lunedì 8 agosto 2011


LA RELIGIONE CRISTIANA

              


           Il cristianesimo è la religione fondata essenzialmente sul Vangelo, su uno scritto preminentemente assertivo, finalizzato alla propaganda di un credo, il cui testo canonico è pervenuto in quattro differenti esemplari, che sono copie tradotte da altre copie, non esenti da errori e interpolazioni. Gli autori dei Vangeli narrano detti e fatti attribuiti all’ebreo Gesù, il Cristo divinizzato, e ai suoi discepoli. Si crede che sia un dio presso dio, che ha lasciato le celesti dimore per venire come uomo nel mondo a redimere gli uomini. Il complesso delle Sacre Scritture cristiane, Nuovo e Antico Testamento, è un insieme di libri canonici, che si crede siano stati redatti su divina ispirazione. Il Nuovo Testamento è collegato all’Antico per mezzo della figura di Giovanni Battista, il precursore di Cristo, che ha profetizzato l’avvento del Messia. Al patto (testamento) stretto da Jahvè con il popolo d’Israele e perfezionato (rettificato) in seguito dal Cristo Gesù, occorre aggiungere la successiva elaborazione teologica e dottrinaria della Chiesa, che si è valsa anche di un'artata esegesi dei testi biblici. La “traditio vivens” su cui si fonda la Chiesa, rende possibili gli aggiornamenti e le correzioni dottrinarie, in virtù dell’ispirazione che lo Spirito Santo elargisce agli eminenti gerarchi ecclesiastici. Applicando l’interpretazione allegorico-tipologica, la Chiesa ha preteso di prefigurare nelle profezie e nelle vicende dell’A.T. l’avvento del Messia e l’annuncio della lieta novella. Il procedimento consiste nel riunire in una corrispondenza tipologica le realtà storiche di due epoche diverse (per es. la figura di Davide nell’A.T. con quella di Cristo nel N.T.). I dogmi proclamati dalla Chiesa in virtù della divina ispirazione, sono articoli di fede, verità credute certe, aventi forza di sacra prescrizione. Si afferma, ad esempio, che Dio è uno e che rimane tale, pur essendo trino, cioè distinto in tre ipostasi. Si afferma che il Cristo Gesù è un dio che si è fatto uomo, senza rinunciare alla sua natura divina, ed è morto come uomo pur restando vivo come Dio. Si afferma che Gesù è nato da una vergine donna immacolata (concepita senza peccato originale), intensamente venerata come Madre di Dio (iperdulia). Si afferma che Maria ha concepito il figlio Gesù in virtù dello Spirito Santo (come decretato dai padri conciliari, dopo concitate diatribe) e che dopo averlo partorito, è rimasta sempre vergine. Si afferma che la Madonna è stata assunta in cielo e accolta nel regno di Dio con il titolo di Regina. Si afferma che durante il rito della messa, con il quale si rinnova simbolicamente il sacrificio di Cristo, le sostanze del pane (ostia) e del vino offerte a Dio si tramutano nel corpo e nel sangue di Cristo (c.d. transustanziazione).

Il mito cristologico è un’elaborazione politico-teologica, creata nel corso dei secoli da un clero dominante di una Chiesa che si afferma sovrapponendosi all’autorità di un impero in rovina e in degrado. L’etica umana, utilitaristica e naturalistica, fondata sulla solidarietà e centralità del valore e onore dell’uomo, è rimpiazzata dall’opposta etica, alienante e mistificante, dell’agape cristiana, del sacrificio, della dedizione, dell’abnegazione, dell’accettazione della sofferenza, della santificazione per amore e in obbedienza a Dio ed ai suoi sacri servi, deputati sulla terra ad agire in suo nome. L’ecumenismo cattolico maschera il latente imperialismo papale-clericale, l’egemonia di una Chiesa che tende a subordinare stati e fedi religiose al suo dominio spirituale, al potere coercitivo di un credo, fatto pretestuosamente derivare da un supposto ente soprannaturale, e finalizzato alla salvezza universale oltremondana degli uomini. La pretesa “cattolicità” (universalità) della Chiesa apostolica romana è in contraddizione con le sue verità indimostrabili e misteriose, perciò non accettabili ovunque. La religiosità cristiana è in funzione della mitizzazione di Gesù, un ebreo dissidente dall’ortodossia farisaica, predominante nella Palestina di quei tempi, della cui storica esistenza si dubita, come si dubita della sua rappresentazione teologica ad opera degli evangelisti.

Il desiderio d'immortalità, indotto nell’uomo primitivo dalla sconvolgente emozione della morte, ha portato gli esseri umani a immaginare un mondo irreale, a travalicare l’immanenza per agognare la trascendenza, a credere in una vita ultraterrena. La religione ebraica arriverà tardivamente al concetto di resurrezione, ancorché non condiviso da tutti.  La religione cristiana (come l’egiziana), sarà invece fondata soprattutto sulla credenza nell’immortalità, dopo la resurrezione dalla morte. Ne è prova il fatto che il primo uomo a risorgere dalla morte è stato il Cristo deificato (rappresentato con il simbolo della fenice, il mitico uccello che risorgeva dalle proprie ceneri). I cristiani sperano anche loro di resuscitare dalla morte per conseguire l’immortalità nel giorno del giudizio universale, quando per ognuno verrà il “redde rationem”. Durante la loro esistenza, essi si cibano del pane dell’eterna vita (l’ostia consacrata), concreta significazione del corpo di Cristo risorto, ambrosia e nettare per assurgere agli onori del celeste Eden. Per i “graeculos” era inconcepibile la resurrezione di un uomo dopo la morte. Paolo, l’apostolo delle “genti”, fu canzonato dagli Ateniesi, quando tenne il suo discorso nell’Areopago, dove tirò in ballo la risurrezione di Cristo (At 17,16-33). Anche il governatore Festo reagì al discorso di Paolo sul medesimo argomento (At 26, 23-24). A lui sembrò che Paolo delirasse, che si fosse bevuto il cervello per il troppo sapere circa i divini misteri, ascoltandolo farneticare riguardo ai morti che risuscitano.

La religione cristiana adora un uomo morto, che presuppone risorto e asceso alla maestà divina. Di lui testimonia, mussando notizie inverificabili, la natura divina. Lo ha eletto Figlio di Dio-Padre, ipostasi di un altro se stesso. Egli è il Cristo Gesù, il Messia atteso e promesso da Dio al suo popolo prediletto, immolato sull’ara del mondo al fine di riscattare l’umanità da una presunta colpa. Un terzo dio, lo Spirito Santo, è la terza ipostasi che procede da entrambi. L’annuncio della sua “buona novella” sul Regno di Dio è pervenuto tramite le testimonianze delle comunità cristiane, successivamente redatte in documenti, di cui solo alcuni (copie di copie) sono stati dichiarati canonici (i libri e le epistole che formano il N.T.). La pretesa divina “rivelazione”, in quanto non corroborata da valide prove, è inattendibile, giacché indimostrabile. Né può addursi come prova il fatto che molti sono quelli che credono nella divinità del Cristo Gesù. Né può considerarsi tale la testimonianza degli evangelisti o degli apostoli, perché le loro affermazioni, attestanti presunte verità rivelate da Dio, sotto le spoglie dell’uomo Gesù, sono prive di obiettivo storico riscontro. Priva di fondamento è la pretesa, sostenuta dalla Chiesa, secondo la quale gli avvenimenti, le testimonianze e le profezie riportate nella Bibbia sono frutto della divina ispirazione. Se talune cose possono apparire vere e giuste, non per questo tutto il resto deve essere vero e giusto. I Giudei condannarono la “buona novella” come dottrina sacrilega (dunque “cattiva”), giudicando il promotore come blasfemo mentecatto. Del resto, come dar credito a testimonianze inattendibili e contraddittorie, a dottrine misteriose ed empie, a parabole allusive e ambigue, a predizioni apocalittiche, a maledizioni e minacce, a inverosimili miracoli e prodigi, a impossibili risuscitazioni? Come dar credito a un dio che, pur di mettere alla prova la fedeltà d’Abramo, comandandogli l’assassinio dell’unico figlio, sospende l’osservanza del suo comandamento di non uccidere? A quello stesso dio che consente al suo popolo eletto (cfr. il libro di Giosuè) lo sterminio d’altri popoli per conquistare un pezzo di terra che ha loro promesso? A un dio che sospende le leggi della fisica (cfr. Gs 10, 12-14), ritardando il tramonto del sole, per consentire ai suoi protetti lo sterminio dei nemici? A un dio che impone a un suo fedele servo (cfr. Os 1, 2) di sposare una prostituta, per fare figli marchiati da infamia, pur di conseguire determinati scopi? A un dio che rende onore a quelli che lo onorano (cfr. 1 Sm 2, 30) e accorda la sua protezione a chi è ligio ai suoi comandamenti, ma disprezza, ingiuria e maledice quelli che disonorano lui e il suo clan di pastori nomadi? Appare dunque assurdo credere alla giustizia di un dio bellicoso, che parteggia per un popolo di predoni e non ha pietà per i suoi nemici, infliggendo loro malattie, tormenti e lapidazioni, condannandoli a subire razzie, massacri e stragi. Un dio tiranno, sanguinario, che si macchia di delittuose atrocità, si rivela peggiore degli uomini. La sua saggezza è moralmente ripugnante.

I libri dell’A.T., in vero, connotano l’antica cultura letteraria di un popolo, in seguito reinterpretata dalla leadership rabbinica in senso religioso-ideologico. Quanto al dio cristiano, concepito uno e trino, siamo in balìa di un vero e proprio rebus teologico. Egli è sovrano autoritario di un fantomatico regno ultraterreno e despota nel mondo reale, dove impera per mezzo del suo vicario sul colle Vaticano. Governa il suo regno come un monarca assoluto e implacabile, assistito in cielo da una potente corte angelica, che fa quadrato attorno al suo trono glorioso, prona ad ogni suo comando. Lo coadiuvano il Cristo Gesù, lo Spirito Santo, la Regina Madre e i dodici Apostoli, giudici implacabili delle tribù d’Israele. Sulla terra il suo vicario è assistito dalla consorteria clericale, ed è spalleggiato dagli amorosi drudi della fede cristiana, guidati da un codazzo d’intellettuali pseudo-laici, devoti tutori degli inganni clericali nella società civile. L’arengo degli Eroi della Fede, predestinati sudditi del suo dispotico regno, lo adora in permanenza in cielo e in terra per i secoli dei secoli. Amen? Amen un corno, stante la noiosa prospettiva che ci attende lassù, vale a dire o l’eterna beatitudine contemplativa della gloriosa trinitaria deità cristiana o l’eterno tormento nelle fiamme inestinguibili dell’inferno. Non da meno è il pericolo perenne che imperversa quaggiù, ossia il fanatismo fideista della casta sacerdotale e dei suoi accoliti, che la storia documenta come missionari infaticabili e fautori ostinati di conversioni coatte, indottrinamenti sistematici, terrorismi psicologici, plagi e arroganze dogmatiche. Non c’è di che rallegrarsi dell’una e dell’altra prospettiva, lassù e quaggiù.

La pienezza di Dio contrasta con la limitatezza dell’essere umano. Ciò che proviene da lui, perfettissimo, è sempre inferiore in tutto, manchevole in qualcosa. Da un principio generale, astratto e indimostrabile, la teologia deduce l’esistente. Ne consegue che, se ciò che è reale è vero, anche la causa prima, origine della realtà, deve essere vera e reale. La teologia non ha bisogno di sperimentare, di controllare e confermare la validità delle ipotesi o di confutarle, se più non reggono ai successivi controlli. Non si dà premura di scoprire le leggi statistiche che determinano gli avvenimenti naturali, di formulare una teoria della probabilità, come fa la scienza, che non ha la pretesa di affermare verità assolute. La scienza è empirica, sperimentale, critica. Impara dai propri errori. Indaga sui fatti, dichiarandoli veri o falsi, fino a prova contraria. La teologia, invece, enuncia giudizi soggettivi di valore e perviene a soluzioni che sono già implicite nelle premesse (cioè sono tautologie). Le sue verità, indimostrabili, sono assolute. Il suo pensiero è “forte”, in contrasto con il relativismo, con il pensiero “debole”. La pretesa verità rivelata da Dio alla Chiesa è creduta assoluta, immutabile, eterna, indiscutibile, dogmatica. La scienza, invece, è obiettiva e si avvale dell’autonomia della ragione, da cui desume una provvisoria verità, che sottopone a successivi controlli di validità. L’esaltazione della fede nella credenza di una verità dogmatica assieme al sonno della ragione possono generare fanatismi e intolleranze. La religione cristiana suggestiona e avvince la massa dei credenti mediante l’illusione di un essere soprannaturale, giudice implacabile, che ci attende al varco dello Stige, dopo il pagamento dell’obolo a Caronte. L’animo del credente è contagiato fin dall’infanzia dal virus ideologico del catechismo cristiano (cfr. Codice di diritto canonico, parte II, sez. I, cap. I). Il cristiano, creatura di Dio, appartiene totalmente alla Chiesa, che serve con fedeltà. Ribellarsi alla sua autorità equivale a offendere Dio e a precludersi la salvezza (extra ecclesiam nulla salus). Depositaria sulla terra della divina verità, la Chiesa, in quanto corpo mistico di Cristo, si configura come potenza sacerdotale, legittimata alla gestione del sacro e al dominio sulle coscienze. Se tutto il creato, compreso l’uomo, appartiene a Dio, ne consegue che ogni potestà proviene da lui (omnis potestas a Deo), inclusa quella della Chiesa (ovviamente, ritenuta superiore alla potestà dello Stato). Vertice della gerarchia clericale è il papa (summus sacerdos), eletto vicario di un dio tetro, massima autorità teatrante di una spettacolare superstizione istituzionalizzata, divo in moto perpetuo e superstar di fans raccattati tra puri di spirito trasognanti. Il pontefice, sedicente vicario di Dio, insignito di poteri assoluti e prerogative onorifiche, capo indiscusso della gerarchia clericale, impera dall’alto della presunta cattedra di Pietro. Titolare di un carisma superiore agli altri vescovi (per diritto umano, non divino), svolge la funzione di guardiano infallibile della fede dogmatica cattolica romana, nel timore che possa venir meno l’attaccamento perenne dei fedeli alla verità di Cristo ed alla sua promessa (cfr. Mt 16, 18: verosimilmente una pericope spuria, aggiunta in tempi successivi). Di questo prete la storia documenta un’istituzione immemore dell’umiltà e povertà cristiana, dell’esortazione alla rinuncia della ricchezza per salvare l’anima (Lc 18, 18-30), dell’utopia fraterna ed egualitaria tanto decantata dall’uomo-dio Gesù. Il papa promulga le sue leggi avallandole con l’autorità divina, di cui pretende d’esserne l’unico infallibile interprete. Il suo magistero in materia di fede e di morale è inappellabile e condiziona non solo la vita religiosa dei fedeli, ma anche quella civile dei laici. Il magistero della Chiesa cattolica ha prevaricato quello di Cristo (cfr. Mt 23, 8-10). Le sacre prescrizioni, in quanto credute impartite da Dio, tramite l’ispirazione che infonde alla sua Chiesa, sono considerate superiori a qualsiasi legge profana. Ne consegue che uno Stato, dove predomina la tradizione religiosa cattolica romana, acriticamente accettata, non può sottrarsi alle continue pressioni del potere clericale, che induce ad accogliere nell’ordinamento giuridico, sotto la parvenza di norme positive, prescrizioni clericali valide “erga omnes”. I diritti dei laici alla libertà di pensiero, di parola, di coscienza, sono esecrati come deliri. Si recita contro i nemici di Dio la solita litania: “Libera nos Domine”. L’esclusivismo del cristianesimo è antidemocratico, antimodernista, conservatore, illiberale. Inneggia alla supremazia spirituale, ma vuole subdolamente anche quella politica (plenitudo potestatis). Difende i suoi bimillenari privilegi, egemonizzando ampi spazi nella società civile. Spalleggia i partiti che riflettono concezioni ideologiche cristiane. Espande nel mondo la prosopopea della parola attribuita all’uomo di Nazareth, presunto Cristo e Dio, mediante il proselitismo missionario, supportato con potenti mezzi finanziari e con l’ausilio di strumenti di comunicazione di massa. La missione universalistica della Chiesa romana, guidata da un’ideologia assolutista e totalitaria, si oppone al pluralismo religioso, non più sopprimendolo con la croce e la spada, ma circuendolo con il dialogo interculturale, sotteso a incanalare pluralismo e politeismo verso la concezione religiosa monoteistica cristiana. La Chiesa, mediante la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (ex Sant’Uffizio), strumento di manipolazione delle coscienze in sostituzione della Santa Inquisizione, controlla l’ortodossia dei fedeli tenendoli in soggezione. Essa fa concorrenza allo Stato con l’attivismo del volontariato e con l’opera di organismi pseudo-laici per l’assistenza, l’educazione, la cultura. L’invadenza della Chiesa nella società civile soffoca la laicità, costringendo lo Stato a scendere a patti, mediante leggi concordatarie. Non sorprende l’avvilente ossequio alla Chiesa regale da parte dei poteri laici istituzionali. La legittimazione del rappresentante politico è in funzione del consenso popolare, suggestionato dalla sacralità della religione dominante e dal buonismo di un’agiata casta sacerdotale, che gode prestigio di guida morale e intellettuale all’ombra vigile della madre Chiesa, garante del bene della fede (bonum fidei).

               
Lucio Apulo Daunio


domenica 7 agosto 2011


LA POTENZA DEL MALE

              

           Satana, l’avversario di Dio, pur essendo consapevole della potenza suprema del suo creatore, si vuole suo acerrimo nemico. Solo un folle può ribellarsi all’Onnipotente. Il diavolo rappresenta la scissione del Male dal sommo Bene, della Falsità dalla Verità, della Nullità dalla Totalità, del Non-Essere dall’Essere, del negativo dal positivo. Può Dio generare un anti-Dio? Se Dio non può concepire il male né volerlo, allora da dove proviene il male? Delle due l’una: o esso è indipendente da Dio (dualismo), o Dio e il suo opposto sono espressioni incoerenti, nonsensi. Se Egli è l’Essere Assoluto, non può contenere in sé principi antagonistici, che invece caratterizzano il mondo fenomenico. La dualistica concezione cristiana, caratterizzata dall’antagonismo tra Dio e Satana, in verità, è servita a giustificare il mito della salvezza e dell’avvento del Redentore. Secondo l’esegesi giudaico-cristiana, quando la serpe satanica, espressione del Male, simbolo dell’insidia e dell’inganno, apparve a Eva, consenziente il padreterno, essa approfittò dell’ingenuità della donna e la indusse alla disobbedienza verso il Creatore. In verità, Eva, vivendo in stato d’innocenza, come avrebbe potuto essere consapevole di ciò che è bene e di ciò che è male? Dunque, se non era consapevole, non poteva essere responsabile del male conseguente alla disobbedienza. Viveva spensierata, accanto ad Adamo, nel giardino delle delizie in Eden, nel mezzo del quale c’erano due alberi, i cui frutti erano apportatori, l’uno, della conoscenza del bene e del male, l’altro, della vita eterna (avevano quindi delle proprietà indipendenti dalla volontà di Dio?). Il perfido Satana, perciò, poté facilmente indurla in tentazione, solleticando la sua curiosità, insinuandole l’acquisizione di una conoscenza uguale al Creatore. Bastava che cogliesse e mangiasse il frutto dell’albero proibito per essere simile a Dio. Eva abboccò, non avendo la consapevolezza del rischio che correva, disubbidendo all’ordine di Dio. Peccò e indusse a peccare (a disobbedire) anche Adamo. I due improvvidi disubbidienti, persa l’innocenza, si vergognarono della loro nudità (il che è del tutto inverosimile). Dio, anziché perdonarli, li punì, scacciandoli dalle beatitudini edeniche, dopo averli rivestiti di tuniche, condannandoli a subire le fatiche della vita mortale. A guardia del giardino in Eden mise la schiera dei cherubini e la fiamma della spada folgorante. Egli temeva che le sue creature, dopo aver acquisito la conoscenza del bene e del male, mangiassero anche il frutto dell’albero della vita, vivendo così in eterno. Ciò che non si comprende è perché il dio giudaico-cristiano abbia voluto piantare in Eden due alberi magici, continuando a proteggerli, anziché distruggerli, dopo la cacciata dei due rei. Il biblico dio, onnipotente e geloso delle sue prerogative, condannò l’essere umano a guadagnarsi con il sudore della fronte la propria esistenza, penosa e mortale (facendo ricadere sui figli le colpe dei padri). Dall’errore dei nostri primi avi, dunque, il cristianesimo fa discendere il mutamento in peggio della condizione umana (caduta dalla mitica età dell’oro). Tuttavia, in virtù del peccato originale, tutta l’umanità può ora conoscere e distinguere il bene dal male, la verità dalla falsità, il volere di Dio (l’imperatività morale delle norme etiche) dalle tentazioni di Satana (l’imperfezione e la debolezza della natura umana). L’uomo, però, anche se cosciente della responsabilità delle proprie azioni, continua a compiere il male, a causa della sua fragile natura. Forse il bene e il male sono concetti relativi, frutto di convenzioni sociali, stabilite dagli ordinamenti umani, aventi differenti valori secondo le epoche e i luoghi in cui gli uomini vivono.

I nostri primi avi, dunque, non furono responsabili dei loro atti commessi in stato d’innocenza durante la permanenza in Eden, non avendo né conoscenza né esperienza per distinguere il bene dal male; perciò non furono colpevoli di disobbedienza, in virtù della quale, tuttavia, acquisirono la conoscenza dell’eticità. La specie umana, inoltre, non avrebbe conosciuto la morte, se avesse potuto mangiare anche i frutti dell’altro albero magico, datrice d’immortalità. Dio, invece, appare il vero responsabile delle disgrazie umane, sia per aver consentito a Satana, suo perfido nemico, di tentare Eva, sia perché, avendo conoscenza dell’esistenza del male, non ha fatto tutto il possibile per impedire che ne fosse contaminata l’umanità. Se il diavolo è l’assoluto mentitore, che dice sempre il falso (Gv 8,44), ne consegue, paradossalmente, che ogni sua menzogna è vera. Egli, infatti, non ha ingannato Eva; Dio, invece, ha ingannato l’uomo, lasciandolo inerme, in balia del potente Tentatore. Deluso dalle sue deboli creature, Dio ha placato la sua immensa ira castigandole e perseguitandole con lo Spirito del Male, cui consente di operare ogni tipo di sventura a danno degli umani. Se egli non avesse creato il Demonio, nessun uomo avrebbe potuto peccare, parola del geniale Origene, teologo e scrittore ecclesiastico vissuto a cavallo del II-III secolo.

Dio, quantunque concepito onnipotente, non può contraddirsi. Benché tutto a lui sia possibile fare, non può essere irrazionale. Dio, infatti, poiché è pensato come quintessenza della nostra razionalità, non può essere illogico, passionale, capriccioso, sentimentale, volubile. Non può ingannare né volere la turpitudine. Dio, in quanto pensato assolutamente buono, non può essere malvagio né irascibile. Un Dio contraddittorio non può essere accettato. Perché dunque esiste il male nel mondo? Perché il male è personificato in un principio assoluto, sovrumano, negativo? Se riconosciamo il male soggettivo in comportamenti, azioni, atteggiamenti, pensieri non conformi ai canoni di ciò che stimiamo bene, dobbiamo convenire che esso è un modo d’essere, indipendente da una presunta colpa originale. Quanto al male oggettivo, esso dipende dalle forze naturali. L’uomo però può opporsi alla realtà del male soggettivo, educandosi ai principi del bene, e può prevenire o contrastare il male oggettivo in base al progresso delle conoscenze. Irreale, invece, è la personificazione del male in un essere sovrumano, raffigurato nel cristianesimo da Satana, il diavolo opposto a Dio, personificazione altrettanto irreale del sommo bene. Secondo la dottrina cristiana, le forze del male non prevarranno; tuttavia, la vittoria sul male si avrà definitivamente alla fine dei tempi, ossia, quando ormai non vi sarà più ragione della sua esistenza. Satana dunque, per quanto ciurmatore, rappresenta sulla scena del mondo una rilevante funzione (finzione): separare l’uomo da Dio, insidiando l’uno in opposizione all’altro. La sua immane, perdurante fatica, è utile per la gloria degli eletti cristiani, ma sarà esente da ricompense per lui, necessario capro espiatorio per la salvezza delle colpe altrui. Satana e tutti i suoi accoliti hanno potere solamente nel regno dell’eterno supplizio, dove un fuoco inestinguibile consuma in perpetua agonia spiriti pravi. Speriamo quanto prima che la Chiesa, su divina ispirazione, santifichi Belzebù, dio delle mosche, e con lui anche lo sciame, indiavolato e fastidioso, della sua numerosa brigata, a causa dei servizi resi a Dio per l’altrui gloria.

Il cristianesimo fa derivare la morte fisica dall’imperfezione morale dell’uomo, conseguenza di una colpa originale. Da questa colpa deriverebbe altresì la schiavitù interiore dell’uomo nei confronti del male. La volontà, corrotta dal peccato, non può da sé liberarsi dalla schiavitù. Solo mediante l’intervento divino, operato dalla grazia, l’uomo può liberarsi dal male e rigenerarsi nello spirito. Il cristiano, mediante la fede, rinunce inumane e opere di bene (non per altruismo o per nobiltà d’animo, ma per ottenere in cambio qualcos’altro), spera di riguadagnare nell’aldilà la stima di Dio e ottenere la vita immortale. Egli ha tramutato l’antica concezione dell’eterno ritorno, il tempo ciclico che annulla la definitività della morte, con la credenza nella resurrezione e nella vita eterna nell’altro mondo. Solo negando l’arbitrio della ragione di Dio, che sottende l’ideologia assolutizzata e conservatrice della Chiesa, l’uomo innalza se stesso, imponendosi valori aconfessionali in base al principio d’autodeterminazione. Solo rinunciando ad essere oggetto di un dio, l’uomo riacquista la sua soggettività e la totale umanità. Solo rifiutando la religiosità legata ad astratte divinità e criticando le pretese di chi spaccia per divine rivelazioni false verità, dogmatici assunti e irreali regni ultraterreni, l’uomo riscatta la sua ragione e la libertà d’indagine sul mondo, non per conseguire verità assolute, ma per scoprire utili conoscenze reali. La ricerca scientifica non pretende di spiegare tutto e lascia sempre aperta un’alternativa alle sue ipotesi. Occorre diffidare di chi ha la pretesa d’elaborare un sapere universale, sempre valido e mai smentibile, giustificabile sempre con nuove congetture e arbitrarie conclusioni. L’uomo deve rieducarsi ad assumere le proprie decisioni in piena autonomia di giudizio, regolandosi con l’autorevolezza della propria intelligenza e con l’esperienza acquisita dal patrimonio collettivo dell’umanità, anziché subire l’autorità di un sedicente vicario di Dio sulla Terra. Occorre contrastare la pretenziosità melliflua di chi predica l’attuazione di una società perfetta, di chi sogna ideali romantici di perfezione assoluta, d’irrealizzabili utopie. Occorre concretare il bene del prossimo, impegnandosi ad eliminare, per quanto possibile, la povertà, l’ignoranza, le miserie e i mali che affliggono il mondo. Occorre indirizzare la politica ad attivarsi per disinnescare la bomba demografica, sostenere l’equa distribuzione delle scarse risorse del pianeta, contrastare lo scempio ecologico e lo spreco del consumismo (indotti dall’insostenibile, irrefrenabile sviluppo del sistema di produzione capitalistico). Occorre prevenire la devastazione di una guerra atomica mediante l’autorevolezza di un organismo internazionale. Solo una fattiva, graduale e perseverante ricerca di una pace universale e di valori condivisi, che uniscono i vari popoli secondo ragione e scienza, si potrà favorire la crescita di una civile convivenza dell’umanità nel reciproco rispetto delle diversità culturali di ciascun popolo vivente nell’ambito del proprio territorio nazionale. Occorre altresì laicizzare la formazione educativa e culturale dei giovani, relegando la religiosità all’ambito del privato e delegittimando l’atavico retaggio di una chiesa missionaria, istituzionalizzata. L’insieme dei pensieri interagenti con le azioni degli uomini, determina la coscienza collettiva della società in un determinato periodo storico e ne caratterizza il grado di civiltà. Le spirituali esigenze dell’uomo, in quanto realtà pensante e cosciente, non sono prerogativa esclusiva della religiosità di una fede. L’intelletto umano, educato al ragionamento critico e libero, al metodo della ricerca scientifica, all’acquisizione di conoscenze con riserva di dubbio, è la fonte da cui attingere valori, estetismi e principi etici avulsi da imposizioni religiose assolutistiche. Un sistema formativo aconfessionale, che educa l’intelligenza al senso critico, a dubitare delle affermazioni apodittiche, delle verità dogmatiche fondate su certezze assolute di una fede o di una “auctoritas”, è un antidoto contro i veleni instillati nella mente da vicari esecutori di presunti dettami divini, ossia d’illusorie speranze che inducono a credere in false convinzioni, indimostrabili sul piano della logica scientifica.

Il regno di Dio non è visibile. Ciò che non si può vedere neanche può descriversi, perciò ogni credente se lo immagina dipingendolo con il pennello della fantasia. Se ogni bene è lassù, il male è al suo estremo opposto, quaggiù. Se Dio è positivo, il male è negativo. Il cristiano deve guadagnarsi l’aldilà, vincendo il male che intralcia il suo percorso nell’aldiquà. Il male è il castigo di Dio per l’offesa fattagli dall’uomo. La macchia originale dei nostri primi avi (una presunta e discutibile disubbidienza a Dio) si ripercuote su tutta la discendenza, trasmettendosi di generazione in generazione: il concetto divino della colpa non è individuale ma collettivo, e costituisce un impedimento al compimento del bene. Tutta l’umanità deve espiare e purificarsi per ristabilire la giustizia e riguadagnare la beatitudine celeste. La collera di Dio si placa con la preghiera e la penitenza. Il Cristo Gesù, capro espiatorio votato al sacrificio, si è caricato di tutte le colpe dell’umanità per redimerla dall’ira del Padre. In verità, l’umanità non deve essere riscattata da alcuna colpa atavica, a nulla rilevando il sacrificio di un supposto dio fattosi uomo. Non c’è nessun marchio indelebile nella coscienza degli uomini, nella loro libera volontà, che li induce a compiere il male piuttosto che il bene. Il valore dell’uomo non deriva dall’essere stato creato ad immagine e somiglianza di un ente divino, ma dalla sua umanità, intelligenza e responsabilità. L’uomo può far valere la propria superiorità, migliorando le sue umane caratteristiche. La verità prodotta dall’uomo è immanente alla sua ragione e limitata dalle sue conoscenze effettive. La verità desunta da un atto di fede non può che portare ad una conoscenza illusoria. Dio, simbolo della totalità, è la sintesi di una dicotomia: del tutto e del nulla, del sommo bene e dell’infimo male, della giustizia e del peccato, del vero e del falso, del positivo e del negativo, dell’unione e della scissione. Il suo opposto, l’avversario, è il diavolo (il demonio, calunniatore, privo di qualsiasi valore, retaggio di antiche divinità degradate al rango di spiriti malvagi). Lo spirito maligno, personificato da Satana, potenza infernale, tenta l’uomo e persino Cristo. Dio, in verità, è una contraddizione assoluta. E’ un Tutto che genera da sé un altro se stesso (il Figlio) e da entrambi procede un terzo se stesso (lo Spirito Santo). A queste tre ipostasi si contrappone Satana, spirito maligno, nemico di Dio e dell’uomo. Dio si fa uomo ingravidando una donna, che è, nello stesso tempo, madre e sposa di lui. Da Ente immortale diventa mortale, debole come un uomo, destinato alla morte.  Risorge dal suo cadavere (come la mitica fenice) con sembianze umane e ascende al cielo per raggiungere il suo trono celeste. Predica una sapienza comprensibile solo dai semplici intronati dalla fede. Si rivela al suo popolo prediletto, che da secoli attende il Messia, ma riesce solo a farsi conoscere come seminatore di scandali e deviazioni dottrinarie, che porteranno alla scissione dei cristiani dagli ebrei. Gli stessi cristiani si pesteranno fra loro per far prevalere le loro ambizioni e pesteranno di santa ragione chi non si adeguerà all’ortodossia dominante. Se Dio è responsabile del male e dell’ingiustizia, non può essere somma giustizia e farsi arbitro di ciò che è bene e di ciò che è male. Se il male è nel mondo e questo dipende dalla creazione di Dio, ne consegue che il male era prevedibile dall’Onnisciente prima della creazione, perciò egli n’è responsabile. Se Dio ha voluto la sofferenza, non può essere pietoso e compassionevole, ma sadico. Il dio dei cristiani non è dissimile dal dio degli ebrei, in luttuose guerre, tremendo. E’ un dio crudele, capace di far del male se le azioni umane non corrispondono alla sua idea di giustizia. Egli maschera la sua malvagità sotto il manto dell’amore e della giustizia. Questo dio giudaico-cristiano, uno e trino, ricolmo d’amore ad uso esclusivo di un popolo ignobilmente peccaminoso, ha addebitato ingiustamente a due fragili esseri umani un assurdo peccato di disubbidienza, perseguitando nei figli la colpa presunta dei padri. Ha inviato il Figlio al sacrificio della croce per redimere l’umanità da una colpa infame che lui stesso ha determinato. L’ambiguità di questo dio si svela moralmente inferiore alle sue creature. Egli, in vero, risiede con lo spirito sul colle Vaticano, dall’alto del quale vede e provvede sulle cose del mondo ad uso esclusivo del dominio di una Chiesa totalitaria, fonte di menzogne legittimate, che si giustifica con il mistero della fede e che si difende dalle critiche incisive con l’usbergo della legge civile e penale dello Stato.

            

Lucio Apulo Daunio


L’EDUCAZIONE RELIGIOSA



Il sistema educativo religioso famigliare, in concomitanza con i professionisti clericali della catechesi, si dà cura nel formare in modo acritico la mente ancor vergine di pudibonde educande e d’ingenui giovinetti, durante la prima infanzia e l’adolescenza, quando più facilmente può essere accolta e radicarsi nella mente l’immagine della divinità. La religione cristiana, ereditata dalla famiglia e dal costume sociale, si ritiene degna di fede, perché è testimoniata dall’auctoritas della Chiesa, istituzione legittimata e sacrosanta. L’educazione religiosa, inculcata in tenera età (cfr. Dt 6, 4-9), si fissa nella coscienza come un marchio indelebile che condiziona l’agire umano, spesso degenerando in fanatismo e intolleranza. Il sistema educativo, egemonizzato dal cristianesimo, determina, tramite l’influenza della famiglia d’appartenenza dell’educando, la supina accettazione della credenza religiosa. La formazione acritica suscita nell'animo atteggiamenti di compunzione e devozione, ma anche di timore reverenziale verso i simulacri del sacro ed i suoi rappresentanti, gerarchizzati e istituzionalizzati nell’ecclesia universale. Il sacro, artatamente circonfuso di mistero, incute inquietudine. La Chiesa cattolica romana, in quanto istituzione religiosa dogmatica della “christianitas”, depositaria dell’unica pretesa Verità, della gnosi divina, esercita un assoluto potere sulle coscienze, soffocando il libero pensiero, mortificando la neutralità dello Stato laico. L’invenzione del Dio, uno e trino, fa sì che ogni storia che lo riguardi sia ritenuta fede-degna, purché riferibile, direttamente o indirettamente, alla “auctoritas” di una sacra scrittura, che ne attesta tautologicamente l’esistenza soprannaturale. Suo sedicente rappresentante e vicario è il “pontifex maior”, eletto per cooptazione dall'alto clero di una sacra istituzione, legittimata a propagandare (evangelizzare) credenze illusorie con teatralizzazioni rituali, a sostegno del suo dominio mondano e di quello sovra-terreno dell’uni-trina deità. In realtà, qualunque idea, che non possa essere dimostrata vera, o è falsa o è probabile. L’ipotesi relativa all'esistenza di un essere divino, giacché assolutamente inverificabile, appare del tutto improbabile, e come tale è in odore di falsità. Ciò che di lui si racconta è pura congettura, derivante da speculazioni teologiche, arzigogolate da raffigurazioni immaginifiche, che si vogliono spacciare per Verità. La divinità è dunque un concetto ingannevole, giacché ipotizza inconsistenti presenze spirituali, che trascendono il reale. L’esigenza di credere nell’esistenza di un misterioso divino artefice, creatore dell’universo (supposto come sua concreta teofania), riflette i limiti della natura umana riguardo alla conoscenza del mondo. La finitezza umana non consente di attingere verità e certezze assolute. La fede in Dio, perciò, si giustifica come antidoto contro l’insicurezza derivante dalla consapevolezza dei nostri limiti. L’aspirazione a credere in entità soprannaturali, da cui attingere verità, che sopperiscono al desiderio di conoscere l’ignoto, ci rassicura nel cammino della nostra labile esistenza, donandoci la speranza di una vita incorruttibile oltre la morte. Il sovrano dell’ecclesia universale, sedicente Santo Padre, che si arroga d’essere vicario di un dio incarnatosi nel mitico pastore d’uomini Gesù, l’atteso re messia dei giudei, archetipo del politico, pretende di poter governare in suo nome le coscienze degli uomini. Lo scopo preminente delle istituzioni religiose è quello di perpetuare la loro ragion d’essere, invadendo prepotentemente gli spazi pubblici e condizionando pesantemente la coscienza dei credenti (plagio), soggiogandola al loro dominio. I consacrati gerarchi della cattolicità, non essendo immuni dai vizi dei non consacrati, si presentano al mondo anche nel degrado della corruzione e dell’avidità mondana di beni e poteri. Come una pianta si riconosce dai frutti, così la storia del cristianesimo documenta ricorrenti risse e frequenti scismi, orrendi e abominevoli delitti, spettacoli ripugnanti di criminalità clericale e corruzione politica. Il ricco e scandaloso impero clericale, camuffato dall'impostura della sacralità e dall'ostentata carità, non ha attuato il Regno di Dio, bensì quello mondano, non immune da nequizie e falsità. La chiave dell’apostolo Pietro, che aprirebbe le porte del Paradiso, è servita per aprire i depositi della banca vaticana, foraggiata non solo dall'obolo generoso dei fedeli, ma soprattutto da speculatori finanziari. La croce di Cristo è storicamente degenerata nella psicosi ossessiva delle guerre religiose, che hanno insanguinato l’Europa per secoli. La storia testimonia, tra l’altro, di un papa plaudente il massacro degli Ugonotti (protestanti calvinisti) nell'infausta e cruenta notte di san Bartolomeo. La cattolicissima pseudo-santa istituzione clericale, retaggio di un’epoca di superstizioni, governa una Chiesa gerarchizzata, al vertice della quale un monarca, dichiaratosi infallibile, impera sulla coscienza dei fedeli, propalando una fede delirante, giacché valorizza il culto del dolore, dell’abnegazione e del sacrificio, al fine del raggiungimento d’inumane mete spirituali. Egli, ligio al suo Signore ultraterreno, da cui presume di ricevere l’ispirazione per redigere dogmi dottrinari, esorta i fedeli alla lotta contro il peccato, anziché contro la sofferenza fisica e l’infelicità. Il fatalismo del cristianesimo giustifica nella misteriosa volontà di Dio l’accadimento di sventure che si abbattono sul genere umano, su cui graverebbe il peso del peccato originale. Le disgrazie, cui l’implacabile divinità cristiana sottoporrebbe l’umana gente, sono considerate prove per saggiare la nostra fede e l’aspirazione a meritarci il bene dell’aldilà. Il male, che alligna e perseguita la specie umana, è concepito come pena da scontare per l’affronto a Dio, causato dall'offesa arrecatagli dai nostri primi avi. Geloso dei suoi paradisiaci privilegi, egli avrebbe relegato le sue disobbedienti creature a soffrire i malanni della vita sulla terra. Ciò appare inammissibile e assurdo, sia perché Dio, concepito come essere perfettissimo, immune dal male, non si curi di sopprimerlo, sia perché si serva del male per redimere l’uomo, castigandolo.

La religione cristiana, sorretta dalle ambizioni di una cultura metafisica e teologica di stampo medievale, ostile ad accogliere i progressi della ricerca scientifica, persiste a spiegare la complessità del mondo fenomenico con il ricorso a un Ente supremo, a una supposta causa prima, la cui esistenza, indimostrabile, è priva di consistenza oggettiva. Le asserzioni del cristianesimo, infatti, in quanto non sperimentabili, non possono essere né verificate né falsificate. L’ideologia cristiana, essendo fallace, è socialmente dannosa, giacché assolutizza concetti che conducono fuori dalla realtà effettiva. Essa è fonte di sciagure, poiché genera intolleranza nei folli invasati visionari di Dio, rapiti da estatici furori del divino amore. Il dogmatismo, sotto qualunque forma si presenta (religiosa, ideologica, politica), in quanto prospetta principi assoluti (absolutus = sciolto da qualsiasi contingenza e dai vincoli della critica), genera intolleranza. La piena rivalutazione dell’umanità, del suo spirito di tolleranza, del suo senso critico, della sua indomita natura, non più inibita da una moralità cristallizzata nei canoni ecclesiastici, potrà essere un efficace antidoto contro l’avvelenamento causato dall'atavico retaggio della religione cristiana e da quello delle altre fedi religiose, fondate sulla falsa idea della divinità, che stravolge il senso della realtà. La mistica fede totalitaria della Chiesa cattolica romana mortifica la ragione, asservendola all'arbitrio metafisico di una delirante teologia. Il vino, che si produce con l’uva della vigna di Dio, dà un’ebbrezza effimera, l’illusione dell’improbabile esistenza di un essere trascendente. Sarebbe preferibile cercare in noi stessi, nella concretezza della nostra tormentosa esistenza, consapevoli dei limiti dell’umana natura e della precaria felicità, la ragion d’essere della vita nel mondo. La nobiltà dei sentimenti e l’elevatezza dell’intelletto non sono prerogativa di un’educazione religiosa, né tanto meno di un clero circoncinto da un’aureola di sacralità. Il futuro dell’umanità non giace sulle ginocchia di un dio, perché dipende dall'intelligenza e dall'agire responsabile dell’uomo, dalla sua capacità di districarsi dalle pastoie al libero pensiero, poste dalla protervia dell’oscurantismo clericale. Il sapere, acquisito un passo dopo l’altro lungo l’erta strada della conoscenza, è un prodotto del dubbio, non della verità assoluta, conclamata da una fede dogmatica, atavica, esclusiva, focolaio d’intolleranze e malesseri sociali. Il vero paradiso dell’uomo è nella sua mente, nell'intelligente capacità di godere i prodotti culturali e scientifici finalizzati al progresso e al benessere dell’umanità. La religione cattolica, nonostante il fervore missionario, non potrà mai diventare universale, data l’irrazionalità (alla fede manca l’esercizio critico della ragione), la non sperimentabilità e la non falsificabilità di ciò che teorizza come verità unica e assoluta, rivelata da un essere trascendente, da cui deriverebbero norme di vita di diritto divino, superiori alle norme civili. Essa non potrà mai convincere chi, educato al senso critico e al metodo logico-scientifico, rifiuta di credere a supposizioni teologiche, che non potranno mai essere oggetto né di verifica né di confutazione. Oltre i confini della ragione, regna l’onnipotenza assoluta di Dio, incredibile invenzione sorta dall'immaginazione di menti aduse alle speculazioni metafisiche.


Lucio Apulo Daunio



IL VERO E IL FALSO



I lumi dell’umana ragione, per quanto siano fievoli, ci rendono consapevoli dell’incommensurabile distanza che ci separa dal mistero indecifrabile di un Dio imperscrutabile. L’umana razionalità ci permette di distinguere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, il bene dal male. La verità, però, ha una doppia natura: l’una, è quella intesa come fiducia (o probabilità o possibilità) in ciò che assumo per vero, rappresentandolo nella mente indipendentemente dall’esperienza; l’altra, è quella oggettiva, intesa come svelamento (o accertamento o rappresentazione) di una realtà in base all’esperienza, all’osservazione, al ragionamento. La conoscenza umana del mondo e della realtà storica è limitata e fallibile a causa della limitatezza e finitezza della nostra natura. La conoscenza religioso-teologica è, all'opposto, assoluta e infallibile, in quanto presume di conoscere verità rivelate da presupposti enti divini. Nel cristianesimo, è il Cristo Gesù, Verbo di Dio, sottomesso alla volontà del Padre (come Zeus, che sottostava all’ineludibile volontà del Fatum), che dona i lumi dello Spirito Santo ai suoi seguaci sulla terra. La divinità, in vero, è soltanto una nostra aspirazione all’idealità, un prodotto della nostra immaginifica mente, che ne costruisce l’essenza mediante costruzioni ipotetiche. Il nulla è ciò che esisterebbe realmente, se non esistesse concretamente qualcosa. Le assolute qualità di Dio riflettono l’aspirazione dell’uomo a essere ciò che non è. Il mistero cristiano dell’incarnazione di un dio trino, che si scinde nel Figlio per farsi uomo (umanizzare l’ente divino è una tipica concezione antropomorfica), è il rovescio della condizione umana, che scopre in sé, tramite la fede, il senso della divinità. L’ebreo Gesù, il Cristo, osannato dai suoi epigoni, divinizza se stesso fino a immolare la propria esistenza per salvare l’umanità. Incarnandosi per il tramite di una vergine immacolata, aliena la propria divinità in un altro se stesso, sacrificando l’amore di sé per l’altrui bene. Egli soffre per la condizione dell’uomo, sua creatura.

L’autoritaria ed egocentrica religione cristiana, nella sua visione ideologica, assolutizza una supposta realtà trascendente. Essa concepisce il mondo al centro dell’Universo (geocentrismo) e Dio quale creatore di un tutto non suscettibile di variazione né d’evoluzione (creazionismo fissista delle specie viventi). Presume che l’uomo, e il pianeta su cui vive, sia il fine ultimo della creazione, il centro dell’universo, creato da Dio in modo definitivo e statico. Crede, inoltre, che Dio sia il fine ultimo dell’uomo. La realtà, invece, non ha una propria finalità, poiché appare determinata dal caso. L’amore di Dio per l’uomo è una proiezione dell’amore dell’uomo per se stesso, oggettivato e idealizzato in un altro da sé. Il desiderio dell’uomo a una vita beata e immortale coincide con il dono che Dio promette nell’aldilà. Dio ama come un padre, perché ha generato col pensiero il Figlio, suo “alter ego”, per amore del quale ama gli uomini, creati a sua immagine e somiglianza. L’essenza di Dio si umilia, negando la sua infinità e potenza, fino a identificarsi, tramite il Figlio, con l’essenza dell’uomo. Dio, nella persona del Figlio, che si concreta nel mondo per il tramite del grembo di una sempre vergine donna immacolata, soffre come un uomo (il Cristo Gesù piange la morte dell’amico Lazzaro) e teme la sofferenza (egli prega il Padre affinché allontani l’amaro calice). Il Padre si consola della perdita del Figlio, perché sa che risorgerà dalla morte. La Madre del Figlio di Dio, da lei partorito con sofferenza, si affligge per la di lui perdita: il suo dolore è inconsolabile (Stabat Mater dolorosa iuxta crucem lacrimosa). La quotidiana rappresentazione di questo dramma divino, nel folclorico teatrino della Chiesa, perpetua il ricordo del sacrificio del divo Gesù, personaggio del dolore, vittima di un tragico destino, e ne consolida la fede. Novello Ercole al bivio, l’eroe tragico è costretto a scegliere tra due vie: sacrificare se stesso per la salvezza degli uomini o abbandonarli all’eterna dannazione. Un innocente, che soffre e patisce il patibolo per amore degli altri, non desta compassione? Patire per amore del prossimo, imitando Cristo che si è sacrificato per l’altrui bene, è il comandamento che fa santo il cristiano, avvicinandolo alla divinità. L’esempio di Cristo è legge per i cristiani. Il patimento di Cristo redime l’umanità e la riconcilia a Dio. Il cristiano, tuttavia, deve gioire su questa terra nell’imitare la sofferenza di Cristo. Il crocefisso, simbolo del dolore, diventa l’emblema della religione cristiana, dell’accettazione gioiosa della sofferenza, finalizzata a meritare l’ambita rimunerazione del paradiso. Questo autocompiacimento della sofferenza (voluptas dolendi) è il prezzo che deve pagare il cristiano, trasognante e gaudente esaltatore del proprio dolore, per meritarsi l’aureola santificante. L’amore cristiano, in vero, appare masochistico. Si compiace dell’auto-crocifissione, che crede tanto più efficace quanto è più dolorosa. Il cristiano compie voti e affronta disagi, penitenze, macerazioni corporali, digiuni e pellegrinaggi per ottenere in cambio benessere, se non in questo mondo, almeno nell’altro. Se le immagini oscene degli dei inducevano i pagani alla lussuria, l’immagine di Cristo crocefisso, invece, predispone il cristiano ad amare i patimenti. Dio ha tutto in sé dall’eternità e non ha bisogno del mondo, da cui è separato. Per amare profondamente Dio, il cristiano deve isolarsi dal mondo e sprofondare nella sua intima essenza per trovare l’altro da sé. Astraendosi dalla realtà del creato, egli ricostruisce in sé l’illusoria totalità dell’essenza divina, analoga all’immagine idealizzata di sé.

Come l’uomo è unico nella sua essenza, ma distinto nelle sue separate individualità ed esistenze, così è Dio per i cristiani: uno e trino, distinto in tre persone (dal Padre procede il Figlio e da entrambi lo Spirito Santo), aventi un’unica essenza (c.d. “omousia”, sostanza divina universale), ma non anche separate esistenze. La ragione umana, tuttavia, non può comprendere il mistero di un dio elevato al cubo, uno e contestualmente trino, per effetto di decreti conciliari. La divina ragione (Logos) ha creato il mondo dal nulla, mediante un atto di volontà. Si è poi materializzata nell’uomo Gesù, il Cristo, per rivelarsi al mondo. L’uomo, in realtà, è materia e pensiero. La coscienza pensante è un prodotto della materia cerebrale. Senza l’esistenza della materia cerebrale non esisterebbe il pensiero razionale. Il pensiero è correlato alla materia mediante i processi di crescita individuale e di formazione culturale. Il pensiero non può creare dal nulla la materia, perché da nulla non si crea nulla. Il pensiero può creare rappresentazioni, parvenze di realtà oggettive o astrazioni, non cose concrete. Può immaginare Dio in forme e sostanze non sensibili, ma non può dimostrare la concreta esistenza di un ente trascendente, inconoscibile. L’uomo può credere nell’esistenza di Dio, nel Logos che ha creato dal nulla l’Universo, solo in forza dell’astrazione indotta dalla fede. La ragione, invece, attesta il contrario, vale a dire che la materia procede da se stessa e non può scaturire dal pensiero, di cui invece è fondamento. Chi ha fede nell’incredibile può credere anche nella creazione dal nulla, nel prodigio che rende possibile ciò che è impossibile, nella potenza di un dio che sovverte le leggi della fisica, nel Cristo Gesù, il taumaturgo ebreo che domina con i prodigi la natura, asservendola ai suoi arbitrari fini. Si può persino credere che, per volontà divina, ciò che accade contro natura sia a vantaggio dell’uomo. Dio, secondo la fede giudaico-cristiana, ha creato l’uomo secondo la propria immagine e somiglianza e lo ha posto a dominare e soggiogare la natura. In realtà, l’uomo è parte della natura e non ha un fine ultimo, se non quello concernente la sua esistenza e da lui stesso determinato. In opposizione alla sua limitatezza, l’uomo ha formulato il concetto di un ente sovrumano, confacente alla propria immagine e somiglianza, elevandolo alla massima potenza sopra ogni cosa.

L’origine della natura è nella materia, nelle leggi della fisica e della chimica, non in un atto creativo e arbitrario di un dio. Nella dottrina giudaico-cristiana, invece, la natura è un prodotto del comando di Dio. Egli con la sua potente parola ha creato dal nulla le cose e, dopo averle fatte, le ha giudicate buone e le ha benedette (solo per l’uomo, dopo averlo creato, non espresse un uguale apprezzamento, essendo consapevole dei guai che quella sua creatura avrebbe combinato). Ha creato il mondo, favorendo un determinato popolo (giudaico prima, cristiano dopo), di cui egli è il Signore assoluto. Chiuso nel proprio egoismo religioso, il popolo d’Israele escluse le altre genti dai benefici della loro monolitica divinità. La difesa del monoteismo, della purezza della vera, unica, giusta religione e del conseguente assolutismo morale, ha innescato uno stato permanente di conflitto con altre culture. Quando l’esclusivo popolo di Dio - racconta la Bibbia - mormora per la fame, egli appare nella gloria della nube e promette di sfamarlo, affinché possa conoscere la sua potenza e non rifiuti l’osservanza dei suoi precetti e delle sue leggi (Es 16). Giacobbe s’impegna a far suo il dio dei suoi padri, promettendogli libagioni e l’onore di un tempio, purché gli rimedi durante il viaggio vesti e cibo (Gn 28, 20- 22). Il rapporto tra dio e il popolo s’instaura sullo scambio utilitaristico, sul reciproco egoismo. Jahvè concede a Mosè, per l’utilità del suo popolo nella vita terrena, una potenza straordinaria, superiore persino alla natura. La potenza di Cristo, invece, è volta a vantaggio del singolo cristiano per la felicità promessa nella vita ultraterrena, avendo la Chiesa costatato l’irrealizzabilità sulla terra del regno di Dio. La meta del cristiano non si trova nel mondo oggettivo, nella natura, ma nell’aldilà, nel soprannaturale. Il cristiano (homo religiosus) si raccoglie nel suo intimo, rivolgendo a Dio la preghiera, la confessione dei suoi bisogni, fiducioso di essere esaudito. Se non lo sarà, non per questo verrà meno la fiducia in lui, stante la convinzione che Dio non può che volere, in ogni caso, solo il bene del devoto cristiano. L’uomo, invece, deve imparare a contare solo sulle proprie forze, svincolandosi da qualsiasi divinità. Deve prefissarsi determinati fini, contando solo sulle proprie capacità e sui mezzi di cui può disporre. Ponendo la fiducia nella sua intelligenza e responsabilità, consapevole dei limiti segnati dall’imperfezione della sua natura, deve affidarsi alle conoscenze desunte dalla scienza al fine di acquisire certezze, sia pure limitate, stante l’impossibilità di pervenire alla conoscenza di verità assolute, trascendenti, decantate da seducenti sirene clericali, naviganti nell’oceano procelloso delle religioni. L’uomo razionale, aconfessionale, è felice dei risultati conseguiti a beneficio di tutti. Non spera nella cristiana felicità di vincere un terno nella divina lotteria. Non ha il cuore oppresso per non aver appagato il desiderio d’amare Dio. Non si comporta come un bambino, che prega il padre affinché esaudisca ogni sua brama. Non è un servo che implora grazie al padrone per lenire i suoi dolori e soccorrere i suoi bisogni. Non crede nei miracoli, negli stravolgimenti della natura, nella magia della superstizione cristiana. Non crede che il mondo sia governato da leggi deterministiche, predeterminate dal volere di un dio, essendo consapevole che i fenomeni naturali dipendono da leggi statistiche, da eventi casuali, che non possono addebitarsi alla vendetta o all’amore di una divinità. Sottopone la ricerca scientifica al beneficio del dubbio e alla critica della ragione. Non persegue certezze assolute, ma s’impegna nell’ininterrotta ricerca per conseguire maggior conoscenza. Non crede che le regole di vita derivino da fonti divine. Non ha la presunzione cristiana di credere che Dio, in quanto onnipotente, possa tutto e che nulla sia impossibile per chi ha fede in lui e nella Divina Provvidenza. Egli vive il presente, senza il timore di un dio-padrone, senza affidarsi al suo aiuto, senza sperare nel narcotico dono della grazia. Non crede nel destino irrevocabile. Il futuro, incerto e indeterminato, non giace sulle ginocchia di Giove tonante, ma dipende in parte dalla volontà dell’uomo, per il resto dal caso, per nulla dalla preghiera e dall’ausilio di un dio. La salute dell’umanità non dipende dal sacrificio di un gallo offerto ad Esculapio. Il successo mondano dell’agire umano non attesta il favore divino, né l’insuccesso è una conseguenza della vendetta divina. La natura è imprevedibile e non soggiace al volere degli dei. In sé ha la spiegazione delle sue necessità e fuori di sé non ha un fine. Il regno dell’uomo è dentro l’umanità.

                   Lucio Apulo Daunio

sabato 6 agosto 2011


LA FEDE CRISTIANA



L’uomo proietta fuori di sé il suo ideale, personificandolo in un essere divino, cui attribuisce razionalità e sentimenti.

Il Cristo Gesù, l’ebreo divinizzato dei cristiani, adorato come Dio uno e trino (latria), in realtà è una costruzione teologica, non una verità storica. Il dio degli eserciti d'Israele, in luttuose guerre, tremendo, combatte a fianco del suo eletto popolo. Al dio bellicoso d’Israele, i cristiani hanno aggiunto due altre divinità: il semidio Cristo Gesù, un uomo divinizzato come Figlio Unigenito del Padre, e l’evanescente Spirito Santo, che procede (Dio sa come!) e dal Padre e dal Figlio. La derivazione delle tre ipostasi è un concetto sancito come verità di fede nel concilio niceno (325) e in quello costantinopolitano (381). Sintesi della fede cristiana è il “credo” apostolico. Il Figlio e lo Spirito Santo sarebbero dunque ipostasi di un unico Dio, che è tre volte se stesso, “clonazioni” del Padre, generate “ab aeterno”, senza fecondazione (basta la parola!). Il Figlio, fattosi “carne” con il nome di Gesù, tramite il ventre di una vergine donna, fecondata (miracolosamente) dallo Spirito Santo, padre di un figlio di cui è figlio (un vero e proprio assurdo rompicapo teologico), vive, soffre e muore come un uomo, ma risorge dalla morte nel terzo giorno per assurgere a dignità divina (apoteosi). Egli è re, ma il suo regno non è di questo mondo, perché è posto fuori del tempo e dello spazio, dove la vita, immutabile, non ha fine (dunque, irreale; quindi, illusoria). Questo regno trascendente è destinato come premio agli eletti, gli eroici cristiani che hanno diligentemente esercitato le virtù evangeliche ed hanno scrupolosamente osservato i precetti decretati dal Dio trinitario tramite la Chiesa, sua rappresentante legale sulla terra. Per il resto dell’umanità peccatrice, il dio famiglia, Padre, Figlio e Spirito Santo, si dimostra poco cristiano, condannandola a un’infernale e interminabile pena: assurda espiazione, non correlata all’offesa.

La plurima divinità cristiana, distinta in tre sostanze individuali trascendenti aventi unica natura, crea dal nulla l’universo in un periodo limitato, concedendosi al termine del lavoro creativo un meritato riposo (lavorare stanca!). L’inconoscibile divinità è stata immaginata in innumerevoli modi. Come essere onnipotente, può eludere il principio di non contraddizione, ponendo in essere ciò che non può essere. Come sovrano che governa l’universo, prescinde dalle leggi della fisica, quando opera miracoli. Questo dio inaccessibile, che rende possibile l’impossibile, è un’idea assurda quanto fantasiosa. L’unica realtà che l’umanità conosce, durante il breve periodo della sua storia sopra un pianeta collocato in un luogo periferico del cosmo, è quella concreta della sua esperienza. La limitatezza della nostra memoria storica e l’inadeguatezza della scienza non ci consentono di conoscere né il nostro passato remoto, né la genesi dell’universo, né il futuro dell’evoluzione cosmica, su cui possiamo solo formulare ipotesi. Indipendentemente dal sapere se siamo stati creati da un essere increato, o se siamo un prodotto dell’evoluzione della natura, ciò che appare certo è che esistiamo nel mondo e che questo non è stato creato esclusivamente per noi. L’uomo non rappresenta il centro e lo scopo dell’universo. Se l’uomo vorrà sopravvivere come specie non dovrà né affidarsi alla provvidenza di fantomatiche divinità né tantomeno fidarsi di chi pretende di rappresentarle in terra, pontificando pretese divine, assolute verità. Dobbiamo far conto soltanto sulla nostra intelligenza e responsabilità, facendo buon uso delle scarse risorse del mondo per soddisfare i nostri illimitati desideri. Dobbiamo imparare a vivere in sintonia con la natura, che ci ospita durante il breve viaggio della vita, rispettando le sue leggi. Il paradiso va realizzato, per quanto possibile, sulla terra, non immaginarlo tra le nuvole volatili del cielo. Sull’origine e i limiti dell’universo, sulla sua espansione o contrazione, sul futuro del mondo e dell’uomo, la scienza continua a indagare e a illuminarci. “Ad maiora semper!”.

La fede cristiana crede in modo assoluto nella certezza storica della rivelazione e incarnazione di un essere trascendente, avente doppia natura, umana e divina. Questa credenza è opinabile, non essendo supportata da prove incontrovertibili. Una fede che non dubita, non essendo certezza fondata sull’esperienza, è follia. Se la fede fosse fondata sulla concretezza, non elaborerebbe truismi dogmatici e teologumeni (speculazioni teologiche spacciate per verità storiche), che moltiplicano gli insondabili misteri della religione e ingarbugliano le idee dei credenti. L’assurdità della fede cristiana consiste nel presumere di conoscere l’assoluta verità, avendo eliminato il dubbio. Ciò che è vero una volta, lo è per sempre. La fede cristiana è ambigua, giacché implica contrapposte verità: quella fallace delle opinioni umane e quella immaginifica di una supposta divina rivelazione, tramandata dall’auctoritas della Chiesa docente. Essa ha la pretesa di tracciare la via sicura per raggiungere un superiore sapere, ostacolando il progresso dell’umanità nella conoscenza effettiva del mondo. Il Concilio di Trento maledì con l’anatema chi contestava le sacre dichiarazioni del magistero della Chiesa. Il Vaticano II ha sancito l’infallibilità del magistero del corpo episcopale riunito in concilio con il papa (nonostante le palesi contraddizioni che rendono inaffidabili sia i decreti dei concili sia i disposti dogmatici del successore di Pietro). Papi e vescovi, in virtù della loro consacrazione, pretendono di possedere: il “munus docendi”, il “munus sanctificandi”, il “munus regendi”. Il sapere del cristianesimo rende l’uomo degno di far parte dei servi di Dio, cioè della gerarchia ecclesiale, casta santificata, legittimata da governi pseudo-laici.

La fede cristiana è un’emozione fondata su di un’assurda credenza (pìstis): quella di ritenere per verità storica il contenuto di fede delle Sacre Scritture. La realtà sensibile è l’unica che possiamo conoscere. Asserire che oltre la realtà sensibile esista un’altra realtà, un aldilà rivelato da ispirati profeti, è illogico, in quanto porta a sconfinare i limiti della concretezza, addentrandosi nell’eroica follia dell’immaginazione, che ipotizza mondi impossibili. La fede suggestiona la mente oltre i limiti della razionalità. Esalta l’immaginazione, è compagna della temerarietà e sfocia spesso nell’intolleranza. La fede cristiana è follia per la sapienza pagana (1Co 1, 22-23). L’eroismo fideistico dei cristiani può tramutarsi in esaltazione, fanatismo, intolleranza, allucinazione, delirio ascetico e persino erotismo (sintomatico è l’amore per Gesù delle sante teo-patiche o il matrimonio mistico di Santa Teresa d’Avila). Nella frenesia mistica dell’estasi appare l’immagine dell’oggetto bramato. La scienza, invece, in quanto si fonda sulla sperimentazione e sulla ricerca, non teorizza mistiche verità assolute. Le nuove teorie acquisite, in quanto prospettano verità relative, si assumono col beneficio del dubbio. Ciò che la scienza afferma lo dimostra. Essa non può ammettere l’esistenza dell’anima, di una presunta sostanza spirituale, atemporale e immortale, distinta e separabile dal corpo e che si sovrappone ad esso con la nascita e ne fuoriesce con la morte. La fede, invece, non ha dubbi, in quanto basata su certezze assolute, per quanto inconsistenti, dalle quali deduce pari conclusioni. La prerogativa dell’infallibilità di una Chiesa governata dal pontefice, monarca assoluto, s’impone ai credenti come dogma: una verità incontrastabile che offende l’umana razionalità. La fede cristiana consola le sofferenze nell’aldiquà, promettendo ricompense illusorie nell’aldilà. Se la realtà ci sfugge nella sua assolutezza, non per questo occorre necessariamente rifugiarsi nei tentacoli della fede per superare i limiti dello scibile oggettivo. Sogni, illusioni, suggestioni, esaltazioni non aiutano la comprensione della realtà. Il divino è un concetto indimostrabile. Si fonda su principi assiomatici, accettabili solo in base alla fede in una credenza. Sarebbe irragionevole voler dedurre verità assolute da una credenza indimostrabile. Meglio essere più modesti. Aver fiducia della propria razionalità critica. La ragione a-confessionale si apre al dialogo, al confronto, al rispetto dell’altrui opinione, anche se in disaccordo, non essendo vincolata da dogmi né plagiata dal credo di una religione, che impone l’accettazione di verità assolute, indiscutibili. L’umiltà della ragione consente il confronto con il pluralismo delle idee. La ragione umana, storicamente determinata nel suo essere e nel suo agire, è fallibile. Il dramma esistenziale non va affrontato con il supporto illusorio delle verità metafisiche. L’azione assidua delle umane “virtù” deve trovare in sé il fine, non in un aldilà da meritare. La luce della progressiva conoscenza della realtà, piuttosto che il buio di pretese divine rivelazioni, illumina il cammino dell’uomo razionale. La storia è testimone del lungo viaggio nel tempo, faticosamente intrapreso dall’umanità, che, come il mitico Ulisse, oltrepassa innumerevoli colonne d’Ercole per scoprire l’ignoto e spostare i limiti della conoscenza verso più ampi e chiari orizzonti.

Ad maiora semper!”.

 Lucio Apulo Daunio




LA CREAZIONE
SECONDO GLI AUTORI DELLA BIBBIA



I libri dell’Antico Testamento (Bibbia), scritti in ebraico antico, una lingua conosciuta dalla casta sacerdotale, ma non dal popolo, che parlava la lingua aramaica, sono stati redatti e rimaneggiati nel corso di periodi storici diversi. Essi, al pari d’altri testi sacri, esprimono il dialogo religioso tra l’uomo e una supposta divinità. Il Pentateuco (Torah) è l’insieme dei cinque libri della Legge, riferibili ad antiche tradizioni tramandate oralmente, che riflettono apporti di altre culture (babilonese, egizia, caldea). Il primo libro “Genesi”, prima d’iniziare il racconto d’Abramo, mitico capostipite del popolo d’Israele, scelto dal dio Jaweh quale sua particolare eredità (Sl 33,12), descrive gli avvenimenti leggendari sulla creazione del mondo e dell’uomo (cosmogonia e miti dell’origine), mescolando differenti tradizioni.

Il primo episodio (Gn 1, 1 seg.; 5,1-2), di tradizione eloista-sacerdotale, più recente, contrappone il caos primordiale al mondo delle forme. Elohim (plurale di Eloah, o, in forma abbreviata, El = nome del dio ebraico) crea l’universo in sei giorni, riposando il settimo. Poi crea l’umanità, fatta a sua immagine e somiglianza, quale scopo ultimo della creazione. Questa singolare divinità, concepita come una pluralità androgina e dualistica, giacché racchiude in sé coppie d'opposti (luce e tenebre, creazione e distruzione, bene e male, ecc.), predomina su tutte le altre divinità. La sua pluralità rappresenta il riflesso degli eventi reali, che l’uomo ha voluto attribuire alla sfera del divino. Gli Elohim, si racconta, fecero l’umanità simultaneamente maschia e femmina (uomo androgino?), stabilendo, quando distinse l'uno dall'altra, che il primo fosse dominante sull’altra e su tutte le creature viventi sulla terra. Il maschilismo biblico si coniuga con l’antropocentrismo, cioè con la visione del maschio, immagine di Dio, signore del creato, al quale sono funzionali tutte le creature inferiori. In un primo tempo permise all'umanità di raccogliere erbe per nutrirsi (Gn 1, 29-30). Solo dopo il diluvio consentirà a Noè e famiglia di nutrirsi anche con la carne (Gn 9,1-4). Prima di fare l'umanità, Elohim crea l'ambiente adatto per la loro sopravvivenza. L’universo e la vita hanno origine nella potenza della parola divina, che plasma e organizza la massa informe del caos primordiale (Dio, dunque, non crea dal nulla, ma utilizza e modella una materia informe esistente). Tutto il creato (eccettuata la specie umana) è qualificato come buono. Elohim, cioè, giudica il suo lavoro creativo e l’approva, ma con qualche riserva riguardo alla creazione dell’umanità. Questa è una delle due mitiche versioni della creazione raccontate nella Bibbia, puntualmente contraddetta dalle moderne teorie scientifiche.

La dottrina della creazione assoluta di tutte le cose dal nulla (productio ex nihilo) ha trovato sostegno in un passo del Secondo libro dei Maccabei (7, 28). Si tratta di un testo c.d. “deuterocanonico” (cioè di secondo canone), di autore ignoto, databile alla fine del II secolo ante era volgare, non accolto nella Bibbia ebraica e considerato apocrifo dai protestanti. Il passo in questione afferma che tutte le cose che stanno in cielo e in terra sono state fatte da Dio non da cose esistenti. Il medesimo libro (cfr. 12, 43-45) supporta anche la credenza nell’esistenza del Purgatorio, inteso come stato intermedio (tra quello dell’Inferno e quello del Paradiso), in cui alle anime dei defunti è consentito di purificarsi dai peccati in virtù delle opere buone compiute dai superstiti, cioè preghiere di suffragio, messe, elemosine, indulgenze (mercato remunerativo per la Chiesa cattolica e causa della scissione dei protestanti).

Il secondo episodio (Gn 2, 4 seg.), di tradizione jahvista, più antica, contrappone l’aridità del mondo deserto alla ricchezza della vita nel mezzo di una lussureggiante vegetazione, senza spiegare la formazione dell’universo. A Elohim, dio degli dei (Dt 10, 17; Sal 136, 2; Dn 2, 47), si contrappone Jahvè, dio supremo (Sal 50, 1; 86, 8; 135, 5; 138, 1; 2Cr 2, 4), che non tollera altre dei (Es 20). Si passa da una forma di enoteismo a una monolatria. Alla concezione monoteistica della divinità si arriverà in seguito, durante l’esilio babilonese del popolo ebraico. Jahvè dunque crea prima il cielo e la terra, poi l’uomo, Adamo, modellato con l’argilla (“Adam” è l’uomo fatto di terra), cui soffia l’alito di vita. Subito dopo aver reso fertile un deserto, piantando un giardino e vivificandolo con animali per gli usi dell’uomo, egli genera anche la donna, traendola da una costola dell’uomo e a lui appropriata (mito della differenziazione sessuale da un essere androgino primigenio). La donna è creata in funzione dell’uomo (maschilismo giudeo-cristiano), allo scopo di perpetuare la specie umana. E’ parte dei possessi di un uomo (cfr. il libro “Esodo”), e sta riguardo all’uomo come l’uomo sta riguardo a Dio (1Co 11,3). Nulla è detto, nel secondo episodio, circa la somiglianza dell’umanità con Jahvè. A differenza di Elohim, Jahvè non giudica il suo lavoro creativo, apprezzandolo o ripudiandolo; tuttavia, con l’andar del tempo, imporrà a Mosè le norme concernenti ciò che è puro e ciò che è impuro (cfr. Lv 11, 11). Jahvè è un dio guerrafondaio, che combatte alla testa degli eserciti d'Israele, suo popolo eletto, alla conquista della "terra promessa".

Ciò che appare assurdo nel primo episodio della Genesi è la creazione della luce e della vegetazione anteposta a quella degli astri del firmamento (sole e stelle), da cui hanno origine sia luce sia la vita. Quanto alle assurdità rilevabili nel secondo episodio, emerge quella della creazione di Adamo antecedente a quella degli organismi viventi, non solo animali ma anche vegetali. La mitologia creazionista e fissistica giudaico-cristiana, fondata sulla metafisica, sulla teologia e sul geocentrismo, è sempre più smentita dalla moderna teoria evoluzionistica, dall’astronomia (a-geocentrica), dalla fisica, dalla geologia, dalla biologia, dalla paleontologia e da altre discipline similari, che si fondano sulla ricerca e sul metodo scientifico. Eppure la Chiesa si ostina a ritenere sacri e canonici tutti i libri della Bibbia (antica e nuova) sul presupposto che hanno Dio come autore, cioè scritti su ispirazione dello Spirito Santo, ipostasi divina a-scientifica.

Il male è una realtà, ma che esso debba farsi risalire a una presunta colpa originale dei primi avi, alla loro disobbedienza a Dio, questo è un’ennesima assurdità della religione cristiana. Dio, al pari di Zeus, che elargiva all’umana gente doni buoni o cattivi, attingendoli da due vasi piantati sulla soglia dell’Olimpo, è l’artefice d’ogni cosa e d’ogni evento, anche del bene e del male (Is 45, 7, Mi 1, 9.12, Lm 3, 38, Am 3, 6, Gb 1, 21). Non tutti i mali, però, vengono per nuocere. Così, secondo santa madre Chiesa, le disgrazie della vita, che ci affliggono in conseguenza di una colpa originale, possono diventare strumento per ricavarne meriti per l’aldilà (felix culpa!). Il desiderio di conoscere, di somigliare a Dio, insinuato da una serpe satanica all’ingenua Eva, la spinse a infrangere un tabù, a mangiare il frutto dell’albero proibito e a indurre anche Adamo ad assaggiarlo. Dopo che entrambi l’ebbero assaporato, furono provvisti di conoscenza (coscienza) del bene e del male e compresero la malizia suscitata dalla loro nudità. Solamente dopo aver ingenuamente disubbidito all’ordine di Dio, furono consapevoli di aver peccato. Infatti, ancorché sul piano intellettivo fossero liberi di scegliere e quindi di trasgredire l’ordine di un dio onnipotente e geloso delle sue prerogative, non avevano però consapevolezza delle conseguenze delle loro azioni (ossia, la capacità di valutazione morale del fatto compiuto).  In conseguenza di quella loro trasgressione, tutta l’umanità ha ereditato la conoscenza di ciò che è bene e di ciò che è male, la responsabilità dei propri atti, il senso di colpa. Dunque, se non c’è consapevolezza della conseguenza dei propri atti, neanche può esserci il peccato. Vero è che Dio impose ai nostri primi avi un modello di comportamento, ma li lasciò vivere in stato d'innocenza, cioè senza alcuna cognizione del bene e del male. I nostri primi avi, perciò, pur comprendendo sul piano intellettivo di trasgredire l’ordine di Dio, non furono coscienti sul piano morale delle conseguenze negative delle loro azioni, vale a dire di compiere il male, perché non potevano conoscerlo. Solo dopo aver commesso il peccato originale furono coscienti dell’esistenza di una legge morale. Non furono dunque colpevoli. L’ignoranza invincibile, infatti, giustifica dal peccato. La loro curiosità li spinse a varcare i confini dell’ingenuità, attratti dal desiderio di una conoscenza superiore. Non può invece escludersi la responsabilità di Dio. Egli, che è onnisciente e cosciente dei suoi atti e delle conseguenze che ne derivano, era consapevole dell’offesa che l’umanità gli avrebbe arrecato, del conseguente castigo che avrebbe inflitto agli uomini a causa della loro caduta nel peccato e infine del sacrificio cui si sarebbe dovuto sottoporre, nella persona dell’Unigenito Figlio, per redimerli. Egli è dunque colpevole, non gli uomini, giacché la sua prescienza gli consentiva di intravedere i guai che le sue creature avrebbero prodotto. Dio ha deliberatamente voluto che i nostri primi avi fossero indotti nell’errore: la sua malvagità ottenebra la sua bontà. Un giorno non lontano, forse, l’umana razionalità potrà liberarsi da assurde divinità extragalattiche, una, trina o molteplice che siano, non lasciandosi offuscare dalle tesi immaginifiche dei loro dotti epigoni, da cristi e spiriti che infondono inconsistenti lumi. Il dio triste, minaccioso, malauguroso, che giammai sorrise, patendo l’ignominia della croce per placare l’offesa fatta al Padre da due sue ingenue creature nella notte dei tempi, è l’emblema di una religione fondata sull’etica della sofferenza (come quella esemplare perseguita da Madre Teresa di Calcutta, nonostante gli ingenti fondi ricevuti), che ha glorificato il dolore come mezzo necessario per aspirare al regno celeste. Cristo, il leggendario ebreo deificato, è divenuto il simbolo con cui la Chiesa propaga illusorie dottrine infallibili, per nulla imbarazzata dalle nefandezze di un triste passato. La religione dei cristiani si mostra pregna di assurde credenze e fitta di misteri, che l’umana ragione non può districare, se non sottomettendosi, senza comprenderli, all’obbedienza cieca della fede, dono che Dio elargisce a suo arbitrio.



Lucio Apulo Daunio


venerdì 5 agosto 2011


LA DIVINA MISSIONE DI GESU’

Gli evangelisti testimoniano che Gesù è il Messia, l’Unto del Signore, re sovrano in cielo e in terra. Egli è addirittura il Figlio di Dio e Lui stesso Dio. Il Padre lo ha inviato presso il popolo d’Israele ad annunziare nuove verità di fede. E’ a dir poco sorprendente che Dio prediliga un popolo, piuttosto che l’insieme delle sue creature. Che discenda sulla terra nella persona del Figlio Gesù, ingravidando una vergine donna, l’immacolata Maria, che resta sempre vergine (prima, durante e dopo il parto). Che sacrifichi il Figlio per l’altrui salvezza, lasciando che muoia in modo ignominioso sulla croce. Che lo faccia risorgere dal sepolcro, lo mostri più volte in carne e ossa e con le piaghe ai suoi discepoli e poi lo innalzi al cielo presso la sua Maestà, senza fornire incontrovertibili prove e storiche testimonianze della sua singolare esistenza, celeste e terrena.

Nell’espletamento della sua missione, resosi conto dell’impossibilità di realizzare l’utopico Regno di Dio sulla terra, Gesù media il reale con l’ideale, ossia rompe con il passato giudaico per proiettarsi nel futuro, prospettando nell’aldilà il ritorno alla mitica età dell’oro. Detta norme di vita, necessarie per accedere nel suo Regno. Le sue prescrizioni sono superiori alle leggi “positive”, che regolano i rapporti di coesistenza e di giustizia tra gli uomini. La sua giustizia, implacabile e definitiva, si concreterà nell’oltre mondo. Gli uomini, dopo essere risuscitati dalla morte, saranno sottoposti al giudizio insindacabile di Dio. I malvagi saranno puniti con eterni castighi, i giusti gratificati con beatitudini paradisiache. Per entrare nel suo Regno occorre guadagnarsi i meriti, conquistando la reputazione di Dio mediante assidue preghiere, riti liturgici, comportamenti conformi ai suoi comandamenti e alle disposizioni cultuali e dottrinarie della Chiesa. Il timore dei castighi divini condiziona l’ossequiante condotta dei cristiani. I divini comandi, già rivelati da Dio a un popolo di nomadi, ispirando patriarchi e profeti, sono stati perfezionati (cioè "rettificati") dal Cristo Gesù, Verbo incarnato, mediante la divulgazione del Vangelo. Parecchi secoli dopo la venuta di Gesù, ecco farsi avanti un altro profeta, sedicente ultimo messaggero (seminatore di scismi, secondo il giudizio di Dante). E’ Maometto (Muhammad) il messaggero cui Allah ha rivelato la sua ultima volontà e che dopo la morte del Profeta è stata raccolta dalla memoria dei suoi compagni e trascritta nel Corano, considerato dai musulmani Verbo incartato. I servi di Allah si espansero rapidamente in virtù della forza militare (Jihad o guerra santa) e della debolezza degli stati conquistati, soggiogando i popoli al credo islamico. I seguaci di Cristo, dopo la sua dipartita, hanno diffuso il suo Verbo, testimoniandolo anche fuori d’Israele, tra i “gentili”. Il Vangelo, che si presume abbia predicato Gesù, mediato e tramandato dalle primitive comunità cristiane sotto il nome di taluni apostoli e discepoli alle future generazioni, è pervenuto fino a noi non come documento storico ma come mito propagandistico. La presunta ispirazione divina degli autori è, in realtà, pia illusione. Gli epigoni di Cristo hanno oggettivato in una superiore entità pensieri e sentimenti propri. Hanno fatto discendere l’eticità della “realtà effettuale”, di per sé amorale, dall’autorevolezza di Dio. La virtù principe dei cristiani consiste nell’ottemperare al precetto dell’ubbidienza incondizionata alla volontà di Dio, ossia alle norme bibliche e dottrinarie della santa madre Chiesa, in forza di una fede infusa (come dono) da una presunta grazia divina. Il fine ultimo dell’uomo redento è vivere per la gloria di Dio. L’agire cristiano è finalizzato esclusivamente al bene di Dio. Le naturali virtù umane (non cristiane) sono subordinate al volere di Dio e dirette al raggiungimento dei suoi fini. La ragione dell’uomo, offuscata ed asservita a quella di Dio e dei suoi zelanti interpreti, non ha scopi propri da raggiungere, scelte da compiere con libertà di giudizio. La sua razionalità si trova racchiusa in angusti ambiti, condizionata dai vincoli imposti da norme dogmatiche. La più grave colpa dell’umanità contro la propria intelligenza è l’asservimento all’obbedienza di una fede, che aliena la ragione stessa dell’uomo. Lutero giudicherà l’uso della ragione in materia di fede uno scandalo abominevole, in quanto impedisce l’accesso al cielo. Il suo falso misticismo anti-intellettualistico esonerava il credente dai lumi dell’intelligenza. E’ irragionevole accogliere una dottrina religiosa con cieca fede, senza porsi alcun dubbio, senza sottoporla al vaglio della ragione critica, senza sospettare che possa adombrare inganni e generare illusioni. E’ pura idiozia persistere a credere in verità di fede, vacue e circonfuse di mistero, sperando che siano verità oggettive, reali.

L’eroico Gesù, già al suo apparire nel mondo, è minacciato da un serio pericolo, che proviene da un sovrano spietato, Erode il Grande, che teme di essere spodestato da un nuovo “re dei Giudei”. Il fanatismo religioso di movimenti anti-romani nella Palestina di quei tempi sfociava spesso in sanguinose rivolte di tipo messianico. Raggiunta la maturità, Gesù prende coscienza della sua (presunta) identità divina e della missione da compiere, come prestabilito dal fato (in altre parole, dalla volontà del Padre celeste, i cui pronunciamenti rimangono nascosti agli uomini, realizzandosi gradualmente nella storia mediante segni). Ha ricevuto il mandato di istituire un nuovo ordinamento, emendando gli errori di quello precedente (anche Dio può sbagliare, dunque non è perfetto né la sua verità è assoluta). Egli propone un nuovo rapporto (patto) di Dio con gli uomini. Prima di intraprendere la sua missione, Gesù deve sottostare ad un rito d'iniziazione: il battesimo d'acqua (mediante il quale si purifica dall’esperienza umana della nascita) e di Spirito (mediante il quale si purifica dal peccato ed entra nello stato di grazia, ricevendo i doni dello Spirito Santo). Sacrifica infine la sua vita a vantaggio degli altri, ricevendo in cambio il premio della risurrezione dalla morte. In seguito, è assunto in cielo per essere annoverato tra gli esseri divini (“excedere ad deos”), come nelle apoteosi dei miti pagani. Tutta la sua vicenda umana consisterà nell’adempimento della volontà divina, nell’ubbidienza al Padre celeste, prono a compiere i suoi propositi. Egli è assimilato alla figura biblica del servo fedele, esaltato da un dio-padrone, perché si umilierà e soffrirà per espiare i peccati degli uomini, ma alla fine trionferà (Is 41, 9 e 42, 1-4 e 49, 1-6 e 50, 4-9 e 52, 13-15 e 53, 1-12).

Il mito dell’immortalità nasce dal desiderio dell’uomo a non rassegnarsi alla morte. Si crede che le anime elette possano continuare a vivere in luoghi deliziosi (gli antichi, mitici prati d’asfodelo, Campi Elisi, Isole dei Beati). I dannati, invece, patiranno nell’orrido, buio Ade (l’oltretomba pagano) o sprofonderanno nella sua tetra voragine, il Tartaro. Gesù stesso prometterà agli eletti benemeriti l’immortalità nel Paradiso oltremondano, mentre dannerà in eterno i peccatori impenitenti negli inferi abissi. Nel miraggio cristiano dell’oltretomba, il luogo di pena, regno di Satana, si contrappone al luogo di beatitudine, immaginato oltre i cieli, governato da esseri immortali. In realtà, la concezione, velata di mistero, che la vita prosegua nell’oltretomba, ha origine nella proiezione della forza vitale dell’uomo, restio ad accettare l’idea della morte. L’abbaglio di una vita ultramondana induce a credere nell’immortalità dell’anima, che si suppone temporaneamente racchiusa nelle spire del corpo durante la vita temporale. L’anima è concepita come parte della divina sostanza, per cui non può perire con il corpo, da cui invece si libera per involarsi nell’aldilà. Essa dovrà purificarsi prima di entrare nel regno delle beatitudini. L’uomo, non rassegnandosi all’idea della morte corporale, ha concepito l’immortalità dell’anima, del prolungamento dello spirito vitale in un’altra dimensione. Ha immaginato l’esistenza di esseri divini, di un giudice supremo e signore del tutto. Questa falsa idea, radicatasi nella mente sin dall’infanzia, condiziona sia la ragione sia i sentimenti. Nel vano tentativo di perdurare oltre il finito, l’uomo si lascia avvincere dall’irrazionalità di una falsa credenza. Egli, dapprima, tutto preso a realizzare se stesso nel mondo, ad affermare la sua personalità, non si accorge che la vita gli sfugge. Allorché matura in sé la consapevolezza della fragile, inconsistente esistenza, si proietta in un mondo immaginario per dare uno scopo alla sua vita. Non gli resta ora che il tempo necessario per garantirsi la salvezza e l’immortalità. L’esito della lotta resta incerto: non vi è la sicurezza di vincere la battaglia e di conseguire la vittoria finale.

La parola “anima”, in vero, è solo un sostantivo grammaticale privo di consistenza reale. E’ stata concepita come entità immateriale, spirito, psiche, pneuma, alito, soffio vitale. E’ il respiro che contraddistingue ciò che vive. Morire è esalare lo spirito, espirare il respiro vitale. Il Dio biblico anima l’uomo, soffiando in lui l’alito di vita. Lo Spirito Santo è lo Spirito Vitale di Dio, che rianima gli apostoli a nuova vita e consente loro di proclamare la parola (logos) dell’Altissimo (At 4, 31). Gesù risorto soffia il suo alito agli apostoli, donando lo Spirito di Verità (Gv 20, 22), il Paraclito (Gv 14, 16-17.26), che farà loro comprendere e ricordare la Rivelazione. Si crede che esseri spirituali aleggino invisibili nell’aria, suddivisi in buoni (come Dio e gli angeli) e cattivi (come Satana e i suoi accoliti). La possessione demoniaca consisterebbe nell’inalazione dello spirito maligno nel corpo di una persona, da cui può essere cacciato mediante il rito dell’esorcismo. La mente è un concetto astratto come l’anima. Si è creduto che fosse esistente separatamente dall’attività cerebrale e che potesse sopravvivere alla morte corporale. In realtà, la mente (nous), il pensiero dell’uomo, espresso mediante la parola, è un processo che dipende dalla chimica e dagli stimoli del cervello (la materia grigia) e termina con la morte del corpo. La mente di Dio (Logos, Ragione, Verbo, Parola creatrice) è un concetto astratto, determinato da una credenza, che esprime una pia speranza, non una realtà effettiva. Le certezze di cui il credente s’inebria, non hanno riscontro nella concretezza della realtà extra-mentale.
Lucio Apulo Daunio