giovedì 31 marzo 2011


NOTE SULLA SEZIONE AUREA



La struttura proporzionale nella Ecloga VIII delle Bucoliche di Virgilio consisterebbe nella ripartizione delle strofe in versi drammatici e versi narrativi secondo un rapporto aureo. In termini geometrici, si ha proporzione aurea tra due entità A e B quando la parte maggiore A è media proporzionale tra la parte minore B e la somma delle due entità A+B.

In formula
(A+B) : A = A : B.

Se poniamo   A+B = 1;    
                      B = (1-A);   
 abbiamo      1 : A = A : (1-A);   
cioè             (A x A) = 1 x (1-A).

Dalla sopra indicata eguaglianza si ricava l’equazione di secondo grado della sezione aurea  
(A x A) + A – 1 = 0.

Dalla risoluzione dell’equazione si ottiene il valore positivo del rapporto aureo pari a 0,618, che rappresenta il numero irrazionale di misura dell’entità maggiore A di due grandezze A + B, la cui somma è pari a 1. La misura dell’altra entità minore B è pari a 1-A, cioè 0,382.

In altri termini, tra due entità si ha proporzione aurea quando la maggiore è pari al 61,8% e la minore è pari al 38,2%.

Le 109 strofe dell’ecloga in questione sono ripartite secondo un rapporto che si approssima a quello aureo.  Infatti, la quantità maggiore di strofe dei versi drammatici 72 è media proporzionale tra la parte minore, cioè le 36 strofe dei versi narrativi, e il totale delle strofe 108. In formula si ha

108 : 72 = 72 : 36;

108 : 72 = 1,5; mentre 72 : 36 = 2; essendo  1,5 < 2  non si ha uguaglianza perfetta. Inoltre entrambi i quozienti 1,5 e 2 si discostano dal valore aureo 1,618.

Per ottenere esattamente i valori della proporzione aurea, l’entità maggiore deve essere pari al 61,8% di 108, cioè circa 66,74 (anziché 72), mentre l’entità minore deve essere pari al 38,2% di 108, cioè circa 41,26 (anziché 36).

Infatti      66,74 : 108 = 0,618;     41,26 : 108 = 0,382;

mentre    72 : 108 = 0,667;           36 : 108 = 0,333.

Si ha uguaglianza perfetta nella proporzione

108 : 66,74 = 66,74 : 41,26;

i due quozienti, infatti, sono pari al rapporto aureo 1,618.

 In altri termini      1: 0,618 = 1,618;        0,618 : 0,382 = 1,618.

In conclusione, l’Ecloga VIII delle Bucoliche di Virgilio per il suo ritmo, per la sua melodia e per la sua musica si avvicina per approssimazione al rapporto aureo.

L’Ars Poetica (o Epistula ad Pisones) di Orazio, invece, è strutturata secondo il rapporto aureo. Ci sono 476 esametri, di cui 294 dedicati alla poesia e 182 al poeta. In formula si ha
476 : 294 = 294 : 182.

I quozienti dei due rapporti sono pari a 1,619 e 1,615, cioè quasi uguali al rapporto aureo 1,618.
            


             Lucio Apulo Daunio

martedì 29 marzo 2011


COSA E’ L’ISLAM

"Rari e felici i tempi in cui è permesso di pensare ciò che si vuole, e di dire ciò che si pensa" (Tacito, Historiae, I,1)

LA CRITICA NON CONOSCE TESTI INFALLIBILI (Ernest Renan)


Il Corano è il Libro in cui non ci sono dubbi! (sura 2,2)

Non abbiamo dimenticato nulla nel Libro! (sura 6.38)

Credere è obbedire ad Allah e al suo profeta Maometto.


L’islam è una concezione ideologica di vita, un sistema culturale in cui aspetti religiosi sono strettamente legati ad aspetti comportamentali obbligatori. Nell’islam non c’è distinzione tra vita spirituale e vita materiale, tra peccato e reato, e dunque, tra religione e Stato, e tra religione e politica.

         Tutto è religione nell’islam, fondamento del quale è il Corano, Libro dei segni divini, diretta parola imperscrutabile di Dio (Allah) rivelata a Maometto, che parla in nome di Allah e ne annuncia la volontà. Il Corano è la principale fonte giuridica della legge islamica. Gli elementi della fede sono spiegati in dettaglio dai teologi musulmani in vari libri e commentari. Nell’islam, la scienza giuridica è subordinata alla religione, giacché fonte del diritto è Allah, che ha espresso direttamente la sua volontà a Maometto mediante il Corano. Questo Libro sacralizzato rappresenta la norma di vita per i credenti musulmani. Alle prescrizioni del Corano i seguaci del Profeta hanno accluso i suoi insegnamenti (hadith), che costituiscono la tradizione (sunna). Fanno parte della tradizione anche le biografie del Profeta (sirat) e i commenti dei teologi (tafsir). La disobbedienza alla legge islamica è considerata una grave forma di perversione. Il disconoscimento della rivelazione e dei dogmi essenziali della fede sono indici di ignoranza. L’allontanamento dal giusto cammino decretato da Allah è colpevolizzato come devianza. Questi tre peccati (reati) pongono di fatto il musulmano fuori dalla comunità islamica (umma) e tra i miscredenti.

Di qui la problematicità per l’islam, che ha una concezione onnicomprensiva della realtà (subordinata alla volontà divina), di transitare verso istituzioni di tipo democratico (poiché la democrazia pone la fede nello Stato al posto della fede in Dio e, inoltre, mette l’individuo, non Dio, al centro del sistema giuridico). Totalmente inconcepibile per i musulmani è il secolarismo (concezione laica dello stato, che distingue e separa il temporale dallo spirituale, lo stato dalla religione). Ne consegue che i musulmani credenti, che vivono negli stati non islamici, avvertono una continua minaccia alla loro identità religiosa e culturale, giacché per la loro fede è inammissibile un diritto positivo separato dalla legge di Dio. Ciò implica che i musulmani radicalizzati, che migrano nei paesi occidentali, ancorché osservino apparentemente le leggi in vigore nello stato che li accoglie (che sono pur sempre leggi umane, non divine), dissimulano l’integrazione, continuando a restare spiritualmente legati all’islam e, nel loro intimo, tendenzialmente avversi agli infedeli. Il credente musulmano, infatti, può manifestare integralmente la sua fede solo in una comunità islamica, dove vige la norma originaria divina, sulla quale è strutturato l’ordine sociale e politico della migliore comunità (umma), che - recita il Corano (sura 3,110) - Allah abbia creato sulla terra. Il pensiero politico-religioso islamico non contempla l’idea di nazione, quale entità coincidente con uno stato territoriale. La peculiarità dell’islam è la concezione di una comunità di popoli uniti dalla fede islamica (umma).

L’islam consiste sostanzialmente nella fede nell’unicità di Dio. Unicità che non si concilia con la definizione del Corano (cfr. sure 23,14; 37,125), dove è scritto che Allah è “Il migliore dei Creatori”. La fede nell’unicità di Dio implica la sottomissione incondizionata alla sua volontà. Principi della fede islamica sono: credere in Allah, nei suoi profeti messaggeri (sura 2,136), nei libri sacri (Torah, Vangelo, Corano), negli angeli, nella predestinazione (sure 57,22; 9,51), nel giorno del giudizio universale (sure 99 e 21,47). Con il termine “islamismo” si sottolinea l’aspetto radicale dell’islam, consistente nell’interpretazione e nell’applicazione rigorosa dei principi trascritti nel Libro sacro. L’islamismo è un’ideologia politico-religiosa, che aspira a creare un nuovo ordine, di stretta osservanza alla legge islamica. Di tendenza moderata è il pensiero degli intellettuali riformisti (poco tollerati e spesso perseguitati nei paesi islamici), che tendono ad adattare l’islam alla modernità al pari di altre fedi religiose.

Il sacro Corano, secondo i musulmani, è stato rivelato da Allah al profeta Maometto durante gli ultimi ventitré anni della sua vita (dal 610 al 630 era volgare). L’autore del Libro (per gli islamici è Allah), ancorché identifichi Maometto come un peccatore (sure 40,55; 48,2; 47,19), asserisce che a lui si deve obbedienza come a Dio (sura 4,80). L’attestazione della fede nell’unicità di Dio (sure 2,255; 112,1-4) è connessa all’osservanza obbligatoria degli atti di culto (i doveri fondamentali o pilastri dell’islam). Tali atti riguardano la professione giornaliera di fede in Allah e nel profeta Maometto (sure 37,35; 48,29), l’orazione rituale ripetuta cinque volte al giorno (sure 11,114; 24,58), la donazione obbligatoria (sura 9,103), il digiuno dall’alba al tramonto nel mese di Ramadan (sura 2,183-185), il pellegrinaggio ai luoghi santi almeno una volta durante la vita (sura 2,196-197), il fattivo impegno sulla strada di Dio (jihad), che comprende la lotta fisica, difensiva o offensiva (c.d. “guerra santa” o “jihad”), legittimata dal Corano, cioè da Allah (cfr. sure 2,190-194.216; 4,76.84.141; 5,33; 8,12-13.15-17.60-61.65; 9,3.5-6.13-14.29.39.73.111.123; 17,33; 22,8-9.19-22.39-40; 25,52: 33,50; 47,4; 48,29). Il jihad, se per un verso è finalizzato a garantire la libertà di culto per i musulmani, per un altro verso è finalizzato alla conversione e sottomissione dei non credenti. Il musulmano vive in conformità alle prescrizioni del Corano, la sacra parola che obbliga a seguire determinati comportamenti rituali e norme di vita sociale secondo dettami decretati nel VII secolo dell’era volgare (e.v.) dal Profeta legislatore Maometto, che sarebbero stati a lui rivelati da Allah. Questo periodo storico è assunto dai musulmani come modello insuperabile da imitare. Ciò, ovviamente, pone il Corano fuori dalla storia, con l’inevitabile conseguenza della sua inattualità rispetto alle mutate condizioni socio-politiche di vita dei popoli. L’anti storicità del Corano ne irrigidisce il significato, ponendolo in contrasto con la moderna concezione di vita. L’emancipazione delle popolazioni islamiche resta dunque ostacolata da un’atavica cultura religiosa di sottomissione.

L’islam è, secondo il Corano, la religione naturale dell’uomo: l’unica vera religione monoteistica connaturata a tutti gli uomini (sura 30,30), definitiva (sura 5,3), completamento delle precedenti rivelazioni (sura 2,136). L’islam è religione profetica, giacché rivelata ab origine mediante profeti legislatori, l’ultimo dei quali, sigillo dei profeti, è Maometto (sura 33,40). Le precedenti rivelazioni, secondo il Corano, sono state falsificate da ebrei e cristiani, che hanno tradito i precedenti profeti legislatori (i principali dei quali sono: Adamo, Noè, Abramo, Mosè, Gesù). Ne consegue che il Corano, avendo ripreso e perfezionato il messaggio originario, rivelato da Dio ai precedenti profeti, abroga ebraismo e cristianesimo.

L’islam non è una religione misterica, com’è quella cristiana. La professione di fede nell’unicità di Dio e nella missione del profeta Maometto non richiede l’intermediazione né del magistero ecclesiastico né di un’autorità docente centrale. Ciò che vincola i musulmani è la pratica legale degli atti di culto, cioè l’agire in conformità alle prescrizioni rituali trascritte nel Corano (ortoprassi). L’interpretazione del testo sacro, elaborata da esperti della legge islamica (ulama), seguaci di una delle quattro grandi scuole di scienza giuridico-religiosa islamica, ha carattere vincolante solamente per i loro seguaci. Del resto, il Corano, pur avendo la pretesa di essere un “Libro chiarissimo”, “esplicito” (sura 6,59 e altre), dove nulla è stato dimenticato (sura 6,38), richiede necessariamente, come qualsiasi altro testo, appropriata interpretazione (che non può tralasciare di considerare le mutate condizioni storiche). Esistono quattro principali scuole islamiche teologico-giuridiche: la malikita (di stretta aderenza alla sunna e al conservatorismo), la hanafita (la più liberale e tollerante nell’interpretazione della legge islamica), la shafi’ita (che solleva la sunna all’altezza del Corano, svalutando l’analogismo e il consenso tra dotti), la hanbalita (caratterizzata dall’interpretazione letterale del Corano e della sunna nonché dalla stretta osservanza della sharia, la legge islamica). I reati sono suddivisi in tre categorie: quelli contro Allah (apostasia, bestemmia, adulterio, furto, ecc.), puniti con la morte o con pene corporali severe; quelli di sangue (omicidi e lesioni corporali), puniti con la legge del taglione; quelli nocivi alla buona convivenza comunitaria (disobbedienza al marito, usura, vendita di bevande alcoliche, sodomia, ecc.), punibili con pene meno severe. La ribellione (fitna) alle leggi di Allah è considerata peggiore dell’omicidio, perciò è soggetta alla massima pena (sure 5,33; 2.191.217). L’autore del Corano afferma che, se Allah volesse, renderebbe credenti tutti gli uomini. Ma Allah non vuole; tuttavia esorta Maometto, affinché costringa i miscredenti a credere (sura 10,99). L’autore del Libro asserisce altresì che nessuno può credere, se Allah non lo permette (sura 10,100). Poi avverte che chi non crede prepara da sé la propria rovina (sura 6,12). Aggiunge che Allah non è responsabile di chi si allontana dalla Retta Via (sura 10,108). Evidenti sono le contraddizioni rilevabili nelle suddette proposizioni.

Il Corano è creduto dai musulmani Verbo di Dio, increato (sura 85,22), dunque eterno, sacro, immodificabile. Ha la pretesa di essere un “Libro con la verità” (sura 3,3), esente da errori e contraddizioni (sure 4,82; 18,27), rivelato secondo scienza (sura 4,166), in lingua araba esplicita (sura 26,195). Qualsiasi traduzione del sacro testo – sostengono i musulmani - sarebbe un’interpretazione non soddisfacente, poiché non comunicherebbe al lettore l’intero messaggio contenuto nel testo originario arabo (e si perderebbe anche l’effetto retorico dello stile poetico in cui è stato redatto). La sua forma letteraria, artistica, è ritenuta un miracolo straordinario, un dono di Allah, essendo Maometto definito “Profeta illetterato” (sura 7,157-158), non un poeta (sura 36,69), ma uomo ispirato da Dio (che Maometto fosse analfabeta è contraddetto da numerosi hadit nella raccolta di Al-Bukhari). Nessun uomo – si afferma nel Corano - potrebbe riprodurre un testo simile, essendo inimitabile (sure 10,38; 17,88). In verità, forme eloquenti, espressive più del Corano, sono sempre esistite. Anche la Commedia di Dante Alighieri è un capolavoro inimitabile. Boccaccio la definì “divina”, non perché dettata a Dante da Dio, ma per la grandezza del poema, in cui è racchiuso tutto lo scibile del cosmo medievale.

Il periodo della rivelazione islamica si distingue in “meccano” (dal 610 al 622) e in “medinese” (dal 622, anno dell’Egira, cioè dell’emigrazione di Maometto e dei suoi seguaci dalla Mecca a Medina, al 632, anno della morte del Profeta). Nelle sure di ciascun periodo possono esserci versi attribuibili all’altro periodo. La complessa struttura del Corano si articola in 114 capitoli (sure), contenenti un numero variabile di versi, repentini cambiamenti di stile, vari e disomogenei argomenti. Le sure si susseguono non secondo un ordine tematico né secondo l’ordine cronologico della rivelazione, ma in base alla lunghezza dei capitoli (i più lunghi sono posti all’inizio e sono generalmente i più vicini a noi nel tempo). Per effetto di un principio coranico (sure 2,106; 13,39; 16,101; 17,86; 22,52), i versi rivelati in un periodo posteriore abrogano i versi anteriori discordanti (ciò implicherebbe la non perfezione del Verbo divino). Taluni versi del Corano possono anche abrogare le norme (hadith) desunte dalla tradizione (sunna) o essere abrogati da queste. La teoria giuridica dell’abrogante e dell’abrogato, se per un verso cerca di giustificare le apparenti contraddizioni del testo, per un altro verso appare in contrasto con quanto si afferma nel Corano, cioè che nessuno può cambiare le parole di Allah (sura 6,34.115 e altre), essendo state da lui forgiate (sure 10,37; 2,79).

La rivelazione (ossia le prime parole del Corano) scesa su Maometto attraverso l'arcangelo Gabriele (nella grotta Hera -Ḥirā- sulla montagna di Luce) durante il periodo meccano, consiste principalmente in temi etici e spirituali. Si tratta di brevi, poetici capitoli (sure), che mirano soprattutto ad ammonire credenti e miscredenti riguardo alla fine dei tempi (escatologia). Nel Giorno del Giudizio, infatti, tutti i morti risorgeranno per render conto delle loro azioni, in base alle quali saranno premiati o castigati. Non mancano propositi di rivalsa punitiva nei confronti degli increduli, non solo nell’aldilà, ma anche durante la loro vita. Allah si esprime direttamente, parlando in prima persona singolare o plurale, ma spesso parla anche in terza persona (il che dà motivo di dubitare sull’autenticità della divina rivelazione). Molte sure iniziano con un giuramento di Allah per sancire pretese assolute verità. Ogni evento, che volga o al bene o al male, è già stato preordinato da Allah (teologia della predestinazione). Egli può fare quello che vuole (sura 13,39; 14,27; e altre). Non c’è altro da fare che rassegnarsi alla volontà di Allah (mashallah).  La rassegnazione del musulmano si accompagna alla speranza che nel futuro “se Allah vorrà” (inshallah) qualcosa accadrà o non accadrà (ideologia fatalista). Nel periodo di vita alla Mecca, Maometto non ha un potere effettivo per costringere gli infedeli a credere: egli è solo un ammonitore, senza alcuna autorità (sura 88,21-22), perciò si limita a minacciare castighi da parte di Allah. In seguito, quando a Medina diverrà capo di una comunità organizzata di credenti, imporrà con la spada il suo credo (cfr. la “Vita del Profeta di Allah”: “Sirat Rasulallah”). Le guerre di conquista o di propaganda dei musulmani hanno diffuso e consolidato un credo religioso, che si presume essere stato rivelato da Allah a Maometto durante una notte di meditazione in una grotta sul monte Hira, vicino a La Mecca.

            Il sonno profetico e l’acquisizione di abilità poetiche da parte di Maometto trovano precedenti nell’esperienza catartico-incubatoria della tradizione greca. Per esempio, Pausania (libro IX, 30, 10) racconta che un pastore, addormentatosi, appoggiato alla tomba di Orfeo, si mise a cantare dei versi del poeta, ritenuti d’ispirazione divina. Epimenide cretese ebbe la sua visione in una grotta durante un sonno profetico. Esiodo e Archiloco di Paro ricevettero l’ispirazione poetica dalle Muse. Pitagora visse per tre anni in una grotta cretese in cerca di ispirazione.  Zaleuco, legislatore di Locri Epizefirii, fu ispirato dalla dea Atena.  Parmenide descrisse nel suo poema filosofico la propria esperienza di viaggio “iniziatico” fra gli dèi. I testi orficici descrivono le discese iniziatiche nell’Aldilà (katabaseis).

Le sure del periodo medinese, più ampie, trattano temi sociali e politici e disciplinano i vari aspetti pratici di vita comunitaria. Si afferma l’uguaglianza tra gli uomini, indipendentemente dalle appartenenze etniche e sociali (sura 49,13), ma si nega l’uguaglianza di genere (cfr. sure 4,34; 2,228 e altre). Unico discrimine è quello tra credenti e miscredenti. I primi costituiscono la comunità islamica militante (umma), la migliore che sia stata creata, attiva nel contesto sociale e familiare, ligia alle prescrizioni coraniche (sure 3,104.110.113-115; 47,38). Tutti i membri della umma appartengono alla “Casa dell’islam” (dar al-islam, il territorio ove vige la legge di Allah), contrapposta alla “Casa della guerra” (dar al-harb, il territorio ove è lecito condurre la lotta per la diffusione dell’islam). Per i credenti sono previsti premi in terra e paradisi afrodisiaci in cielo (sure 38,49-54; 44,54; 47,15; 52,20; 55,46-76; 56,10-40; 75,11-22; 78,31-34; 83,22-28). I miscredenti sono giudicati i più abbietti di tutta la creazione. Il Corano prescrive per loro il perpetuo fuoco dell’Inferno, (sura 98,6 e altre). I miscredenti, giacché non sono uguali ai credenti, cioè ai musulmani, non possono avere i medesimi diritti e devono essere combattuti e sottomessi (sura 9, 29-30).

I musulmani hanno l’obbligo di obbedire ai governanti, purché svolgano le loro funzioni con giustizia, in ottemperanza alle prescrizioni del Corano e della sunna (la raccolta effettuata dai seguaci del Profeta di detti e fatti a lui attribuiti). Tali prescrizioni sono ritenute espressioni della volontà divina, perciò sono state poste a fondamento del diritto islamico (sura 4,59). Ne consegue che le leggi civili, che violano le disposizioni delle fonti sacre, non devono essere osservate. I credenti sono autorizzati a difendersi dai loro oppressori (sura 22,39), combattendoli, anche se non lo gradiscono (sura 2,216). Devono inoltre partecipare alle decisioni che riguardano la comunità musulmana (sura 42,38). La consultazione comunitaria nel contesto della umma islamica è teocentrica, finalizzata all’attuazione della volontà di Allah. Il giudizio (cioè il potere), immutabile e insindacabile, appartiene solamente ad Allah (sure 12,40; 6,57). Il musulmano ha l’obbligo di giudicare in conformità alla Legge di Dio rivelata al Profeta (sura 5,49). Ne consegue che non può esserci una comunità di credenti senza uno stato islamico, in cui governanti e governati ubbidiscono ai principi decretati dal Corano e dalla sunna. Per la realizzazione dello stato islamico è lecito il combattimento (sura 2,190-193). I musulmani, che lottano con la loro vita e i loro beni (cioè combattono militarmente) per la causa di Allah, riceveranno immensa ricompensa (sura 4,74.95), non solo nell’aldilà, ma anche nell’aldiquà. Una di tali ricompense nell’aldiquà è di avere rapporti sessuali con le donne fatte prigioniere e rese schiave, anche se già maritate. Il Corano, infatti, presunto Verbo di Dio, legittima la schiavitù e prescrive la liceità dei rapporti sessuali con schiave, indipendentemente dal loro consenso (sure 70,22-30; 23,5-6; 4,24; 33,50 e altre; cfr. altresì le raccolte di hadit e la sirat o vita del Profeta). S’impone una domanda: che tipo di Dio abbia adorato Maometto? Ancora una domanda: come può pretendersi che il Corano, forgiato su costumi medievali, abbia valore eterno e resti immutabile nel tempo? Il Corano è, evidentemente, creazione dell’uomo, perciò è criticabile e riformabile.

Contrastanti sono le norme coraniche relative alla tolleranza in materia di libertà religiosa. Se per un verso si afferma che non c’è costrizione nella religione (sure 2,256; 10,99-100; 18,29), per un altro verso s’incita alla violenza contro miscredenti e apostati (sure 2,104.108-109.161-162.190-193.216-217; 3,85-91.177;4,56.89.91.137.150-151.167; 5,33.8,38-39.54-60.73; 8,12-17.39.65-66; 9,5.14.17.23-24.29-31.36.66.73-74.123; 16,106; 22,19-22.78; 25,55; 35,36-37; 47,4.25; 48,16 e altre simili). I musulmani non devono integrarsi con ebrei e cristiani (sure 5,51; 60,1) e sono autorizzati a non obbedire ai miscredenti (cioè a chi non è musulmano), contro i quali devono lottare con tutti i mezzi per convertirli (sura 25,52). Il solo culto che Allah accetta è quello islamico (sura 3,85). L’apostata può pentirsi e ritornare all’islam, ma se desiste, deve essere ucciso, perché è strumento di sedizione e seminatore di dubbi tra i musulmani (cfr. hadith di Awza’i e di Ikrimah).

Il Corano, come la Bibbia, include esplicite prescrizioni legali (anche minuziose) e tabù alimentari. La liceità della poligamia è sancita dalle sure 4,3 e 2,223. La superiorità dell’uomo sulla donna è affermata dalla sura 2,228 e, in materia di eredità, dalla sura 4,11-12. La sura 4,34 autorizza l’uomo a punirla, in caso di disobbedienza (vero e proprio reato), mediante ammonizione o privazione del sesso o percosse. La testimonianza della donna vale meno di quella dell’uomo (sura 2,282). Le spose possono essere ripudiate, ma non possono ripudiare i loro mariti (sura 2,227-237). La perdita della verginità è reato. La segregazione dei sessi, in taluni paesi islamici, è assoluta. Il delitto d’onore raramente è punito. La Commissione per i Diritti Umani dell’ONU calcola che circa 5000 donne sono uccise ogni anno, soprattutto in paesi islamici “in nome dell’onore”. Talvolta nei tribunali occidentali i “delitti d’onore” beneficiano di uno sconto di pena, perché considerati “atti condizionati da una cultura arcaico-patriarcale”. In paesi teocratici come Nigeria, Sudan, Iran, Arabia Saudita, pervase da una sorta di bigottismo religioso fanatico, le pene coraniche sono applicate alla lettera, come il taglio della mano per i ladri (sura 5,38), la fustigazione per gli adulteri (sura 24,2-4), la legge del taglione per gli omicidi (2, 178-179). In questi e in altri stati islamici, la legge (in conformità a un hadith, vol.8, lib.82, n.810) prescrive per gli adulteri la pena di morte mediante lapidazione. Pene capitali sono prescritte anche per apostati, omosessuali, bestemmiatori.

Dopo la morte di Maometto, la “rivelazione”, trasmessa oralmente e memorizzata dai fedeli, fu recuperata dalla memoria dei superstiti e trascritta in modo frammentario su fogli o frammenti di cocci. In seguito, le diverse, frammentarie versioni furono raggruppate e composte in una redazione ufficiale, canonica (si tenga presente che la storia riguardo alla redazione del Corano è questione aperta e dibattuta). Il Corano riassume e ingloba storie religiose, concetti e pratiche cultuali del giudaismo, del cristianesimo e del paganesimo arabo (come l’adorazione della pietra nera, idolo pagano, custodito nella Kaba alla Mecca). Il cammelliere e pagano Maometto, durante la sua vita di commerciante, ebbe contatti con cristiani ed ebrei, da cui apprese nozioni religiose trasfuse poi nel Corano (discordanti in gran parte con i testi canonici ebraici e cristiani). Critiche contro la nuova religione furono rivolte a Maometto dai contemporanei (sure 25,4-5; 16,103-104). Abbondano nel Corano incitamenti alla violenza per l’affermazione dell’islam (cfr. il c.d. “versetto della spada”, sura 9,5 e altre). Il Corano legittima il jihad, la lotta di propaganda, ma anche militare, contro gli infedeli. Esso è considerato un dovere religioso per liberare il mondo dalla miscredenza. Il jihad è un dovere perenne per il musulmano, finché la dominazione universale dell’islam non sarà raggiunta. I credenti, parola del Corano, avranno il sopravvento sui miscredenti (sura 3,139) né sono responsabili della loro uccisione, combattendoli per il trionfo della causa dell’islam. Tale responsabilità è di Allah (sura 8,17).

Occorrerà del tempo prima che concetti come democrazia, individualismo, diritti umani, uguaglianza di uomini e donne, ecc. possano trovare effettivo spazio nella cultura tradizionale islamica, in cui predominano concezioni di tipo collettivistico e istituzioni politiche che auspicano il califfato o “imamato” (istituzione, peraltro, non di diritto divino, giacché derivante da un consenso politico). Il califfato, terminato il periodo storico dell’impero unico, si è trasformato in dinastie e monarchie ereditarie dispotiche (sultanati) e stati teocratici (wahabismo in Arabia Saudita, rivoluzione islamica di Khomeini in Iran, socialismo arabo in Egitto, ecc.). Una via laica è quella del secolarismo turco (attualmente contrastata da Erdogan). I governanti islamici sono obbligati a far rispettare il diritto islamico, considerato di origine divina. L’islam non ha beneficiato né dei valori apportati in Occidente da Umanesimo, Rinascimento, Illuminismo, né della moderna critica testuale, che ha contribuito a reinterpretare e demitologizzare i sacri testi. L’inadeguatezza dell’islam rispetto alla modernità sta, forse, nell’ostinazione dei musulmani a cercare valori nel contesto storico culturale di un’epoca remota. Il Corano e la sunna del Profeta non possono essere interpretati come verità divina assoluta, eterna e immutabile. La ragione umana non può essere subordinata all’autorità di una tradizione religiosa inattuale, sorta in tempi remoti, che ha la pretesa d’essere verità valida in ogni tempo e luogo. Il Corano non è un codice di vita sociale e politico universale, valido sempre, solo perché si crede - per fede - di origine divina. Né la fede (soprattutto se proclama la violenza) deve poter assurgere a elemento costitutivo della politica. La modernizzazione dell’islam non può prescindere dalla reinterpretazione del Corano, che consentirebbe di adeguare antiche consuetudini ai bisogni odierni. Ciò implica il coraggio di ammettere che il Corano non è parola eterna di Dio, archetipo immutabile della rivelazione creduta esistente “ab aeterno” presso il Trono di Allah (sure 3,7; 6,34.115; 10,15.37.64; 13,39; 15,9; 18,27; 43,4; 56,78; 85,21-22), altrimenti, non c’è possibilità alcuna di adattarla e interpretarla.

 Il Dio che ha ispirato Maometto alla Mecca è diverso da quello di Medina, ma è anche diverso da quello dell’Antico Testamento e da quello mitizzato nel Nuovo Testamento. Dunque, chi è Dio? Quale sarebbe l’incontrovertibile prova che attesti che la rivelazione delle tre fedi monoteistiche è di provenienza divina?

Lucio Apulo Daunio


BIBLIOGRAFIA

BAUSANI  A., Il Corano; L’Islam

BONELLI  L., Il Corano

BRANCA  P., Il Corano

BUKHARI (al), Detti e fatti del profeta dell’Islam

CAMPANINI  M., Il Corano e la sua interpretazione; Islam e politica; Dizionario

CAMPANINI  M., MEZRAN  K., Arcipelago Islam

COOK  M., Il Corano

KUNG  HANS, Islam

LAROUI  A., Islam e modernità

MUHAMMAD  AL-TABARI, Vita di Maometto

NOJA  S., L’Islam e il suo Corano

PICCARDO  R. H., Il Corano

PUECH  H. C., Storia dell’Islamismo

RODINSON M., Maometto

SIMONNOT  P., Il mercato di Dio


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lunedì 28 marzo 2011


LA LANTERNA DI DIOGENE

 

La Teologia, o discorso su Dio, è lo studio intorno ad una credenza religiosa. Può essere definita una scienza? No, se per scienza intendiamo la ricerca rigorosa e sistematica di conoscenze fondate sull’esperienza, che consente di giungere a verità oggettive, sperimentabili e sempre falsificabili da un’ulteriore esperienza. Sì, se per scienza intendiamo la teorizzazione critica e razionale di concetti metafisici su entità indefinibili e inconoscibili (dunque inverificabili) per supportare credenze o verità di fede, che hanno valore soggettivo (opinione) o assoluto (dogma). Le dimostrazioni teologiche sull’esistenza di Dio sono argomentazioni fallaci dal punto di vista logico. Altro, invece, è lo studio antropologico (dunque scientifico) attinente alla relazione tra l’uomo e l’idea del divino nei diversi contesti storici.

L’impossibilità della scienza di dimostrare obiettivamente l’inesistenza di Dio non implica la sua esistenza. Peraltro, al contrario, l’assenza di prove non costituisce di per sé una prova di inesistenza. Dunque, secondo la scienza, in assenza di prove non si può né affermare né negare in modo assoluto l’esistenza o l’inesistenza di qualcosa. Le affermazioni metafisiche e religiose, quindi, sono vere solo nell’ambito delle credenze e delle culture cui appartengono, posto che ogni entità o concetto metafisico sfugge a qualunque tipo di verifica empirica. Ne consegue che ognuno è libero di credere alle proprie opinioni, ancorché prive di riscontro oggettivo, purché non abbia la presunzione di imporle come verità dogmatiche, valide “erga omnes”.

E’ mia opinione, al riguardo, che la conoscenza della realtà universo, pur essendo interpretabile con molteplici teorie metafisiche e religiose, vada ricercata nell’ambito della ricerca scientifica, che ha maggiore probabilità di credibilità oggettiva. Scienziato è colui che con la “lanterna di Diogene” ricerca e produce “verità-realtà”. Per il noto principio del “rasoio di Occam”, inoltre, è più semplice trovare la spiegazione della realtà in se stessa, senza l’ulteriore complicazione del soprannaturale. La ragione critica, fondata sull’esperienza, è un metodo d’indagine per la conoscenza più attendibile della fede, che, invece, essendo fondata su congetture, è ipotetica e inverificabile.

L’immane ricerca teologica di Dio non solo non è approdata a nulla di concreto, ma ha anche seminato nel corso della storia umana conflitti e tragedie innumerevoli. Dio, infatti, non è un fenomeno empiricamente accertabile. Perché, dunque, voler continuare a delirare teorie su teorie inconsistenti, prive di riscontro nella realtà, e ad affermare verità senza prove, in una vana ricerca senza fine? Sorge, al riguardo, il sospetto che l’inutilità della ricerca teologica serva in concreto a legittimare un potere religioso istituzionalizzato. La mercificazione dell’offerta religiosa, fondata sul principio d’autorità e sostenuta da una ponderosa e capillare propaganda massmediale, crea la propria domanda (cioè il bisogno di Dio, che cresce in relazione al sistematico condizionamento religioso).

Una prova alternativa alle teorie metafisiche sull’esistenza di Dio è quella rappresentata da Newton (e da altri), secondo la quale l’universo appare come un grande orologio e Dio è l’orologiaio. Questa prova simbolica giustificherebbe l’apparente razionalità di un progetto divino predeterminato, una sorta di Dio architetto (vedi deismo). Come giustificare, però, il silenzio di Dio al cospetto del grido straziante che si eleva dalla sofferenza umana? Di fronte alle catastrofi naturali ha senso credere che vi sia una causa intelligente soprannaturale, una divinità progettista dell’universo, inconsapevole di certe conseguenze negative? Forse, il dio orologiaio è cieco? Non è interessato alle conseguenze del male nel mondo?

Il procedere delle cose nell’universo appare come effetto della complessità di eventi prodotti dalla casualità, su cui è possibile indagare con metodi scientifici per conoscerne le cause. Questa modalità non ha nulla in comune né con il panteismo (classico o naturalistico–spinoziano o scientifico–materialista) né con il pandeismo né con il panenteismo. Il panteismo, insomma, visto in tutte le diverse accezioni, si risolve sostanzialmente in una ricerca di Dio nella natura, contemplata come rivelazione del divino; dunque, una sorta di “anima mundi” o di deificazione della natura. La natura, in vero, può badare a se stessa, perciò non necessita di alcun intervento soprannaturale.

La scienza moderna non ha una visione sacra o religiosa della natura e le sue affermazioni possono essere condivise da tutti, essendo riscontrabili, dimostrabili, empiricamente evidenti. La conoscenza scientifica consente non solo di stabilire il valore di verità o di falsità delle sue affermazioni, ma anche di poter dominare la realtà, prevedendone le conseguenze fenomeniche. Essa, tuttavia, non ambisce, come la metafisica, alla conoscenza ultima della realtà.

Il “convitato di pietra”, ossia il Dio ignoto, appare come un demone che condiziona e trascina la mente umana nel pantano della metafisica, intralciando la ricerca scientifica con la sua ingombrante presenza obnubilante. L’universo si giustifica da sé: esiste per caso e non necessita di una causa, incausata, ad esso esterna, dunque ipotetica, perciò non necessaria. Oltre la realtà empiricamente accertabile, appare, secondo i punti di vista, o il nulla (scientismo) o il mistero di un Dio ignoto. Certamente, non possiamo escludere che vi possa esistere un’altra diversa realtà oltre quella conoscibile, ma ciò appare del tutto improbabile.

La contemplazione della natura spinge spiriti eletti verso una religione cosmica, astratta (vedi Einstein e altri), che non conduce a un’idea formale di Dio. Einstein, del resto, come altri scienziati, non si limitava alla passiva accettazione delle proprie intuizioni, ma le sottoponeva al rigore del controllo empirico e logico. La spiritualità laica, che si contempla nel silenzio del nostro mistero profondo, non va confusa con quella confessionale, teologica, religiosa. Ogni persona umana ha una propria astratta spiritualità: linfa vitale che lo contraddistingue quale essere unico nel mondo.

Di ciò che non conosciamo, giacché non accertabile empiricamente, è preferibile tacere. La via della ricerca conoscitiva illuminiamola con la “lanterna di Diogene”, piuttosto che con il gelido riflesso del “convitato di pietra”.
          Lucio Apulo Daunio

"PENSIERO DI UN MALATO DI CUORE"

di Riccardo Maria Gradassi

 

Nel Comune di Castel Ritaldi, presso la Biblioteca Comunale, in data 10 Marzo 2011 - grazie all'iniziativa del Consigliere Comunale Carla Erbaioli e con la presenza del Sindaco di Castel Ritaldi Andrea Reali - si è tenuto l'incontro/dibattito dal titolo "Il cuore e l'attività fisica" dedicato alle malattie del cuore ed alla loro prevenzione. Presenti Dottori e Primari di Cardiologia di vari Ospedali Umbri. Il Consigliere Comunale Carla Erbaioli mi ha chiesto di scrivere un "pensiero" fatto da un malato di cuore. Ho subito accettato anche se non è stato semplice scriverlo. Durante l'evento ho introdotto il pensiero unitamente ad un sottofondo musicale di un bravissimo e giovane violinista - Manuele Gallinella -. Ho ricevuto molte congratulazioni sia dalle Istituzioni Comunali, Primari, Dottori, Pubblico.

A tal proposito desidero "pubblicare" questo pensiero "nella rete" ringraziando Lucio Apulo Daunio per aver accettato di ospitarlo.

 

PENSIERO DI UN MALATO DI CUORE

di Riccardo Maria Gradassi

 

"La luce del mondo brilla nei miei occhi con tutto il suo splendore. Sono ancora

vivo ! Questo è per me l’evento più importante da raccontare.

 

E’ comunque difficile rallegrarsi quando un corpo assapora muto l’amaro attacco

nel petto. Un corpo che cerca di vivere barcollando nella sua esistenza,

portando avanti il peso di un cuore che soffre e fa soffrire il fisico, la mente, la

volontà di andare avanti ed i familiari.

 

Sicuramente sarà stato il mio stile di vita, totalmente imperfetto, sarà stato il

troppo lavoro, quante ne ho fatte ad oggi senza rilassarmi un momento !

 

Sarà stato l’esagerato assumere cibo senza adeguata attività fisica - inutile

nasconderlo, mangiavo e correvo in automobile, non a piedi.

Sarà stato il bere troppo caffè ed il dormire troppo poco durante l’intensa

giornata lavorativa – anche se poche erano anche le ore notturne di

assopimento.

 

Saranno stati gli innumerevoli pensieri legati alla famiglia, ad i miei cari ed al

lavoro!

 

Sarà stato il fumo … troppe ne ho fumate!

 

Sarà stato il mio tenore di vita, una vita troppo esagerata, troppo stressata,

troppo inadeguata.

 

Il mio cuore ha sofferto a lungo ed il suo abbandono era dietro l’angolo.

 

Eppure eccomi qua, sono ancora vivo nel mondo, nonostante l’atroce attacco.

 

Se ancora respiro sulla Terra ringrazio innanzitutto il Padre nostro che vive non

solo nell’Alto dei Cieli ma tra noi ed in noi cerca di non far governare

continuamente quel dolore di cui il mondo continuamente soffre.

 

Ha illuminato il lavoro di tutti gli specialisti sanitari che mi hanno soccorso –

Primari, Medici, Dottori o come li vogliamo intendere. Insomma la mia salvezza

terrena.

 

Ha seguito l’impegno degli Infermieri, stupendi angeli che mi hanno assistito in

ogni mia situazione più o meno difficoltosa , consigliato e psicologicamente

aiutato a superare la sofferente degenza.

 

Grazie per la enorme pazienza nei miei confronti.

 

Non sempre i pazienti sono pazienti, anzi. E noi pazienti chiediamo troppo e

quando non ci viene dato siamo sempre di pessimo umore. Il dolore del corpo ci

fa perdere il senno. Ed è comprensibile anche il vostro problema più grande,

quello di capire le condizioni di un malato di cuore e stabilire un adatto

programma sanitario e di vita.

 

Perdonateci.

 

Siete voi la nostra speranza principale. Siamo noi a dover raccogliere e mettere

in pratica i vostri consigli. Anche se spesso tentiamo di fare i ribelli, gli

indisciplinati. Ribadisco: perdonateci.

 

Ma ricordate che ogni vostro aiuto, ogni vostro sorriso, ogni vostra visita

sanitaria è per noi un momento di gioia e di maggiore speranza che la vita ci

offre.

 

Grazie per quello che avete fatto e che continuerete a fare nella vostra

straordinaria ed assai impegnativa missione."

 

RMG (Riccardo Maria Gradassi)


 

sabato 12 marzo 2011


COSA E’ LA GIUSTIZIA

Giustizia, la principale delle virtù etiche, deriva da jus (diritto, obbligo, vincolo, legge), da cui justus (giusto, conforme alle leggi divine ed umane).

É una virtù sociale che consiste nel rispettare i diritti altrui, attribuendo a ciascuno la propria dignità, ossia ciò che gli è dovuto (unicuique suum) secondo la ragione e la legge (giustizia commutativa).

É dunque la virtù del debitum, del bene dovuto, morale, verso il prossimo (alterità), l’adempimento del quale ristabilisce l’uguaglianza. L’idea di giustizia, come insieme di norme condivise, regolatrici dei rapporti, è un concetto normativo, non descrittivo, che va ricercato nei principi del diritto, desumibili dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Spesso, ciò che appare giusto per convenzione di legge, può non esserlo secondo il diritto naturale o determinati principi etici. La giustizia, in generale, in quanto mira all’interesse comune di una comunità, ha lo scopo di raggiungere un accordo razionale in presenza di conflitti d’interesse tra persone o gruppi diversi.

Nell’antica Grecia la dea della giustizia, Dike, era la divinità che ristabiliva l’ordine naturale violato dal colpevole. La giustizia si configurava come divinità che presiedeva l’ordine universale, quello del cosmo e quello relativo ai rapporti umani per garantirne la pacifica convivenza. Opposta alla giustizia era la hybris, intesa come eccesso, tracotanza, superbia, prevaricazione della legge dell’armonia, violazione dell’ordine cosmico, delle leggi divine immutabili, da cui conseguiva la nemesis (la giusta punizione degli dei). Per i sofisti le leggi, in quanto sono decisioni umane, non divine, e riflettono gli interessi politici dei detentori del potere, non sempre rispondono all’idea di giustizia. Gli stoici affermarono l’idea di un diritto naturale, conforme alla legge razionale che governa il cosmo, dunque di per sé giusto.

La giustizia commutativa o retributiva o regolatrice o delle transazioni s’ispira al principio di uguaglianza (riparare il danno commesso a chi lo ha subito, cioè restituirgli ciò che gli appartiene o il giusto equivalente di esso) e a quello dell’equità (togliere da chi si è avvantaggiato con iniquità e dare a chi ha perso). Riguarda i rapporti e i doveri reciprochi tra privati ed è soggetta alla legge del contrappasso (contra patior = soffrire il contrario). In tale concetto di giustizia rientrano anche le ricompense da distribuire in proporzione al bene che è stato fatto. Giurisdizione è la funzione esercitata dal giudice per risolvere una controversia, mediante l’attuazione delle norme giuridiche nel caso concreto. La lesione della giustizia commutativa costituisce ingiustizia. La violazione della giustizia commutativa esige l’obbligo della restituzione.

La giustizia penale è retributiva, nel senso che retribuisce con una sanzione un’azione illecita. Principio fondamentale della giustizia penale (art. 25 Cost. ital.) è quello della legalità formale (nullum crimine, nulla poena sine praevia lege). Vige dunque il divieto di punire un fatto non previsto dalla legge come reato. Secondo l’opposto principio di legalità sostanziale, non sono punibili le azioni non socialmente pericolose. La giustizia sostanziale, in quanto si concretizza nell’intervento del giudice oltre il limite della legge formale, può sconfinare nel decisionismo dell’azione politica (politicità del giudice).

La giustizia distributiva consiste nel compito dello Stato di dare a ciascuno il suo in proporzione ai meriti individuali oppure per pareggiare diseguaglianze naturali. L’equa ripartizione della ricchezza comune, distribuita a molti, ha lo scopo di realizzare la giustizia sociale. Principi di giustizia retributiva sono:

•l’equità, cioè la distribuzione di benefici ed oneri in proporzione al merito di ciascuno;

•l’eguaglianza, cioè assegnando a ciascuno, a parità di condizioni, parti uguali di benefici ed oneri;

•il bisogno, cioè assegnando benefici e oneri in proporzione alle necessità di ciascuno.

La c.d. “recostitutive justice” (giustizia ripartiva) ha lo scopo di promuovere non solo la riparazione del danno ma anche il ricomponimento della controversia, mediante la riconciliazione tra le parti, e il superamento della logica del castigo, mediante il perdono. L’obiettivo non è dunque la giustizia come vendetta, bensì la riconciliazione. La funzione del diritto non è più a carattere repressivo bensì promozionale a sostegno delle vittime che hanno subito l’ingiustizia.

La giustizia può essere intesa come legalità, (cioè, conformità della condotta di una persona ad una norma di legge) o come mezzo di garanzia dei diritti di una persona.

Per Hobbes la giustizia si risolve nella legalità, cioè nell’osservanza di quanto pattuito con un contratto convenzionale costitutivo dello Stato (pacta sunt servanda). Il diritto positivo creato dallo Stato non è ius quia iustum (diritto in quanto giusto, conforme al diritto naturale), ma ius quia iussum (diritto in quanto ordinato dall’autorità legittima). Anche per Kelsen la giustizia si risolve nella legalità, che garantisce la pacifica convivenza degli uomini.  Per il liberalismo classico la giustizia s’identifica con la libertà e l’uguaglianza di fronte alla legge. Nelle ideologie socialiste e nei movimenti politici d’ispirazione cristiana, la giustizia sociale si ottiene con l’uguaglianza sostanziale, rimuovendo le disuguaglianze sociali ed economiche, mediante la costruzione dello Stato sociale.

Hume ha posto in evidenza come i problemi di giustizia sorgono a causa della scarsità delle risorse e dell’egoismo umano, che cerca di possederne il maggior numero a discapito degli altri uomini.

Fattori costitutivi della giustizia sociale (distinta dalla legalità, che riguarda la certezza del diritto) sono la libertà, l’eguaglianza, la solidarietà. La libertà coincide con la dignità, l’autonomia e il diritto della persona, che si esplica nella libertà di pensiero e di coscienza, nelle libertà politiche, nella libertà di associazione.  L’eguaglianza coincide con l’equità delle opportunità, nel rispetto delle differenze. La solidarietà implica la cooperazione per il reciproco vantaggio.

Il progetto utopico dei movimenti religiosi di salvezza (millenarismo, messianismo ebraico, annunzio evangelico, movimenti ereticali), dei movimenti rivoluzionari (inglese, francese, russo, contestazione del sessantotto) e dei processi di democratizzazione, sono visti come progetti della società di giustizia.

Principi etici normativi, finalizzati alla convivenza sociale orientata alla giustizia, vincolano l’azione e il comportamento del singolo che interagisce con gli altri. Tali principi costituiscono l’ethos tradizionale di una comunità, secondo gli ideali del tempo in cui furono espressi, e possono essere suscettibili di modifiche con il mutare dei tempi e degli ideali.

Tra i movimenti utopici portatori del progetto della società di giustizia, quello delle prime comunità ecclesiali cristiane, realizzatesi in costruzioni di società fraterne, si sfaldò ben presto con la costituzione di strutture di potere gerarchizzate, che si trasformarono in strutture istituzionalizzate di potenza e ricchezza. La natura dell’uomo, essendo difettosa e incline ai vizi, necessita di una correzione, che la religione gli presenta nella forma di regole di comportamento o comandamenti divini da osservare, orientando l’uomo verso un comportamento ideale, a garanzia del benessere dell’intera società. Se tali prescrizioni religiose diventano norme giuridiche, da osservare obbligatoriamente, si ha una società di giustizia di diritto divino (come quella islamica, dove vige la legge coranica).

Kohlberg ha individuato sei stadi nello sviluppo del senso morale degli individui, due per l’infanzia, due per l’adolescenza, due per l’età adulta. Durante l’infanzia, l’obbedienza alle regole è indotta sia dal timore di punizioni sia dall’aspettativa di ricompense. Durante l’adolescenza, la conformità alle regole è indotta sia dalla disapprovazione altrui sia dalla censura dell’autorità. Durante l’età adulta, la conformità ai principi morali non è più convenzionale bensì autoimposta, vuoi per il benessere della comunità vuoi per evitare l’auto-condanna.

Rawls critica la dottrina dell’utilitarismo (secondo la quale è giusto ciò che massimizza il bene comune, ossia il maggior benessere per il maggior numero di persone, tenuto conto dei costi e dei benefici), che potrebbe portare a violare alcune libertà fondamentali. Egli pone l’accento sulla condivisione, tramite il raggiungimento di un accordo, dei principi di giustizia che devono regolare una società. Tali principi devono riguardare la massimizzazione della libertà e l’uguaglianza nella distribuzione dei beni sociali (fermo restando la diseguaglianza distributiva a favore di chi è più svantaggiato). La teoria delle pari opportunità deve poter consentire le diseguaglianze di reddito legate al talento delle persone. L’idea di uguaglianza deve tener conto delle differenze.

Problematico appare il dialogo sui diritti umani con civiltà non liberali, come quelle islamiche dell’Arabia Saudita e dell’Iran, dove i diritti vengono fatti derivare unicamente dalla volontà divina (legge coranica). L’incompatibilità dei modi di vivere di tali civiltà con quelli delle civiltà liberali può trovare un punto d’incontro nel principio di tolleranza, cioè nel reciproco riconoscimento di modi di vivere alternativi.

                                 Lucio Apulo daunio

 
BIBLIOGRAFIA

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C.M.Martini, G.Zagrebelsky, La domanda di giustizia

G.Zagrebelsky, Il rifiuto dell’ingiustizia come fondamento minimo

H.Kelsen, Il problema della giustizia

J.Rawls, S.Maffettone, U.Santini, Un teoria della giustizia

L.Tundo, P.Antes, Etica e società di giustizia

N.Bobbio, giusnaturalismo e positivismo giuridico

P.Marrone, Un’introduzione alle teorie della giustizia

S.Veca, Lezioni sull’idea di giustizia; Giustizia e liberalismo politico