PAOLO
INVENTORE
DEL CRISTIANESIMO
Paolo,
l’inventore del cristianesimo, fulminato dalla fede in Cristo sulla via per
Damasco, apostatizzò dal giudaismo, sottraendosi al dominio della Legge
mosaica. La Legge, infatti, a suo dire, non giustificava l’uomo, perché, se
l’avesse giustificato, Cristo sarebbe morto invano (Ga 2, 18-21). Paolo, pur
avendo abbandonato il giudaismo per aderire a Cristo, non mancò di ritornare al
giudaismo, nonostante i suoi ammonimenti (Ga 5, 1), sottomettendosi al giogo
della schiavitù, indotta dall’osservanza scrupolosa della Legge. Che era
impossibile, anche per un giudeo rigoroso, osservare le innumerevoli prescrizioni
della Legge, se ne rese conto lo steso apostolo Pietro. Egli, infatti,
considerò l’inopportunità d’imporre ai pagani convertiti l’osservanza della
Legge, ritenendola un giogo duro da sopportare persino dai Giudei (At 15,
10-11). Soave e leggero, invece, era il giogo del vangelo di Cristo (Mt 11,
28-30). Della mitezza e umiltà di cuore proclamate dal vangelo, l’irruente
Paolo (ma anche il burbero Pietro) non sempre ne fece tesoro (Ga 5, 12). Del
resto, anche l’apocalittico Gesù minacciò e imprecò a destra e a manca.
La Legge -
dice Paolo - ha avuto una funzione provvisoria durante il tempo d’attesa del
Messia, il Cristo Gesù, il Salvatore. Ora, dopo la comparsa di Gesù, essa non è
più utile per la salvezza (Rm 10, 4; Ga 3, 19 seg.). In verità, essa
fu scritta con il pugno di Jahvè e da lui ordinata a perenne vigenza (Es 12,
14-20). Se, dunque, come sostiene Paolo, solo per mezzo di Cristo l’umanità può
trovare la salvezza, non essendo più sufficiente essere un buon giudeo,
osservante della Legge, perché Dio ha tardato nell’inviarci la panacea della
grazia tramite il Figlio? L’illuminato Paolo, il sognatore di Dio, nel suo
vaniloquio ai Galati (Ga 4, 1 seg.), afferma che la Legge ha tutelato
l’immaturità del popolo giudaico, fino a quando l’insindacabile giudizio di Dio
lo ha riconosciuto (bontà sua) maturo. Il ritardo di Dio nel concedere la
salvezza all’umanità, Paolo lo giustifica addossando la colpa all’immaturità
degli ebrei. Se la speranza (spes ultima dea) di poter vivere dopo la
morte nell’estasi eterna della visione di Dio, se questa speranza cristiana
diverrà certezza, la vita ultraterrena appare all’umana ragione insopportabile
e noiosa. Se, invece, tale speranza è l’illusione d’orditi inganni clericali,
dopo la morte tutto finirà (mors ultima ratio). Un eterno sonno, privo
di sogni, ci sommergerà nel Lete, il fiume dell’oblio. Dio lo voglia!
Ai Galati
(Ga 3, 26-28), Paolo dichiara che dopo il battesimo, patrimonio di tutti i
credenti (contrariamente alla circoncisione, eredità esclusiva dei maschi
giudei), non esistono più differenze per i seguaci di Cristo: né di popolo né
di condizione sociale né di genere. Un principio, questo, non ancora del tutto
realizzato né dai cristiani né dalla Chiesa, che è divenuta potenza temporale,
istituzionalizzata e legittimata a spacciare per verità il mito cristiano. Ai
tempi di Cristo la donna aveva certamente più dignità di quanto non ebbe
qualche secolo dopo. Poteva essere dotata di particolari carismi (doni
spirituali, cfr. 1 Co 12, 1 seg.; 14, 26; Rm 12, 6-8; Ef 4, 11), avere
incombenze religiose ed essere altresì annoverata tra gli apostoli, cioè tra i
discepoli impegnati nell’evangelizzazione (Rm 16, 1-24; Fl 4, 2-3). Gesù, del
resto, si mescolava con le donne, rispettabili e non, meravigliando persino i discepoli
(Gv 4, 27). Le donne facevano parte del suo seguito e lo servivano (finanziando
la sua missione). Ai Corinzi (1 Co 11, 3 seg.), invece, Paolo predica la
disuguaglianza gerarchica tra Dio e Cristo, tra Cristo e uomo, tra uomo e donna
(Eva è una propaggine d'Adamo). Nella scala gerarchica, Paolo colloca Dio come
superiorità assoluta, cui subordina prima Cristo, poi l'uomo e infine la donna
(meno perfetta rispetto all’uomo). Il luminare Agostino puntualizzerà che la
donna non è stata creata come l’uomo a immagine e somiglianza di Dio. Paolo,
pur divenendo un seguace di Cristo, restava pur sempre culturalmente un giudeo.
Il giudaismo, infatti, proibiva alla donna, ritenendola impura, di occuparsi di
cose sacre. La puerpera era soggetta alle norme di purificazione (Lv 12, 1-8).
Nelle sinagoghe la donna non aveva il diritto di parlare e quando si presentava
in pubblico doveva avere il capo coperto. Paolo, attenendosi ai costumi
giudaici, per le donne dispose che nelle assemblee liturgiche avessero il capo coperto
con un velo per riguardo agli uomini (non a Dio). Se non volevano indossare il
cristiano “chador”, dovevano tagliarsi i capelli (similmente ai fanatici
seguaci di culti orientali); se si vergognavano di farsi vedere con la testa
rasata, dovevano coprirsi il capo. L’uomo, invece, aveva il dovere di scoprirsi
il capo, essendo immagine e gloria di Dio, diversamente dalla donna, che fu
creata per la gloria dell’uomo da una sua costola. Per questo la donna doveva
portare un segno (marchio) di dipendenza (d’inferiorità) sul capo, anche per
rispetto verso gli angeli (mah! Non si sa mai. Potrebbero nuovamente
incaponirsi della bellezza delle donne, osservandole con le fluenti chiome
scoperte). Non si comprende la ragione per cui queste supposte entità asessuate
dovrebbero trovare sconveniente la testa chiomata delle donne, e non anche la
folta capigliatura degli uomini. In verità, i “gentili”, uditori delle prediche
paoline, non avevano l’abitudine giudaica di coprirsi il capo con un mantello
durante la preghiera. Varie furono le giustificazioni (pregiudizi) addotte
dalla Chiesa cattolica per negare il sacerdozio femminile. La donna,
considerata biologicamente inferiore all’uomo, creato ad immagine di Dio, è
vissuta per molti secoli nei paesi cristianizzati in stato di sudditanza del
maschio, nel quale si presumeva che predominasse la ragione. Paolo proibì alle
donne, durante il raduno agapico della comunità, di prendere la parola, salvo
che non fosse dotata di carismi. In tal caso poteva predicare e profetizzare su
ispirazione divina, osservando comportamenti decorosi. Se non aveva
ispirazione, doveva tacere (1 Co 14, 34-40). Parlare nelle sante assemblee
degli uomini era disdicevole per lei. Se voleva apprendere, poteva interrogare
in casa il marito, cui era assoggettata, essendo l’uomo capo della donna (Ef 5,
21 seg.; Col 3, 18). La Bibbia, infatti, impone alla donna di sottomettersi
all’uomo (Gn 3, 16). Ad avviare le giovani ai loro doveri familiari e
domestici, a essere persone sagge, prudenti, buone, caste e docilmente
sottomesse ai propri mariti, erano deputate le sante matriarche (Tt 2, 1 seg.).
Quanto all’abbigliamento, Paolo (1 Tm 2, 9-15) raccomandava la decenza,
proibendo loro di apparire imbellettate, con vesti sontuose e ornamenti
preziosi. Ciò che si addiceva alle pie donne era l’ornamento interiore,
soprattutto la taciturnità. Paolo non permetteva loro d’insegnare, ma solo
d’imparare in silenzio, con perfetta sottomissione all’uomo. Questa sudditanza
della donna la giustificava ricorrendo ai primordi della creazione, al mito
della nascita primigenia d’Adamo e di quella successiva di Eva da una costola
dell’uomo (Gn 2,7. 18. 22). In verità, anche la Bibbia è incerta a chi dei due
spetta il primato della nascita. Se Adamo riceve l'aureola da Jahvè, gli Elohim
(il Dio concepito dagli ebrei come un insieme di manifestazioni di potenza) la
consegnano prima agli animali e poi all’umanità, senza distinzione di sesso (Gn
1, 20-31). Paolo, che si atteggia a maschilista, affetto dalla psicosi del
peccato, addebita il primato della colpa originaria a Eva (mito di Pandora),
pur di giustificare l’inferiore natura femminile. Il mito del peccato
originale, commesso da supposti primi avi in violazione di tabù divini, da cui
consegue la colpa da espiare di tutta la loro discendenza, è una pretestuosa
corbelleria biblica (Rm 5, 12). I dotti teologi della Chiesa trionfante
affibbiarono alla donna il marchio di tentatrice, sostenendo che doveva
vergognarsi persino del fatto di essere, in quanto donna, discendente di Eva. La
misoginia chiesastica, avvalendosi dei pregiudizi dell’antichità pagana,
considerò la donna poco intelligente e inferiore all’uomo, quindi indegna al
conferimento del sacramento dell’ordine (sacerdozio). Agostino, santificato e
addottorato dalla Chiesa, le voleva ignoranti e segregate tra le pareti
domestiche al fine di evitare che la loro peccaminosa bellezza tentasse la
purezza dei santi cristiani. Lui le conosceva bene, avendo amoreggiato a lungo
con loro. Maometto, addirittura, paragonerà la donna a un campo da arare tutte
le volte che l’uomo la desidera. La donna, secondo Maometto, deve essere sempre
disponibile a soddisfare l’uomo (al pari di una prostituta). La missione, che
Paolo assegna alla donna, strumento dell’uomo, è la generazione di figli, per
mezzo della quale anche lei potrà salvarsi, perseguendo le prescritte virtù
cristiane. Sulla medesima linea di Paolo si schierò l’apostolo Pietro, che
assegnò alla donna il compito di conquistare il marito alla fede in Cristo,
osservando un modello di vita esemplare, consono al vangelo di Cristo (1Pt 3, 1
seg.). Il cattolicesimo, nella sua bi-millenaria storia, ha negato pari
opportunità alle donne e ha mostrato di non essere immune da comportamenti
discriminatori verso persone differentemente credenti.
La nuova
legge, decretata da Gesù, libera dal peccato e dalla morte chi con fede la
osservi (Rm 8, 2 seg.). Vivere secondo la carne, conduce l’uomo al peccato ed
alla morte; vivere secondo la legge dello Spirito, soffocando le debolezze
della carne, conduce l’uomo a Dio. Delle cose dello Spirito non si occupa la
legge giudaica (Ga 5, 16-26). Essa, secondo Paolo, non si occupa di gioia,
pace, amore, bontà, benevolenza, mitezza, fiducia, grandezza d’animo e
padronanza di sé. Perché dunque Jahvè non ha infuso tale ricchezza morale
nell’animo del suo prediletto popolo? Mistero! Che poi l’uomo, in forza dello
Spirito, possa liberarsi totalmente dagli istinti della sua natura e non
sottostare alle bramosie della carne (fornicazioni, impurità, dissolutezze,
idolatrie, magie, litigi, gelosie, ambizioni, invidie, orge e altre consimili
umane debolezze), appare del tutto inattendibile. “Sursum corda”,
cristiani! Voi credenti, che patite immani sofferenze a imitazione di Cristo,
sarete degni di vita eterna nell’agognato regno dei cieli! Gli altri,
diversamente credenti, colpiti dagli inevitabili mali del loro essere nel
mondo, sperano nell’eterno riposo nel regno dell’oscura morte, ma non perché
colpevoli di essersi abbandonati agli istinti perversi, bensì per aver terminato
con dignità un’esperienza singolare di vita, non asservita al credo di un
misterioso dio e ai diktat della sua Chiesa. L’unico conforto
per i non cristiani è la speranza di aver arricchito l’umanità con valori
ispirati a ideali umani, convinti della razionalità propria dell’uomo di
decidere insieme le norme di vita con i propri simili. Se credere in Cristo è
un dono che l’uomo riceve da Dio (Gv 6, 44. 65), allora occorre fortuna, come
vincere un terno al lotto. Chi non è predestinato, non potrà essere
giustificato e glorificato. Gli eletti, pieni di grazie, di cui “ab aeterno”
è stabilito il destino, che meriti hanno per godersi il regno delle voluttà
paradisiache? Pur ammettendo che l’uomo sia libero di scegliere, senza subire
condizionamenti, non è assurdo credere in “verità” impossibili da verificare?
Ignorare il veto della ragione per abbracciare l’irrazionalità di una fede, è
un’offesa alla nostra intelligenza. Se esiste nell’aldilà Lucifero, il ribelle
di Dio, abbia almeno lui pietà per tutti i disgraziati morituri, indegni del
dono divino! Iniqua appare la somma giustizia (summum ius, summa iniura)
del giusto immisericordioso dio cristiano (Rm 8, 28-30), nei confronti di chi,
pur non incappando nell’accusa di “asèbeia” (disprezzo degli dei), è colpevole
non d’ostilità verso Dio, bensì di “atheos” (negazione degli dei), per
sfiducia in ogni fede religiosa trascendente, perciò non probante.
L’amato
fratello Paolo, che non era immune da intemperanze e opportunismi, neanche
l’apostolo Pietro lo capiva, quando il suo modo d'esprimersi era poco chiaro o
incomprensibile (2 Pt 3, 15-16). Beati siano gli illuminati interpreti dei
divini misteri! Paolo, ebbro di Cristo, ebreo di stirpe della tribù di
Beniamino, circonciso, fariseo quanto alla Legge, zelante persecutore della
setta cristiana, irreprensibile quanto a giustizia legale, esempio raro di
fenomeno umano, rinuncia al suo brillante stato e ai conseguenti vantaggi per
seguire gli invisi accattoni della combriccola nazarena: le vie della fede sono
inspiegabilmente misteriose! Che cosa sarà veramente accaduto a
Paolo per compiere questa svolta della sua vita? Che sia stato convertito dalla
visione del risorto Gesù, secondo il racconto delle Sacre Scritture, non pare
verosimile. Com'è noto, i guai della pentola li conosce il coperchio. Fatto sta
che l’apostata Paolo si mise ad abbaiare contro i suoi ex confratelli ebrei,
vituperandoli come cani, cattivi operai, falsi circoncisi. Veri circoncisi, non
nella carne, ma secondo lo spirito, erano solamente i rampolli cristiani (Fl 3,
1 seg.). Paolo, ricolmo di zelo per Dio, si vantò di essere un giudeo, istruito
ai piedi di Gamaliele nella rigorosa osservanza della Legge. Egli, prima di
convertirsi a Cristo, perseguitò a morte i cristiani (At 22, 3-4); ma, dopo la
conversione, predicò l’inutilità salvifica della circoncisione, simbolo perenne
dell’alleanza e servitù a Dio (Ga 5, 1 seg.). Non solo era inutile, ma anche
pericolosa, perché i fresconi che non volevano rinunciare a farsi circoncidere
il prepuzio erano poi obbligati a mettere in pratica la totale osservanza della
Legge (Ga 5, 2-4; Rm 2, 25). Ottemperando a essa, secondo Paolo, non solo
rischiavano le maledizioni del burbero Jahvè, ma altresì perdevano la
protezione del suo magnanimo Figlio. Paolo malignava contro certi ostinati
ebrei, che volevano offrire il loro prepuzio a Dio, provocando scompiglio nella
comunità cristiana. Costoro, a suo giudizio, potevano anche farsi mutilare
interamente il membro! Che in lui vivesse lo spirito di Cristo (Ga 2, 20), non
si dubita, dato che neanche il Messia, Dio professo, era immune da intemperanze
verbali. Che poi Paolo portasse nel suo corpo i contrassegni di Cristo (Ga 6,
17), è senz’altro vero, dato che le buscò più volte a causa del suo
intemperante caratterino e dell’intransigenza del suo attivismo fideistico. Non
sempre esemplari furono i comportamenti di Paolo, e non solo con riferimento
alla questione della circoncisione. Egli, infatti, si adattava alle circostanze
che di volta in volta si presentavano. Quando aveva paura, mutava opinione,
come l’astuto polipo muta il colore. Circoncise Timoteo per timore dei giudei
(At 16, 1-3), rendendosi così colpevole di trasgressione (Ga 2, 18). Rinnegò
pubblicamente la fede in Cristo per giudaizzare con i giudei in osservanza
della legge del nazireato (At 21, 15-26). La sua presenza nel Tempio
fu causa di una sommossa, e poco mancò che lo linciassero. Fu salvato e tratto
in arresto dal tribuno della coorte romana (At 21, 27 seg.). Accusato di aver
profanato il Tempio e di predicare contro la Legge, dichiarò “coram populo”
d'essere giudeo di stretta osservanza. Tuttavia, ammise di aver apostatato
dalla fede ebraica a causa della fulminante visione del Nazareno, che lo rapì
in estasi e lo convinse a farsi apostolo delle genti (At 22, 1 seg.). Il
discorso tenuto in sua difesa (At 23, 1 seg.) non convinse gli accusatori
giudei, che andarono in bestia, mentre farneticava di visioni e rapimenti. La
sua arringa fu interrotta bruscamente dalle grida del popolo (vox populi,
vox Dei), che lo voleva morto. Ormai alle strette, Paolo decise di salvare
la pelle con un’astuzia. Chiese protezione alle autorità romane, che
presenziavano nel Tempio, dichiarando d’essere cittadino romano (civis
romanus sum). In quel frangente ritenne opportuno romanizzare con i Romani.
Il giorno seguente, condotto per ordine del tribuno al giudizio del Sinedrio
(in cui la maggioranza dei membri erano farisei e sadducei) per l’accertamento
delle accuse addebitategli, Paolo, nato cittadino romano, ma di stirpe
giudaica, che aveva doppie e triple verità secondo le circostanze, adeguandosi
più a Proteo che a Cristo, si dichiarò fariseo puro sangue al fine di attirare
su di sé la loro benevolenza (captatio benevolentiae). Poi, allo scopo
di aizzare i farisei contro i sadducei (l’aristocrazia giudaica rigidamente
conservatrice, che negava la resurrezione dei morti e l’esistenza di angeli e
spiriti), aggiunse che l’accusa contro di lui concerneva la sua speranza nella
resurrezione di Cristo (la necessità aguzza l’ingegno). Il Sinedrio si divise
per una disputa pro o contro la resurrezione dei corpi. La disputa si tramutò
in baruffa, che tosto degenerò in tafferugli e ci fu tumulto. Il tribuno,
temendo un probabile linciaggio del prigioniero, cittadino romano, per evitare
grane, decise di sottrarlo al pandemonio che si era scatenato tra i giudei,
riconducendolo in caserma sotto folta scorta di militi. Eppure, in favore dei
suoi meritevoli e gloriosi fratelli giudei, Paolo era disposto a votarsi alla
maledizione divina e persino ad essere separato da Cristo (Rm 9, 3 seg.). Mah!
Lucio Apulo Daunio