposti agli influssi della Magna Grecia). I Frentani, che abitavano nella regione del Molise, si unirono ai Sanniti. Di religione e lingua osca erano i Marrucini, dislocati nella zona di Chieti, e i Lucani dislocati nella regione della Basilicata. Questi popoli erano molto fieri, combattivi e strenui difensori della loro libertà. Durante le feste religiose organizzavano giochi di combattimento (importati poi dai Romani nei giochi cruenti dei gladiatori). I centri abitati erano collegati tra loro dai tratturi: larghi percorsi naturali tracciati dal periodico spostamento degli animali in cerca di pascoli verso il Tavoliere (transumanza). Un importante percorso tratturale era quello che dalle zone interne dell’Abruzzo, attraverso il Molise, raggiungeva la Puglia (regione Daunia) nei pressi di Candela.

In Toscana, tra l’Arno e il Tevere, in una regione ricca di risorse naturali (minerarie, boschive, agricole, marittime), dominavano gli Etruschi: un popolo ricco e politicamente organizzato, che viveva in stabili centri urbani e con un valore culturale elevato di stile orientale. Ne sono testimonianza le vestigia delle principesche tombe etrusche e i pregiati manufatti della produzione artigianale. La loro influenza politica e commerciale arrivava a nord nella pianura padana e a sud si spingeva fino alla Campania. Dionisio di Alicarnasso (I sec. a.e.v.), sulla base delle fonti in suo possesso, sosteneva nelle “Antichità romane” che gli Etruschi erano un popolo originario della Toscana, anziché di provenienza orientale (tesi ancora predominante). Centri maggiori lungo la costa tirrenica erano: Populonia, Vetulonia, Vulci, Tarquinia, Cerveteri; nell’interno della regione: Volterra, Arezzo, Cortona, Perugia, Chiusi, Volsinii, Veio, Orvieto.

L’Italia settentrionale era abitata ad ovest dai Liguri e dai Taurini (in Piemonte). Nella pianura padana vivevano popoli Celtici: gli Insubri (in Lombardia), i Boi (in Emilia), i Senoni (in Romagna e nelle Marche). I Camuni, i Veneti e i Carni vivevano tra il Veneto e il Friuli. Lungo l’arco alpino si trovavano gli Alpini, i Salassi, i Leponzi, i Reti. Importanti città celtiche erano Milano (Mediolanum) e Senigallia (Sena Gallica).

Lucio Apulo Daunio

sabato 12 novembre 2011



PAOLO
APOSTOLO CRISTOPATICO



Paolo, il tredicesimo apostolo cristo-patico, inventore del cristianesimo, iniziatore del lungo processo di riforma e distacco della nuova fede dall’ebraismo, nella sua esaltazione cristologica, si onora d’essere il servo (schiavo) di Cristo (Kyrios), Messia d’Israele, Figlio dell’uomo, Signore onnipotente, immagine vivente dell’Altissimo. Paolo, vaso d’elezione, tramortito lungo la via per Damasco da convulsioni allucinatorie (At 9,1 seg. e 22,6 seg.), fu gratificato dalla Grazia del Cristo risorto (non del Cristo storico). In verità, i compagni di viaggio udirono il suono di una voce, ma non videro nessuno (cfr. At 9, 7); o videro una luce, ma non udirono voci (cfr. At 22, 9): dunque, nell’uno o nell’altro caso, non compresero il fenomeno occorso al loro compagno Paolo. Questi, verosimilmente, essendo sofferente di epilessia, ebbe una crisi commista a una visione mistica durante un viaggio. Può anche darsi, invece, che un’umana passione a noi ignota gli abbia reso invisa la fede dei suoi padri, inducendolo ad abbracciare quella dei nazareni, seguaci di Gesù. Ad ogni modo, in seguito alla conversione, si sentì deputato a compiere la missione di apostolo delle genti non ebraiche: i gentili, pagani, stigmatizzati dalle Scritture come impuri cani infedeli (cfr. Salmi 22, 16; Mt 15, 21-28). L’autorità, in fede sua, non gli deriva da uno dei dodici apostoli o da qualche comunità cristiana, ma dal Cristo stesso, dal quale, durante la visione, apprese direttamente la “buona novella” (Ga 1, 1-20). Anche Maometto rivendica di aver ricevuto, attraverso la voce dell’arcangelo Gabriele, il verbo di Dio, che i suoi seguaci hanno poi incartato nel Corano. Diffusa era in molte antiche civiltà la convinzione che la volontà degli dei potesse essere interpretata da taluni sedicenti messaggeri, anche mediante l'osservazione di segni specifici, da cui trarre auspici. Paolo non dubita che il Vangelo che lui predica sia stato annunciato, prima della venuta del Messia, tramite gli oracoli dei profeti (Rm 1, 1-7). Ancor meno dubbi ha riguardo al Cristo, che crede essere venuto ad esistenza con umana natura dalla stirpe di Davide e poi costituito Figlio di Dio con natura divina in base alla risurrezione dai morti. Sembra, dunque, che, durante la sua umana esistenza, il Cristo abbia temporaneamente rinunciato alla natura divina, per riacquistarla soltanto temporaneamente con l’episodio della trasfigurazione (Mc 9, 1-7) e definitivamente con la resurrezione. Paolo, quindi, sembra che distingua in Gesù due stadi: quello dell’uomo privo d’attributi divini e quello posteriore alla resurrezione, quando l’uomo Gesù recupera la pienezza della sua divinità. Crediamo, invece, che le cose stiano diversamente, e cioè che un uomo di nome Gesù, stimato come un profeta, sia stato divinizzato dai suoi seguaci dopo la sua morte e insignito dell’altisonante titolo "Figlio di Dio" (non nel senso di filiazione fisica, ma come titolo prestigioso, essendogli stata conferita una importante missione da Dio). Per l’autore del Vangelo secondo Giovanni, invece, Gesù è il Verbo (il Logos divino), che si è fatto carne (vale a dire uomo, senza rinunciare ai suoi attributi divini) e ha preso dimora in mezzo agli uomini (Gv 1, 14). In altri termini, Dio Padre concepisce un “alter ego”, il Figlio, che si manifesta nel mondo come Dio, nonostante nasca come uomo (il mito di Zeus, come padre di figli divini, si ripete). Se paolo distingue le due nature attribuite al Cristo Gesù, Giovanni è categorico riguardo alla pienezza della natura divina dell’uomo Gesù. Nella Lettera ai Filippesi (Fl 2, 5-11), Paolo, il teologo della croce, afferma che Gesù, nascendo simile agli uomini, annientò la sua essenza divina, facendosi servo di Dio e a lui obbedendo in tutta umiltà fino a morire per gli altri (una virtù stoica, prima che cristiana) nell’ignominia della crocifissione (che, umanamente, mal sopportò). Per questo il Padre lo ha esaltato ed insignito della dignità del titolo di “Signore”, superiore ad ogni altro. Gesù, quindi, in quanto uomo, pare che abbia bisogno, come i re della terra, di segni distintivi e titoli onorifici per la sua gloria. Che Gesù sia persona divina e che in sé racchiuda tutti i tesori della sapienza e della conoscenza (Col 2, 3), non pare punto vero, giacché dichiara espressamente di non conoscere né il giorno né l’ora degli eventi escatologici e della sua parusia (Mt 24, 34-37; Mc 13, 32). Se neppure gli angeli del cielo ne sono a conoscenza, dato che l’onniscienza è un requisito che possiede esclusivamente il Padre, l’ignoranza di Gesù è quindi da attribuire alla mancanza della sua natura divina. Dunque, viene anche meno la presunta consustanzialità del Figlio con il Padre. Fatto sta che sulla misteriosofia cristiana è preferibile lasciare la parola (senza prestarvi cieca fede) alla speculazione dei teologi, ingegnosi costruttori di laboriose costruzioni mentali di genere fantastico. Certo è che Gesù non è onnipotente come il Padre, non potendo superare i limiti che gli sono stati assegnati nel suo essere nel mondo. Egli può modificare la parte assegnata a ciascuna vita umana solo con l’autorizzazione del Padre. Da questo punto di vista sembra che abbia un potere maggiore di quello attribuito a Zeus, sopra il quale imperava Moira, la dea filatrice degli umani ineludibili destini.

La notizia che Paolo fosse un persecutore dei cristiani prima della conversione e che fosse stato inviato in missione a Damasco, capitale della Siria, per arrestare i cristiani e tradurli a Gerusalemme, appare priva di fondamento, non avendo il Sinedrio effettivo potere di coercizione nell’ambito di una diversa amministrazione. C’è chi congettura che “Damasco” indicherebbe il nome del luogo in cui gli asceti Esseni di Qumran si erano esiliati. Sia questi sia i cristiani, fatte le debite differenze, avevano in comune l’atteggiamento di dissenso religioso-messianico nei confronti della corrotta classe sacerdotale e politica d’Israele (gli Erodiani), volta a salvaguardare i propri interessi in combutta con le autorità romane. Gli Esseni si caratterizzavano per il loro rigorismo cultuale, il celibato, la comunione dei beni, l’organizzazione gerarchica, il nazionalismo, l’attesa escatologica e l’opposizione alla classe sacerdotale dominante. I proto-cristiani, ebrei messianici, che credevano nell’imminente arrivo di un re proveniente dalla stirpe davidica per riscattare Israele dalla dominazione straniera, avevano delle affinità con gli Esseni.

Paolo crede d’essere strumento di Gesù, da lui arruolato sulla strada verso Damasco per portare il “verbo” divino ai gentili (i pagani), ai re della terra e ai figli d’Israele (At 9, 3-6. 15). Il dio paolino non ha più confini: è ecumenico, spoliticizzato. Nel discorso che fa in sua difesa di fronte al re Agrippa ed al governatore Festo, Paolo dichiara che Gesù (di cui nega la morte, cfr. At 25, 19) lo ha consacrato apostolo, incaricandolo di annunciare il Vangelo ai gentili per condurli all’obbedienza della fede in Cristo (At 26, 12-18). Veramente Gesù l’aveva incaricato di convertire anche i figli d’Israele, ma i notabili della Chiesa di Gerusalemme, Giacomo, Pietro e Giovanni, erano di diverso avviso. Si riservarono per loro il compito di evangelizzare i Giudei e assegnarono Paolo e Barnaba al servizio missionario presso i popoli non circoncisi (Ga 2, 7-9). Forse in considerazione del fatto che Paolo, commerciante di stoffe, era più avvezzo a trattare con i “gentili”. Gesù, sicuramente, non si adombrò. Ciò che importava era arruolare reclute da inquadrare nella sua milizia. Paolo diventava così l’antesignano di una nuova fede, il cristianesimo, da lui plasmato ammorbidendo il rigido formalismo giudaico. La nuova religione sarà consolidata e riadattata ai vari contesti culturali dall’opera assidua dei padri apostolici, dei dottori della chiesa, degli apologeti e degli intellettuali organici dediti al servizio della fiorente istituzione cristiana, tesa alla conquista (conversione) dei ceti pagani, oltre che giudaici. Il cristianesimo storico, nonostante la pretesa di fondarsi sulla divina rivelazione, è in realtà un prodotto culturale dell’uomo, come ogni altra religione. Fondamentalmente intollerante è il cristianesimo religioso, giacché fondato sul mono-triteismo giudaico-cristiano, che esclude l’esistenza di altre divinità e, quindi, di altre religioni. Se unico è il vero Dio, unica è anche la vera fede; ne consegue che se non possono esistere altre divinità, neanche possono essere veritiere altre fedi. Se le altre fedi possono essere benevolmente accreditate, in quanto possibile strumento per conoscere l’Altissimo, il Vangelo, invece, è dogmaticamente creduto vera rivelazione di Dio annunciata agli uomini dal figlio Gesù. In realtà, ciò che le Sacre Scritture rivelano sono soltanto testimonianze prefabbricate da manipolatori ideologici e fondate su astratti concetti teistici, che la dogmatica ecclesiale garantisce come verità annunciate da Dio. In verità, mancano le prove incontrovertibili atte a testimoniare l’eccezionale storica teofania di Dio, che invece di mostrarsi direttamente al mondo e contemporaneamente a tutti gli esseri umani, si racconta che sarebbe apparso sotto le spoglie di un santone ebreo di nome Gesù, trasformato dai suoi fedeli in Figlio di Dio. Le bibliche scritture, in sostanza, intendono avvalorare una “veritas” fondata sulla divina “illuminatio”, cioè sulla testimonianza d’uomini che si accreditano come illuminati dalla divina sapienza, ma che, di fatto, attestano una loro convinzione in una fede irrazionale e contraddittoria, accidentalmente determinatasi nel corso della storia. Il cristianesimo, come tutte le fedi religiose, è una superstizione, e per giunta goffa e truculenta, simboleggiata dal sacrificio della sofferenza sulla croce di un uomo, abbandonato da Dio e dai suoi discepoli. Si fonda sull’innaturale risuscitazione di un cadavere e sull’apoteosi di un uomo redivivo, la cui immagine, adorata in chiese-museo, rappresenta una lugubre testimonianza di una deprivazione culturale, offensiva della dignità umana. Sulla mistificata divinazione di un uomo, su una credenza non storicamente accertabile, si fonda il potere sovrano, ecumenico, millantato dalla Chiesa cattolica come voluto dal Cristo-Dio. Un potere concreto, supportato da un apparato economico-politico, da tecnologie massmediatiche e da scenografiche rappresentazioni rituali, pregne di simboli, di addobbi sontuosi e grotteschi, di vocalità noiose, di nenie tediose. Il tutto diretto da un cadaverico regista, assiso sul trono regale di un monumentale e sfarzoso edificio rinascimentale, dove pontifica al mondo intero, propagando “urbi et orbi” la spettacolare mercanzia della mondana Chiesa cattolica a esclusivo profitto degli addetti, ipocritamente celato sotto le mentite spoglie della sete millenaria di giustizia, che sarà attuata nella notte dei tempi ultimi mediante l’intervento nella scena del mondo del “deus ex machina”, il Cristo redentore, inflessibile giustiziere.

Paolo non si vergogna di annunciare il Vangelo (Rm 1, 16 seg.), ossia la fede in un uomo messaggero di Dio, trasformato poi in suo “alter ego”. Egli crede che Gesù sia venuto tra gli uomini ad annunciare la divina parola e a indicare la strada da seguire per garantirsi l’eterna salvezza, dopo la morte, nel paradisiaco regno dei cieli. Egli ha apportato la salvezza non solo per gli ebrei (i soliti raccomandati), ma anche per i greci (ai quali saranno assimilati i romani e gli altri popoli della terra). Gli ebrei, invece, non hanno voluto riconoscere Gesù (i soliti ingrati) né come l’atteso Messia né tantomeno come essere divino. Anzi, stracciatesi le vesti, lo accusarono d’essere un sobillatore, un malfattore, un bestemmiatore, un sacrilego, che si spacciava non solo per “Re dei Giudei”, ma addirittura per “Figlio di Dio”. Gesù non si difese dalle accuse né s’avvalse della retorica dello Spirito Santo. Fu condannato alla pena di morte per crocifissione, come un infame. Questo era il destino che il Padre gli aveva riservato, il prezzo da pagare per riscattare i peccati dell’umanità. Nel Regno di Dio vigono leggi deterministiche. Le colpe degli uomini dovevano essere espiate con il sacrificio del Figlio Redentore. Dio non ha rinunciato alla nèmesi (vendetta) per ripristinare l’ordine distrutto dalla “hybris” (tracotanza) dell’uomo. Perciò s’è macchiato di un grave delitto contro se stesso, essendo colpevole dello spargimento del sangue del Figlio. Il sacro rito della messa, officiato dai sacerdoti, commemora l’espiazione di Gesù (“homo sacer”), simbolicamente offerto al Padre come vittima (“hostia”) sacrificale (“sacrificium”). Quale novello Dioniso, Gesù diventa salvatore e dispensatore di libertà, potendo sciogliere ogni legame. L’umanità - a giudizio di Paolo - s’è mostrata poco riconoscente del sacrificio di Cristo, del sangue da lui versato per la liberazione dell’uomo dal male e dalla prigionia del peccato. Essa non ha voluto riconoscere Dio, che pure s’è manifestato con le opere del creato e non solo (in modo più diretto) nella storia d’Israele (dove, in verità, s’è connotato quale imperioso Dio degli eserciti, regnante e legiferante). Seguendo la loro sciocca sapienza, anziché la coscienza, gli uomini lo hanno mortificato, preferendo glorificare degli idoli, piuttosto chi parlava ai loro cuori. Adombrati dalla malvagità e con la coscienza ottenebrata, gli uomini hanno proseguito a vivere nell’immoralità (come la concupiscenza dell’omosessualità femminile e maschile) e nell’idolatria, scatenando nuovamente l’ira divina e la conseguente condanna all’eterna morte. A questa punizione non sfuggiranno, nel giorno del giudizio universale, neanche quei giudei che avranno compiuto identiche azioni malvagie (Rm 3, 1 seg.). Questa è la morale della favola cristiana, secondo l’apostolo Paolo, servo (schiavo) di Cristo.


Lucio Apulo Daunio



venerdì 11 novembre 2011


LETTERE CATTOLICHE



Le Lettere Cattoliche, dette anche apostoliche, perché (impropriamente) attribuite dalla tradizione agli apostoli: Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda (colonne della chiesa di Gerusalemme; cfr. Ga 2, 9), completano il canone delle epistole del Nuovo Testamento. Sono dette cattoliche (cioè universali), perché (ad eccezione di 2 e 3 Gv) non sono destinate a comunità particolari, come le lettere paoline, ma alle “chiese” disseminate nel mondo. Redatte verso la fine del primo secolo, sono da considerare scritture pseudo-epigrafe.




LETTERA DI GIACOMO



La lettera c.d. di Giacomo (databile nell’ultimo quarto del primo secolo) si presenta come un’omelia rivolta alle (mitiche) dodici tribù d’Israele (cioè le comunità giudaico-cristiane) sparse nel mondo (diaspora). Si propende a considerarla un compendio da precedenti fonti. Si ritiene d’incerta attribuzione, essendo l’autore non ben identificato, ancorché la tradizione l’abbia voluta attribuire a Giacomo il Giusto, uno dei quattro fratelli carnali di Gesù, responsabile e guida suprema della chiesa di Gerusalemme (At 12, 17) fino all’anno 62 del suo martirio (fu lapidato) per mano dei Giudei. Si crede che si sia convertito alla fede di Gesù dopo la sua risurrezione e apparizione ai discepoli (cfr. 1 Co 15, 7). Nelle “Recognitiones”, uno degli scritti apocrifi della letteratura pseudo-clementina, Giacomo è designato vescovo dei vescovi, successore della cattedra di Cristo a Gerusalemme (cfr. l’apocrifo “Vangelo di Tommaso”) e da lui deputato a governare tutte le comunità cristiane sparse nel mondo (cfr. Lettere di Clemente a Giacomo). Altri studiosi propendono per Giacomo il Minore, figlio d’Alfeo e fratello di Giuda Taddeo, o per l’atro Giacomo, il Maggiore, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, giustiziato (fu decapitato) verso l’anno 43 da Erode Agrippa, oppure per un omonimo autore giudeo-cristiano (forse un asceta esseno). Dall’esame dei manoscritti scoperti nella località di Qumran, presso il Mar Morto, dove viveva una comunità di esseni (fino al 70 e.v.), alcuni studiosi hanno ipotizzato che Giacomo, fratello di Gesù, fosse il loro Maestro di Giustizia e che Gesù fosse il Messia di Aronne atteso dagli esseni (cfr. “Regola della Comunità”, rotolo 1QS), ossia un profeta predicatore destinato a soffrire e ad essere ingiustamente accusato, distinto dal Messia davidico, figura prettamente politica. Nel Vangelo secondo Matteo (11, 14), invece, si attesta che Elia è il profeta atteso dal popolo ebraico, venuto nella persona di Giovanni Battista. Nel Vangelo secondo Giovanni (1, 19 seg.), al contrario, si attesta che il Battista non è Elia, né il profeta (atteso dalla comunità essena di Qumran), né il Messia salvatore escatologico, ma solo un precursore del Cristo Gesù.

L’autore della lettera, che si qualifica servo di Dio e del Signore, il Cristo Gesù, espone i principi morali che devono guidare la vita dei giudeo-cristiani. Esorta a non avere riguardo di persona durante le assemblee liturgiche. Polemizza contro i favoritismi nelle comunità cristiane verso i membri ricchi, rammentando che il Vangelo è stato annunciato soprattutto per i poveri. Denuncia sia l’immoralità dell’ingiusto arricchimento, che lede i diritti dei lavoratori, sia le ingiustizie che opprimono i miseri. Inveisce, inoltre, contro i ricchi padroni, che sfruttano i loro schiavi e umiliano i poveri, preconizzando la vendetta del Signore, il cui glorioso ritorno si avvicina continuamente (vana speranza). Biasima l’uso della parola volta a denigrare il prossimo. Invita a sopportare la sofferenza, cercando conforto nella preghiera, affinché i lumi della Sapienza facciano comprendere i misteri divini. Infonde speranza di guarigione ai malati, esortandoli a farsi somministrare dai presbiteri il sacramento terapeutico dell’unzione con olio benedetto.

Nell’ebraismo la fede non basta per essere giustificati davanti a Jahvè; occorrono anche la pratica delle numerose opere prescritte nella Bibbia. Anche Giacomo, fratello di Gesù, responsabile della Chiesa di Gerusalemme, nell'omonima lettera insiste sull’adempimento delle opere, senza le quali la sola fede non giova, opponendosi a Paolo di Tarso, che riteneva sufficiente per la salvezza la sola fede. Giacomo, invece, ritiene inseparabili l’una dalle altre. Infatti, anche ammettendo che la giustificazione si abbia in base alla fede e non alle opere, egli considera imperfetta la fede che non sia accompagnata dalle opere, essendo queste espressione della fede (in verità, le buone opere compiute per amore del prossimo e non in forza della fede in divinità trascendenti, sono senz’altro più meritorie, in quanto giustificano l’uomo non davanti al Nulla deificato, bensì davanti alla sua umanità). La fede in Dio, sottolinea l’autore della lettera, che sembra voler polemizzare con la dottrina paolina della giustificazione, è fede operante, in quanto l’una (la fede) implica l’altra (l’opera) e viceversa. Secondo Paolo, invece, la giustificazione del peccatore è azione congiunta della fede nel Vangelo e della grazia di Dio, piuttosto che delle opere. Già al tempo di Paolo, infatti, si era verificata una prima spaccatura tra giudei cristiani, seguaci di Pietro, di Giacomo e di altri notabili di Gerusalemme, osservanti della legge rituale mosaica, e cristiani ellenistici, prevalentemente di provenienza pagana (i “gentili”), seguaci di Paolo (At 11; 15; Ga 2, 11-21; 3, 10-14; 3, 21-28; 5, 1-6). Con la distruzione di Gerusalemme nell’anno 70, cessò di esistere la primitiva comunità dei giudeo-cristiani. La lettera termina bruscamente, senza i convenevoli della chiusura finale.




LETTERE DI PIETRO



L’analfabeta Pietro (pastor ovium), l’apostolo “primus inter pares” (primo tra uguali), è considerato dalla Chiesa la roccia su cui Gesù ha voluto costruire la sua comunità (cfr. Mt 16, 17-19: questa pericope, che si ritiene aggiunta successivamente all’originaria scrittura, non è riscontrabile nei testi degli altri evangelisti). A Pietro, iniziatore (ma non vi sono testimonianze certe) della successione episcopale della cattedra romana, sono state attribuite due lettere (databili tra gli anni 70 e 100). La prima è uno scritto pseudonimo, redatto da un discepolo di Pietro (o da un maestro di scuola paolina), appartenente alla comunità di Babilonia (che s’interpreta come probabile nome metaforico di Roma); l’altra è uno scritto pseudoepigrafo (cioè un falso storico). I destinatari sono gli Israeliti residenti nelle provincie dell’Asia Minore, convertiti al cristianesimo, eletti pellegrini della dispersione, ma anche credenti provenienti dal paganesimo, riscattati da una vita insulsa. I cristiani sono il nuovo popolo eletto scelto da Dio. Si espongono gli aspetti pratici della vita cristiana e le difficoltà cui è sottoposta la comunità, vivendo in un ambiente pagano, caratterizzato da un clima di ostilità e dalla minaccia di un’incombente persecuzione, poiché erano odiati a causa dei loro presunti delitti (per flagitia invisos).

Secondo una tradizione, la prima lettera, scritta verosimilmente da un segretario dell’apostolo, fu spedita da “Babilonia” ai cristiani dell’Asia per avvertirli dei pericoli di una persecuzione incombente anche nelle lontane provincie romane (forse in conseguenza dell’accusa di Nerone ai cristiani, responsabili dell’incendio di Roma del 64, che distrusse per nove giorni il settanta per cento delle 14 regioni della capitale, com’erano state distinte da Augusto). In relazione a questa tradizione, si ritiene che l’epistola sia stata scritta durante il periodo di persecuzione neroniana (non oltre il 68, anno della morte di Nerone). S’ipotizza che la persecuzione neroniana possa essere stata estesa in tutto l’impero tramite un editto pubblico (non menzionato dagli storici pagani, ma soltanto da quelli cristiani; cfr. Orosio, Adv. pag. hist. VII, 5; Sulpicio Severo, Chron.II,41). Secondo una tradizione, l’apostolo Pietro venne (o ritornò) a Roma durante il regno di Nerone (tra il 54 e il 68). Sopravvissuto alla persecuzione (in base all’ipotesi che fu lui a scrivere l’omonima prima lettera per incoraggiare i fedeli dell’Asia ad affrontare con coraggio la persecuzione del 64), subì il martirio mediante crocifissione qualche anno prima del suicidio di Nerone. Vari sono i racconti leggendari sul martirio di Pietro (come la Passio Petri dello pseudo-Lino). Clemente romano, papa dall’88 al 97, non indica il modo in cui avvenne il martirio. Nel Vangelo secondo Giovanni, databile tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo, si allude alla morte per crocifissione (Gv 21, 18-19). Origene (185-254) afferma che l’apostolo chiese di essere crocifisso con la testa all’ingiù. Secondo la tradizione, i resti dell’apostolo furono deposti ai piedi del colle Vaticano, dove Costantino fece edificare la prima basilica.

I cristiani dell’Asia soffrono perché sono considerati dalla pubblica opinione al pari dei malfattori: asociali, omicidi, ladri, spioni. L’autore della lettera si prodiga in consigli e raccomandazioni. Le tribolazioni che stanno subendo a causa delle dicerie (rumores) sul loro modo di vivere, vanno considerate come titolo di gioia e rimedio contro il peccato, perché esse sono una partecipazione alla sofferenza di Cristo, patita ingiustamente sulla croce. L’autore esorta i fedeli al lealismo politico (in conformità all’orientamento paolino - cfr. Rm 13, 1-7, ma in contrasto con la requisitoria antiromana dell’Apocalisse giovannea). Consiglia di sottomettersi alle istituzioni politiche e civili, non solo per evitare le punizioni, ma perché questo è ciò che Dio vuole (e la propaganda religiosa pure, giacché mirata a persuadere i pagani per indurli alla conversione). Ne consegue che l’obbedienza all’autorità politica diventa dovere imposto da Dio. Se per la filosofia stoica, norma universale era la legge di natura, cioè la giusta ragione, che insegna agli uomini cosa fare e cosa evitare, per il cristianesimo legge di natura è la legge divina, data da Dio agli uomini e contenuta nelle Sacre Scritture. L’autore paragona il diavolo ad un leone ruggente che vagola in cerca di cristiani da divorare, sui quali, però, veglia Cristo, pastore supremo del gregge a lui fedele. Gesù, riferisce l’autore, scese nel regno dei morti (come novello Ercole) per portare l’annuncio della salvezza anche ai defunti dei tempi remoti. Risorto dalla morte, ascese verso il regno del Padre, dove ottenne la sovranità sulle potenze celesti (sembra che prima non l’avesse). La sofferenza di Cristo deve essere presa a modello dagli schiavi nei rapporti con i loro padroni (la ribellione di Spartaco, morto nel 71, non sarebbe un esempio da imitare), perché è titolo di benevolenza divina soffrire ingiustamente servendo perfidi padroni. La schiavitù è stata giustificata dai tre monoteismi quasi fino ai nostri tempi. Pio IX e il Santo Uffizio, nel 1866, la consideravano conforme alla legge naturale e divina. Quanto alle donne, queste (e gli uomini no?) devono ispirare la loro condotta al timore di Dio ed essere sottomesse ciascuna al suo marito, obbedendogli e chiamandolo signore (non era quello il tempo per sommovimenti femministi).

Le due lettere attribuite a Pietro pongono in rilievo il tema dell’escatologia, cioè del tempo ultimo in cui avverrà la distruzione del mondo con il fuoco, e quello della successiva palingenesi del cosmo. L’autore della prima epistola ritiene imminente la fine di tutto, mentre l’autore della seconda cerca di spiegare, contro le false dottrine degli eretici, il ritardo della parusia, cioè l’attesa della ricomparsa di Cristo nel mondo (che si sarebbe dovuta avverare durante quella generazione), giustificandolo come una prova di fede, che tutti i cristiani devono testimoniare per un periodo indeterminato. La parusia, pur essendo stata rinviata “sine die”, può essere affrettata mediante una condotta di santità e di pietà. La fede nel ritorno glorioso di Cristo alla fine dei tempi, secondo l’autore della lettera, non è una favola, né un artefatto mito pagano (come le mitiche storie di esseri divini, uccisi e poi risorti). L’autore della seconda lettera espone il testamento di Pietro, al quale Gesù ha rivelato l’ora della morte. Egli è stato (sul monte della Trasfigurazione) testimone oculare della divina maestà di Cristo e ha udito la voce di Dio che proclamava Gesù suo diletto Figlio. Polemizza contro la fraudolenta gnosi, predicata dai falsi profeti e dai falsi maestri, fomentatori di discordie, propagatori d’eresie, schernitori sarcastici della credenza nel ritorno glorioso di Cristo. La testimonianza sul Cristo Gesù, attestata dagli apostoli, ha reso più salda la parola dei profeti, che proviene da Dio. La Sacra Scrittura, per quanto genuina, giacché fondata su ispirazione divina, non è tuttavia d’immediata comprensione. Essa, avendo un significato esoterico, non è suscettibile d’interpretazione soggettiva né di arbitraria spiegazione (2 Pt 1, 20-21). Curiosamente, nella chiesa di Notre-Dame di Parigi, la Vergine seduta in trono è raffigurata con uno scettro nella mano sinistra e con due libri nella mano destra, uno dei quali chiuso (simbolo di conoscenza esoterica), l’atro aperto (simbolo di conoscenza essoterica, da tutti comprensibile). Persino le lettere scritte da Paolo, in cui parla della parusia, sono di difficile comprensione senza un’adeguata iniziazione al mistero di Cristo (2 Pt 3, 15-16). Del resto, lo stesso Gesù dei Vangeli (Lc 24, 25-27; 44-45) dovette aiutare i suoi discepoli a comprendere i profondi misteri della “buona novella”. La conoscenza che dio dona ai suoi eletti, poiché sorpassa i limiti dell’umana ragione, può essere compresa, mediante i lumi dello Spirito Santo, solamente dagli iniziati ai misteri divini. Questi sono i santi a cui è stato svelato il mistero di Dio, celato alle generazioni passate (Col 1, 26). L’autore dell’apocrifo gnostico “Apocalisse di Pietro” stigmatizza Paolo come “uomo della falsità” ed apostata della Legge. In verità, tra il primo degli apostoli e il tredicesimo apostolo non correva buon sangue. Gli Ebioniti, una setta di cristiani giudaizzanti, che seguivano il solo vangelo matteano, rifiutavano quello predicato da Paolo, che consideravano un apostata (cfr. Ireneo, “Contro gli eretici” 1, 26). Secondo Eusebio di Cesarea (Storia Eccl. III 27), le sette giudaico-cristiane, che seguivano il “Vangelo secondo gli Ebrei” (forse si tratta dell’originale Vangelo di Matteo scritto in aramaico), rifiutavano tutte le lettere dell’apostata Paolo.




LETTERE DI GIOVANNI



Delle tre lettere attribuite dalla tradizione all’apostolo Giovanni (databili tra gli anni 90-100), la prima (che esprime il pensiero d’alcuni discepoli di scuola giovannea, giacché l’autore s’identifica con un “noi”, un plurale che vuole presumere l’appartenenza a un’autorevole tradizione), destinata a una comunità pagana dell’Asia Minore, convertita al cristianesimo, espone un discorso teologico in cui si dibattono alcuni temi riguardanti la fede. Essa ha lo scopo d’istruire la comunità sulla conoscenza del mistero divino, mettendola in guardia dall’erronea cristologia di pseudo-profeti, avanguardia degli anticristi. Questo è il segno, secondo l’autore, che l’ultima ora è già venuta. Egli testimonia la voce udita da alcuni apostoli sul monte della trasfigurazione, dove Dio Padre proclama la divinità del Cristo Gesù. L’autore ammonisce a non affezionarsi alle cose terrene, perché chi ama queste, non ama Dio, l’amore del quale è eterno e non transeunte come quello del mondo (Dio, dunque, non gradisce che si ami il mondo e le cose del mondo). Il sacrificio di Cristo è servito (quindi, è stato necessario) per espiare i peccati di tutti gli uomini (ma solo di coloro che accettano di uscire dalle tenebre del mondo, secondo il Vangelo giovanneo; cfr. Gv 17, 9). Solo chi ha fede e crede in Gesù, Figlio di un Dio che nessuno ha mai visto, vince il mondo governato dal maligno. Di Gesù hanno dato testimonianza lo spirito del Padre, il sangue versato dal Figlio, la grazia profusa dallo Spirito Santo con l’acqua battesimale (che non è ancora la dottrina della Trinità, cioè dei tre modi di essere dell’unico Dio). Chi nega il Padre e il Figlio è l’anticristo (1 Gv 2, 22), il menzognero calunniatore (Ap 12, 10), che non crede alla verità, bensì all’iniquità (2 Ts 2, 3-12).

La seconda e la terza lettera giovannea sono scritti anonimi, in quanto l’autore si definisce solamente come presbitero. La seconda è destinata ad una comunità di fedeli (non specificata), che è messa in guardia dai seduttori gnostici, maestri d’errori e strumenti di Satana. Questi anticristi non ammettono l’incarnazione di Cristo, perciò non vanno ascoltati. La terza lettera ha come ricevente un certo Gaio, elogiato per la generosità con cui accoglie i missionari itineranti. Parole di rimprovero, invece, sono rivolte all’episcopo (vescovo) della comunità di cui fa parte Gaio, perché, oltre a non accogliere i suddetti missionari, ha espulso dalla comunità coloro che li accoglievano e li ospitavano.




LETTERA DI GIUDA


La lettera attribuita a Giuda, servo di Cristo Gesù e fratello di Giacomo, è d’incerta identificazione (forse fu redatta da un maestro giudeo-cristiano, discepolo dell’apostolo Giuda, tra gli anni 70-100). Essa è destinata a una comunità anonima allo scopo di difenderla dalla minaccia di falsi maestri: eretici che si sono infiltrati nella comunità, partecipando ai banchetti liturgici (agape). Costoro sono accusati d’empietà e d’immoralità, in quanto vivono nella dissolutezza, in preda al delirio di una dottrina che rinnega Cristo e fomenta discordie. L’arrivo di anticristi negli ultimi tempi (creduti imminenti) era stata già preannunciata dagli apostoli. L’asprezza polemica contro i maestri di errori si avvale anche di citazioni riprese dagli scritti apocrifi giudaici (Testamento dei Dodici Patriarchi, Assunzione di Mosè, libro di Enoch, ecc.). L’epistola si conclude con una lode a Dio, secondo uno schema dossologico, usuale nella liturgia, tipico delle benedizioni bibliche. Possiamo escludere che l’autore della lettera sia l’apostolo Giuda Iscariota, il traditore, o l’altro apostolo omonimo, figlio di Giacomo (Lc 6, 16; At 1, 13). Non è chiaro se la fratellanza sia da intendere in senso fisico o solo nella fede. Si dubita che possa essere identificato come fratello di Gesù e di Giacomo (Mc 6, 3, Mt 13, 55), dato che i fratelli di Gesù non credevano in lui (Gv 7, 5). Incerta è l’identificazione del nome Giacomo, poiché così sono chiamati sia due apostoli, di cui uno è il figlio di Zebedeo, l’altro è il figlio di Alfeo, sia quel Giacomo detto il Minore (Mc 15, 40), sia quell’altro Giacomo, responsabile della Chiesa di Gerusalemme, soprannominato il Giusto (At 12, 17; 15, 13).


 Lucio Apulo Daunio




LETTERA AGLI EBREI

             
          Agli Ebrei, convertiti al cristianesimo, è indirizzata l’ultima missiva di scuola paolina, assimilabile a un’omelia. Redatta (intorno agli anni 70) in conformità alle regole della retorica, secondo lo stile c.d. “rodiano” (una sintesi tra lo stile barocco degli oratori “asiani” e quello classico degli “atticisti”), è finalizzata alla persuasione. L’autore è sconosciuto. Forse, è un discepolo degli apostoli, di buona formazione culturale (ellenistica) e teologica. Egli consola la comunità che è stata oggetto di persecuzione, esortandola a perseverare nella fede. Annuncia il sacerdozio eterno di Cristo, secondo l’ordine non trasmissibile di Melchisedech (che non è stato costituito secondo la Legge ed è superiore al sacerdozio levitico). Gesù, infatti, ha sacrificato se stesso sull’altare del mondo per la salvezza dei credenti una volta per tutte, abolendo il rituale ebraico dell’offerta di vittime in espiazione dei peccati. Il suo efficace olocausto espiatorio (rispetto ai sacrifici della precedente tradizione) è irripetibile (dunque è incongruo ripeterlo simbolicamente nella celebrazione quotidiana della messa). L’antica alleanza, fondata sul rituale del culto e sulle norme di purità, è stata sostituita con la nuova alleanza, fondata sul sacrificio espiatorio di Cristo (e con il formalismo rituale liturgico cattolico). Il sangue di Cristo, sommo sacerdote che sacrifica se stesso, ha surrogato il sangue delle vittime dell’antico rituale (Lv 23, 27-32, Nm 29, 7-11). Il sacerdozio levitico e i relativi riti sono abrogati, perché inefficaci ai fini della salvezza (salvo i nuovi riti decretati dalla Chiesa trionfante). Tutto il precedente ordinamento (la legge mosaica e la sua morale), essendo pervenuto a perfezione con il messaggio salvifico di Cristo, giudicato superiore a Mosè (Eb 3, 3), è abrogato e sostituito dal Vangelo (di contrario avviso è l’evangelista Giovanni, cfr. 10,35, laddove rileva che la Scrittura non si può abolire). Cristo, neo-sacerdote, ha sacrificato se stesso in espiazione dei peccati degli uomini. Nel tempo antico, Dio progettò di vivere in mezzo al suo prescelto popolo (Lv 26, 12; Gr 30, 22), generato da Abramo e Sara (Gn 17), cui concesse di avere in tarda età il figlio Isacco (Ismaele, il figlio primogenito che il poligamo Abramo ebbe congiungendosi con la schiava di Sara, non fu meritevole agli occhi di Dio di appartenere al suo eletto popolo). Per istruire il suo amato popolo, Dio si servì dei profeti (Eb 1, 1 seg.). Ora, invece, parla a un nuovo popolo per mezzo del Figlio, che ha elevato sopra gli angeli e mandato in missione sulla terra. E’ un figlio obbediente, fedele, remissivo, disposto al sacrificio di se stesso per espiare i peccati degli uomini. Egli è divenuto perfetto attraverso la sofferenza (dunque non aveva tutti gli attributi divini), perciò ha la capacità di soccorrere quelli che soffrono. Il cristiano deve perseverare nella fede, che è sia garante dei beni celesti, che si sperano, sia certezza di realtà invisibili. Queste affermazioni, in verità, appaiono paradossali, poiché fondate sulla certezza di una credenza (pìstis) che è speranza di cose invisibili. Dante, infatti, nel “Paradiso” (XXIV, 64-65) definirà la fede “sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi”. L’autore esorta a non disertare le riunioni liturgiche, essendo imminente il giorno dell’ira del Dio vivente. Il cristiano inoltre, conclude l’autore dell’epistola, deve evitare di apostatare, perché non ci sarà più un altro Cristo, prono al sacrificio per espiare i peccati commessi dagli uomini contro la Maestà divina e ottenerne il perdono.

L’autore della lettera avverte: senza la fede non si è graditi a Dio. Solamente chi crede in lui sarà ricompensato (Eb 11,6). Chi poi sarà giudicato reo di aver calpestato Gesù, Figlio di Dio, e di aver oltraggiato lo Spirito della grazia, meriterà un castigo maggiore di quello che la legge mosaica riserva agli inadempienti, cioè la condanna a morte sulla base della testimonianza di due o tre persone (Eb 10,28; Dt 19, 15-20). Nel dettare la legge a Mosè, dunque, Dio si dimentica del quinto comandamento, che vieta di uccidere? Giammai! Il divieto di uccidere riguarda solamente innocenti e giusti (Es 23,7), non chi è giudicato colpevole (tesi confermata dal Catechismo della Chiesa cattolica al punto 2267). Nel concetto di colpevolezza Dio contempla ampie fattispecie; tuttavia, quanto ordina al suo amato popolo di sterminare i nemici d’Israele, include anche innocenti e giusti (Lv 27, 28 seg.; Nm 21, 2-3; Dt 7, 1-6.16; 20, 10-18; Gs 6, 17-21; 8, 22-24; 10, 28-42 e sim.; 1 Sm 15,2; 22,19). Per favorire l’esodo di Mosè dall’Egitto, castiga gli Egiziani e uccide persino i loro primogeniti (Es 12,12). Con il diluvio universale affoga tutta l’umanità, salvo alcuni suoi protetti (Gn 6,17). Queste e altre bibliche nefandezze testimoniano che Dio non è migliore dell’uomo.
       
                  
  Lucio Apulo Daunio
                  

mercoledì 9 novembre 2011


LETTERE PSEUDOEPIGRAFE PAOLINE



AGLI EFESINI


Questa, come la seconda Lettera ai Tessalonicesi, la Lettera ai Colossesi e le Lettere Pastorali, sono tutte da considerare pseudoepigrafe (cioè redatte da collaboratori o discepoli di Paolo e a lui attribuite per conferirne autorità), ancorché la tradizione le attribuisca interamente a Paolo. La lettera ecclesiologica “agli Efesini” (così denominata perché ritrovata nella Chiesa d’Efeso, in Asia Minore), scritta tra gli anni 60-62, durante la prigionia di Paolo a Roma, ha come destinatari i santi fedeli in Cristo, senza ulteriore specificazione. Efeso era un importante centro commerciale, avente un famoso tempio, dedicato alla dea Artemide, che era considerato una delle sette meraviglie del mondo. Fu distrutto e ricostruito più volte, fino alla definitiva distruzione nel 401 e.v. da parte dei cristiani, guidati da Giovanni Crisostomo. L’autore della Lettera agli Efesini si sofferma sul tema della via della salvezza, conseguibile con la fede nella grazia divina (predestinazione). Accogliendo il vangelo predicato da Paolo, il cristiano può concretare l’unione con Cristo, capo della Chiesa e padrone dell’universo. Nella concezione di Paolo, infatti, Gesù risorto domina dalla sommità dei cieli, assiso alla destra del Padre. Davanti a Cristo non vi sono distinzioni tra padroni e servi, ma ognuno riceverà la retribuzione (quando soggiornerà nel celeste impero di Dio) in funzione del bene o del male che avrà fatto in terra. Nella vita terrena, però, vale la sottomissione in tutto della donna all’uomo, dei figli ai genitori, degli schiavi ai padroni. Gli schiavi cristiani, in particolare, devono obbedire ai padroni con timore e rispetto, come lo stesso Gesù ubbidisce a Dio Padre (cfr. 6,1seg). La salvezza, per Paolo, consiste nel liberarsi dalle potenze malvagie, che dominano nei bassi e tenebrosi fondi del cosmo. Tale scopo si consegue spogliandosi dell’uomo vecchio (il modo di vivere pagano) e rivestendosi dell’uomo nuovo (cioè il vivere cristianamente). Il corpo della Chiesa è l’armatura protettiva di Dio, l’egida con cui difendere i fedeli, predestinati ad essere i suoi figli spirituali, dai dardi del maligno. L’autore rivolge una preghiera al Dio del Signore nostro Gesù Cristo (qui pare che l’autore dubiti della divinità di Gesù; cfr. Ef 1,17), affinché conceda alla comunità i doni della sapienza e della comprensione del mistero divino. Dio ha voluto estendere il suo progetto salvifico a tutti gli uomini, mediante il Cristo Gesù, di cui Paolo si dichiara suo prigioniero. I divini misteri, infatti, non furono svelati agli uomini nei tempi passati (qualcosa, però, Jahvè rivelò a patriarchi e profeti appartenenti al suo popolo eletto). Solamente con l’avvento di Cristo, lo Spirito di Dio ha comunicato l’arcano ai santi della Chiesa, tramite apostoli e profeti (ma ha anche illuminato visionari e sedicenti vicari del Cristo Re). Anche Paolo, il più piccolo di tutti i santi, ha ricevuto la rivelazione del mistero divino e la grazia di evangelizzare i pagani.



AI COLOSSESI


La missiva alla Chiesa di Colosse (città della Frigia, nell’Asia Minore, divenuta provincia romana), che si suppone scritta da Paolo durante gli anni della prigionia (58-62), mette in guardia la comunità da chi insegna una filosofia di salvezza (caratterizzata da un sincretismo religioso, ossia dalla fusione di diverse culture). Questa filosofia si discosta dall’insegnamento degli apostoli. Essa è fatuo inganno, che s’ispira alle tradizioni umane. E’ superstizione, che si contrappone all’autentica religione. E’ una filosofia che si pone in contrasto con il Vangelo di Cristo: la misteriosa parola di Dio finalmente rivelata e annunciata da Paolo alle genti in tutto il mondo. Solo l’insegnamento di Cristo, Dio visibile, giacché immagine nella carne dell’invisibile Dio, è vera sapienza. Il cristiano deve perciò vivere una nuova vita in Cristo, il Dio risorto, spogliandosi del suo uomo vecchio, intriso di vizi, sui quali piomba l’ira divina. Il redattore della lettera ritiene che i Colossesi, essendo ormai rivestiti dell’uomo nuovo, in virtù della fede nella potenza di Cristo, siano diventati gli eletti, i santi amati da Dio, che attendono l’imminente parusia (il ritorno di Cristo) per essere anche loro rivestiti di gloria (la discesa dal cielo di Gesù, a cavalcioni delle nubi, si attende ancora; cfr. Mt 24,14.30; 26,64; 16,27). Essi, perciò, devono rifuggire i vizi indotti dalla debolezza della “carne” e continuare a praticare le virtù cristiane (che erano anche quelle della cultura pagana, anche se priva della pretesa grazia divina). Riguardo ai rapporti interpersonali, l’autore comanda alle donne di sottostare all’autorità dei mariti; ai figli, di obbedire all’autorità dei genitori; agli schiavi, di obbedire ai loro padroni, che devono servire con docilità e nel timore del Signore (cfr. Col 3,22 seg.). Gli schiavi, in concreto, restando umilmente asserviti ai padroni della terra (Dio lo vuole!), onorano il Signore. L’autore della lettera identifica Cristo con la creazione (una sorta di panteismo?). In lui - afferma - sono racchiusi tutti i tesori della sapienza e della conoscenza (contrariamente in Mt 24, 36 e in Mc 13, 32, dove la conoscenza di Gesù appare lacunosa).










LETTERE PASTORALI



A TIMOTEO


Fanno parte della raccolta epistolare paolina tre lettere pastorali, così denominate perché dirette a dei capi di comunità (due indirizzate a Timoteo, una a Tito), che la tradizione attribuisce a Paolo (ma che la critica testuale le ritiene di scuola paolina e databili verso la fine del I sec.). Paolo, apostolo di Cristo per comando di Dio, invia dalla Macedonia al discepolo prediletto Timoteo, una lettera con cui lo esorta a vigilare sull’ortodossia della fede, a guardarsi dai falsi dottori e dalle loro fantasiose speculazioni, ad attingere sapienza dalla lettura delle Sacre Scritture, che tutte e in tutto sono ispirate da Dio (su questa credenza si fonda l’interpretazione mistico-spirituale della Bibbia). La legge mosaica, su cui insistono quei falsi dottori – dice l’autore - non è stata istituita per i giusti, ma per combattere il male delle persone inique. Con la venuta di Cristo, unico mediatore fra Dio e gli uomini, vige una nuova legge: quella che lui ha annunciato tramite il vangelo. Paolo raccomanda a Timoteo di pregare per i re e per tutti quelli che sono in autorità, dimostrando così ai pagani che i cristiani sono una comunità religiosa, non politica. Come responsabile della Chiesa di Efeso, Timoteo riceve anche disposizioni riguardo all’atteggiamento che devono assumere i fedeli durante le assemblee liturgiche, come devono pregare gli uomini e come devono vestire le donne. A queste, inoltre, non è concesso insegnare (contrariamente, in 1 Co 11, 5, dove si consente loro di predicare o profetizzare nelle assemblee; invece, contraddittoriamente, in 1 Co 14, 34-35, s’impone loro di tacere), bensì imparare in silenzio e in perfetta sottomissione. Le donne, insomma, non devono né insegnare né dominare l’uomo, ma… zittire e ascoltare. La sudditanza della donna è giustificata con due argomentazioni. L’una è fondata sul mitico racconto della creazione, descritto nel libro “Genesi”. Adamo - si racconta - fu creato per primo, a somiglianza di Dio; Eva, invece, fu formata prelevando una costola da Adamo. L’altra argomentazione è riferita alla (falsa) convinzione della fragilità morale della donna: non Adamo, bensì Eva, insidiata dal demonio, cadde nel peccato, trascinando anche (l’ingenuo) Adamo. Autentica missione della donna è la maternità, e questa quanto più è feconda tanto più è benedetta (secondo la visuale biblica). Anche il dio islamico, al pari di quello biblico, antepone nel Corano l’uomo alla donna a causa della preferenza che concede al primo (sura IV, 34). In materia ereditaria, Allah ordina che al maschio spetti la parte di due femmine (sura IV, 11). Paolo (o l’anonimo autore dell’epistola) sottolinea le qualità (irreprensibilità morale; divieto della poligamia) che occorrono per esercitare degnamente i ministeri di vescovo (episcopo), di diacono e di diaconessa. Suggerisce le norme sul modo di comportarsi con le vedove e con i presbiteri. Raccomanda il buon uso delle ricchezze a favore del prossimo, al fine di costituirsi un capitale nel mitico paradisiaco aldilà. I ricchi, infatti, devono la loro ricchezza alla benevolenza di Dio (!). L’autore invita gli schiavi a contentarsi del giogo servile (anziché protestare per la loro condizione di sfruttamento, perché la liberazione dalle ingiustizie e dall’oppressione non fa parte del programma evangelico da attuare in questo mondo, avendolo demandato post mortem nell’altro mondo). La lettera termina con l'esortazione a Timoteo di schivare le false dottrine gnostiche (consistenti nella fusione di quelle ellenistiche e di quelle giudaiche).

La seconda lettera a Timoteo è l’ultima scritta da Roma prima di subire il martirio (avvenuto nel 67 d.C., secondo una tradizione). Paolo, da buon soldato di Gesù, il dio risorto dalla morte, deve tutto soffrire per lui e immolarsi per la redenzione del prossimo (e per ottenere la sua ricompensa nell’aldilà). Proprio a causa della verità del vangelo da lui predicato, egli subisce le sofferenze e porta le catene come un malfattore. Il suo fanatismo religioso lo porta a glorificare se stesso, perseguitato per la fede in Cristo, datore di verità, non di favole. Mette in guardia Timoteo dai falsi maestri, attivi negli ultimi giorni, essendo già cominciata l’era escatologica, evocante l’imminenza della parusia, il glorioso trionfo del ritorno di Gesù nel mondo come giustiziere. Lo esorta a guardarsi da un certo Alessandro, il ramaio, che gli ha procurato molti guai, contrastando la sua predicazione del vangelo. Egli invoca contro di lui la giustizia (vendetta) divina. Si lamenta di sentirsi abbandonato dagli altri confratelli e discepoli (ricorda che nessuno lo sostenne durante la sua difesa in tribunale). Non dà notizie di un’eventuale presenza di Pietro a Roma. Verosimilmente, questi si trovava in quel torno di tempo a Babilonia, come indica chiaramente la lettera attribuita a Pietro (1Pt 5, 13). L’ipotesi che Babilonia sia un nome simbolico, riferibile alla città di Roma, è un’interpretazione sostenuta dalla Chiesa al fine di avvalorare la successione pietrina dei papi e la supremazia della cattedra romana. Gli Atti degli apostoli (scritti intorno agli anni 80) e gli altri testi canonici nulla dicono sulla morte di Pietro e su quella di Paolo. Secondo una tradizione, Pietro avrebbe subito il martirio nel 64 durante la persecuzione di Nerone. Leggendaria è la descrizione della morte di Paolo, riportata nell’apocrifo “Atti di Paolo”, databile alla fine del II secolo (sarebbe stato decapitato presso la località “Aquae Salviae” della capitale, forse nel 67, per ordine di Nerone).





A TITO


A Tito, il discepolo di Paolo preposto alla comunità dell’isola di Creta, è indirizzata l’epistola con la quale si danno disposizioni sull’organizzazione interna della Chiesa locale, sugli obblighi che i fedeli devono osservare, sulle qualità morali che devono avere i ministri della fede. L’autore esorta Tito a guardarsi dagli eretici, uomini perversi da evitare (la scomunica paolina contro gli eretici, in tempi successivi, si aggraverà con le pene comminate dal braccio secolare a conclusione dell’iniquo processo inquisitorio), e dai falsi dottori provenienti dal mondo giudaico, che sono insubordinati, parolai, ingannatori e narratori di fole. Per stigmatizzare le fandonie di costoro, l’autore della missiva riporta nella sua dura invettiva il detto di un poeta cretese secondo cui i Cretesi sono sempre bugiardi (incappando involontariamente nel paradosso del mentitore). Rammenta altresì a Tito di sorvegliare sia i comportamenti dei cristiani nel loro insieme, riguardo ai doveri che devono adempiere verso le autorità costituite, sia i contegni di ciascuna categoria di persona nei confronti dei loro fratelli, che devono essere improntati ai dettami del Vangelo. Gli suggerisce le virtù e le qualità morali che le matriarche devono utilizzare per indottrinare le giovinette ai doveri coniugali: essere caste, sottomettendosi ai propri mariti (non più valeva il costume pagano di delegare alla Venere Verticordia il compito di volgere il cuore delle ragazze alla costumatezza). Quanto agli schiavi, questi devono restare asserviti in ogni cosa ai loro padroni, persino compiacerli, mai contraddirli o derubarli (giacché l’ora della parusia e della fine dei tempi era ormai vicina). I liberi cittadini, invece, devono restare sottomessi ai magistrati e alle autorità. Tutti devono, durante l’attesa (vana speranza!) del ritorno glorioso di Cristo (di cui l’autore esalta la natura divina), evitare i litigi, le ribellioni e le mondane passioni per non incorrere nell’empietà e nel castigo divino.

La teologia paolina non ha carattere politico, volto alla liberazione dalle ingiustizie e dall’oppressione. L’ideale dell’eguaglianza è una conquista di là da venire. Il Cristo del vangelo di Paolo è spoliticizzato: parla di redenzione e salvezza nell’altro mondo. Per giunta, chi non si converte alla fede paolina è tacciato come persona abominevole agli occhi di Dio (e anche a quelli dei cristiani).


Lucio Apulo Daunio