domenica 31 luglio 2011


LE CONDIZIONI PER SEGUIRE IL CRISTO GESU’

               

          La carità è la fondamentale virtù che il discepolo di Cristo deve praticare. Essa è amore verso Dio e verso il prossimo, è prodigarsi con opere di misericordia a favore dei più bisognosi. Gesù, a chiunque chiedeva d’essere suo discepolo, raccomandava di vendere i propri beni e donare il ricavato in elemosine, al fine di procurarsi un tesoro sicuro nel suo regno celeste, dove i ladri non potevano rubarlo né le tarme distruggerlo (Lc 12, 33). Il discepolo di Cristo non poteva servire due padroni: Dio e mammona. Egli doveva rinunciare alla cura dei propri averi e interessi materiali per asservirsi a Dio (Lc 14, 33). Le ricchezze, che gli uomini apprezzano per godersi la vita, non hanno alcun valore nel giudizio di Dio (Lc 16, 13-15). La parabola del ricco epulone (Lc 16, 19 seg.), che si beava dei piaceri della mensa, mentre il povero Lazzaro mendicava gli avanzi, esprime, per un verso, la condanna radicale della ricchezza, per un altro verso, l’impossibilità per i ricchi di essere giusti e di ravvedersi. La parabola del convito nuziale (Mt 22, 1 seg.) e quella degli operai della vigna (Mt 20, 1 seg.) rappresentano un’esplicita condanna degli ebrei, ancorché legittimi eredi delle promesse divine, avendo rifiutato l’invito a nozze del Figlio di Dio, che ha abolito il privilegio da loro vantato, premiando invece i gentili, ancorché chiamati per ultimi ad operare nella vigna di Dio. Le pie e ricche donne, che seguivano Gesù, misero i propri averi a disposizione della sua causa, incamminandosi assieme agli altri seguaci su di una via lastricata di sofferenze. Zaccheo, un ricco capo dei pubblicani (un esattore di tasse, probabilmente arricchitosi con disonestà), donava metà delle proprie ricchezze ai poveri e, quando rubava, restituiva il quadruplo del maltolto (a quale scopo rubava, se poi ammetteva di restituire il quadruplo?). Un giorno, questa bizzarra figura di peccatore invitò Gesù nella sua dimora e gli confidò di che pasta era fatto (Lc 19, 1-10). Gesù contraccambiò l’ospitalità del pubblicano, donando la salvezza alla sua casa. Zaccheo, a giudizio di Gesù, era pur sempre un figlio d’Abramo, un israelita da salvare, avendo dimostrato, nonostante le ruberie, il distacco del suo cuore dalle ricchezze. L’indulgenza cristiana si dà a tutti (datur omnibus), anche ai ricchi ladroni, purché non ostentino attaccamento alle ricchezze materiali (loro sì che possono farlo!). Dio perdona quelli che si sottomettono alla sua volontà (parcere subiectis!). Un giorno si avvicinò a Gesù un giovane notabile (Lc 18, 18 seg., Mc 10, 17 seg., Mt 19, 16 seg.). Era molto ricco e osservante della Legge. Gli chiese se il comportamento che seguiva, ligio alle prescrizioni della Legge, bastava a garantirgli la vita eterna. Gesù gli rispose che, per raggiungere la perfezione, avrebbe dovuto vendere tutte le sue sostanze e donare il ricavato in elemosine ai poveri. Solo abbandonando la cura dei suoi interessi materiali (andando in malora?) si sarebbe procurato un tesoro nel regno dei cieli. Riducendosi alla stregua di un pezzente (come il filosofo cinico Peregrino, nel sarcastico racconto di Luciano di Samosata), egli sarebbe stato accolto tra i perfetti seguaci delle schiere cristiane. Il notabile, di fronte a questa scoraggiante visione, si rattristò. Poi, con la fronte aggrottata, voltò le spalle a Gesù, sfuggendo alla prospettiva della triste miseria, noncurante dei celesti tesori. A Gesù non restò che sentenziare quanto sarebbe stato difficile per un ricco entrare nel Regno di Dio. Sarebbe stato più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare attraverso la porta del regno celeste. Le chiavi per accedere Gesù le consegnerà al fido Pietro, roccia angolare della costruenda Chiesa di Cristo. La perfezione, che Gesù pretese dal facoltoso notabile, perché non la richiese anche al bizzarro Zaccheo, che non osservava la Legge come l’altro? Gesù, infatti, aveva più a cuore la pratica dei suoi comandamenti, piuttosto che la scrupolosa osservanza della Legge (ancorché scritta col dito di Jahvè, suo Padre). Vero è, secondo i Vangeli, che i discepoli di Gesù rinunciarono a tutto per seguirlo. Vero è che Gesù premiò la loro fedeltà e abnegazione, promettendo loro un posticino di tutto riguardo in quel sospirato regno dell’aldilà, ma anche una maggiore ricompensa nell’aldiquà, avendo gli apostoli rinunciato ai beni materiali (in verità, furono perseguitati e martirizzati; altro che ricompensa nell'aldiquà!). Fu, invece, la carità dei doviziosi convertiti, che non avevano rinunciato al possesso dei beni materiali, a consentire a Gesù e discepoli di accudire alle necessità della vita e della causa. Gesù, peraltro, rifiutando l’attributo di “buono” dal giovane e agiato notabile, poiché lo considerava un requisito confacente esclusivamente a Dio, negò implicitamente l’assimilazione della sua natura con la divina essenza. Pur essendo un uomo timorato di Dio, Gesù era alieno dai formalismi rituali. Riteneva invece meritorio vivere in umiltà, osservando la sua morale, piuttosto che adempiere scrupolosamente alle pratiche cultuali giudaiche. Gesù non somministrò battesimi, cresime, comunioni, unioni matrimoniali o estreme unzioni. Non ordinò sacerdoti, né ascoltò confessioni. Non celebrò messe di nessun rito: né solenni né basse né cantate né funebri. Non s’interessò di culto, ma d’etica frammista a religiosità. Gesù, insomma, non fondò una religione né istituì i sacramenti. La Chiesa, invece, con l’antesignano Paolo, apostolo delle genti, ha inventato il cristianesimo, trasformandolo in cattolicesimo, caratterizzato dalla “libido dominandi” del clero gerarchizzato, capo indiscusso del quale è un monarca santo e sacro, regnante sul colle Vaticano, che non può essere giudicato (ancorché giudichi il prossimo) né può errare (essendosi proclamato infallibile, quando parla dalla “Cathedra Petri”). La sottomissione al “dictatus papae” è indispensabile per la salvezza nell’oltretomba dei suoi fedeli sudditi (parola di papa Bonifacio VIII).

I presupposti per seguire Gesù, sulla via della perfezione e della salvezza, consistono nell’abbandonare la cura dei propri affari e nel rinunciare agli affetti famigliari. Non tutti però sono disposti ad accettare questi sacrifici. Quanti possono dunque scampare al castigo? Gesù rassicura che saranno in tanti, perché ciò che agli uomini pare impossibile, a Dio, invece, tutto è possibile (anche di non credere nella sua stessa esistenza?). Zaccheo, nonostante le sue ladronerie e una parziale rinunzia alle ricchezze, può salvarsi in virtù della fede in Cristo. Ricchi e ladroni anche possono sperare la salvezza, sempreché riescano a ottenere il salvacondotto per passare attraverso la cruna della grazia divina. Se è ben accetto a Dio ridursi a vivere in povertà, di diverso avviso sono gli autori delle antiche Sacre Scritture giudaiche, per i quali i beni materiali e lo stato di benessere erano segni evidenti della divina benevolenza, un premio per i giusti (Sl 112, 3; Pr 8, 18). Dio stesso promise al suo popolo prediletto benedizioni consistenti in prosperità materiali, purché si attenesse all’osservanza dei suoi precetti (Dt 15, 6; 28, 1-14).

A chi dobbiamo dare ascolto, al dio giudaico Jahvè o a Gesù, proclamato dai suoi fedeli Figlio di Dio? A chi vuole la prosperità degli uomini sulla terra o a chi, all’opposto, predilige l’infelice povertà, elevandola a virtù, per la conquista di celestiali beatitudini? Perché dobbiamo rinunciare ai beni della terra, frutto d'onesto e duro lavoro, per agognare illusori tesori d’inesistenti luoghi paradisiaci? Perché rinunciare, senza esitare, agli affetti delle persone care per meritarci l’amore di Cristo? (Cfr. Mt 8, 21-22, 10, 37, Lc 9, 59-62, 14, 26). Perché sacrificare la singolare esistenza umana, rinchiudendosi tra mura claustrali a recitare preghiere a Dio, illusoria divinità? In che consiste il perverso ossimoro “gioia della sofferenza” d’agostiniana memoria?

Un giorno, mentre Gesù predicava, arrivarono i suoi parenti. Erano preoccupati per le dicerie che avevano sentito dire sul suo conto, perciò volevano riportarselo a casa.  Alla folla che lo circondava, spiegavano che Gesù era "uscito di senno". Neanche i suoi famigliari comprendevano il mistero inscrutabile di Cristo! (Mc 3, 20-21). Un altro giorno, vennero a cercarlo la madre e i fratelli per parlargli. Di fratelli Gesù ne aveva quattro (cfr. Mt 13, 55-56, Mc 6, 3), oltre ad alcune sorelle (i cui nomi sono riportati nell’apocrifo “Storia di Giuseppe, il falegname”). I famigliari tentarono di avvicinarsi a lui, ma ciò fu loro impedito dalla gran folla che lo circondava. Taluni informarono Gesù del loro arrivo, ma lui non si curò né della madre né tanto meno dei fratelli. Si rivolse invece alla folla per annunciare che considerava appartenente alla sua famiglia chiunque facesse la volontà del Padre, dimorante nei cieli, di cui egli era l’esclusivo interprete (Mt 12, 46-50, Mc 3, 31-35, Lc 8, 19-21). Per essere degni sudditi del celeste regno paterno, Gesù esige (Lc 9, 48; 14, 11; 18, 14; 22, 26) non solo l’abbandono dei legami famigliari (di cui aveva dato l’esempio) e lo stato di povertà (anche se questa decisione così dura può privare la famiglia di un valido sostentamento e ridurre all’accattonaggio il discepolo), ma anche l’umiltà (la rinuncia all’affermazione della propria personalità) e l’obbedienza alla fede fino al martirio (Fl 2, 6-11). Tutto ciò, però, non basta ancora. Esige altresì la purezza (la castità), la misericordia e il “buonismo” a tutti i costi, anche nei confronti di chi ci odia (Mt 19, 12; 5, 38 seg., Lc 6, 27 seg.). Provvisto di queste doti, il discepolo di Gesù può sperare di essere innalzato nei cieli e sugli altari delle chiese. Questi requisiti, in verità, sono diversi da quelli indicati da Mosè nell’A.T., dove ricchezza, potenza e prosperità erano considerati doni di Dio. Inoltre, essere fecondi e moltiplicare la specie era un dovere, come anche quello di vendicarsi dei nemici, persino invocando l’aiuto di Sabaoth, dio degli eserciti d’Israele. Solo su un punto i due santoni, Gesù e Mosè, paiono in accordo: cioè nel prodigare premi e castighi per tutti. Castighi a chi non si adegua alla volontà di Dio (sia quello gesuano, paternalistico, sia quello mosaico, geloso, iroso, bellicoso). Premi a chi si sottomette alla volontà di Dio (cioè, in realtà, a quella mosaica e a quella gesuana). Una differenza però sussiste: il dio di Mosè fa scontare le sofferenze o godere i premi durante la vita terrena (Es 23, 20-33, Lv 26, 1-46, Dt 28, 1-46); il dio Gesù, rimanda godimenti e patimenti nell’altro mondo, per un tempo illimitato. Qualche soddisfazione spirituale e materiale, non disgiunta da sofferenze (non c’è rosa senza spine), il dio gesuano ha promesso (invano) anche nell’aldiquà ai discepoli più meritevoli.

Il centurione Cornelio (At 10, 1-11, 18) era un facoltoso pagano che si prodigava in elemosine e pregava assiduamente, essendo pio e timorato di Dio (cioè di Giove, il dio adorato dai Romani). Un giorno, durante la pennichella, ebbe una visione: uno spiritello gli parlava, assicurandolo che le sue preghiere e la sua generosità avevano fatto colpo lassù (tra gli dei dell’Olimpo romano), perciò si meritava un premio. Quale? Ascoltare la “buona novella” predicata dall’apostolo Pietro. Il giorno seguente, Cornelio ordinò ai suoi servi di andare a chiamare Pietro. Questi era ospite in casa di un certo Simone, conciatore di pelli. Prima che arrivassero i servi di Cornelio, Pietro si fece preparare del cibo. Durante l’attesa, fu rapito in estasi (la fame gioca brutti scherzi). Gli apparve una tovaglia imbandita d’ogni ben di dio e udì la voce di uno spiritello che lo esortava a mangiare di tutto, senza fare complimenti. Pietro, però, vedendo sulla tavola cibi impuri (era pur sempre un ebreo, osservante delle restrizioni alimentari comandate da Jahvè), non gradì l’invito dello spiritello. La Legge, infatti, vietava di nutrirsi con cibarie considerate impure (Lv 11, 2-23; Dt 14, 3-21). La voce però insisteva, adducendo che quelle vivande non potevano essere immonde, essendo state purificate dal dio Gesù. Quando sparì la visione, Pietro riprese coscienza (e con essa, anche i morsi della fame ripresero a tormentarlo), ma rimase perplesso, non comprendendone il significato. Arrivati i servi di Cornelio, gli riferirono i desiderata del padrone. Pietro, su suggerimento dello Spirito Santo, acconsentì alla richiesta di Cornelio. Questi stava attendendolo in compagnia di parenti e amici. Appena lo vide entrare in casa, si prostrò ai suoi piedi, irritando l’apostolo, che lo invitò ad alzarsi, assicurandolo che era un uomo come lui, non un dio da adorare. Pur essendo un giudeo, e come tale non avrebbe potuto legarsi a uno straniero, Pietro, illuminato dallo Spirito Santo nella comprensione della visione, spiegò a Cornelio che Dio (bontà sua) gli aveva insegnato che i pagani non erano esseri immondi. Potevano dunque anche loro beneficiare dell’ascolto della “buona novella”. Ci penserà poi Paolo, l’apostolo delle genti per comando divino, a convertire i pagani.

Il concetto di confine per gli ebrei non aveva valenza solamente geografica, circoscritta al territorio soggetto alla protezione del dio israelitico, che ne garantiva l’inviolabilità e l’incolumità. Jahvè “ab antiquo” aveva legittimato l’eletto popolo giudaico a soggiornare in quella terra che aveva loro promesso in proprietà esclusiva. Il confine, quindi, aveva anche una valenza tipica di una società chiusa, in quanto delimitava l’esclusiva appartenenza (etnica, sociale, religiosa) degli ebrei al loro Dio nazionale. Da quel fatidico giorno della visione di Pietro, avendo Dio cambiato opinione riguardo ai confini d’Israele, il Vangelo poté essere predicato anche ai pagani. Nel bel mezzo della predica pietrina avvenne un prodigio: lo Spirito Santo discese dall’alta dimora e illuminò le cellule grigie degli astanti, che cominciarono a parlare in lingue diverse, trasformando la casa di Cornelio in una babele. Esaltati dallo Spirito, tutti magnificarono la potenza di Dio, sbalordendo i “circoncisi” giudei, venuti con Pietro, che vedevano attuarsi anche sui pagani l’effusione dei doni dello Spirito Santo. Appena terminò il fenomeno di xenoglossia, Pietro ordinò di battezzare i pagani, i quali, esultanti, inneggiarono l’alleluia. Convertito al cristianesimo di là da venire, il ricco Cornelio non rinunciò al possesso del suo patrimonio. Del resto, elargiva elemosine ai poveri e ciò bastava per entrare nel regno dei cieli, vivaddio!

Giuseppe d’Arimatea, che curò la sepoltura di Gesù, deponendone la salma nel sepolcro di sua proprietà, si fece suo discepolo, pur essendo un uomo ricco (Mt 27, 57-60; Mc 15,42-46; Lc 23, 50-53; Gv 19, 38-42). Episodi leggendari su questo discepolo si leggono nei libri apocrifi e nella mitizzata letteratura medievale del “ciclo arturiano”. Per lui, come per altri ricchi discepoli di Gesù, non valeva la regola di rinunciare ai beni della vita terrena per guadagnarsi il premio di quella celeste ed eterna? Sono queste delle eccezioni che confermano la regola? Una regola che dovevano abbracciare, senza riserve, solamente i fedelissimi (ma non sempre) apostoli? Del resto, a ricompensa della loro abnegazione, Gesù promise doni straordinari, centuplicandoli. Dodici troni, “a latere” del suo scranno glorioso, erano già stati apprestati per loro nel regno celeste. Là un giorno si sarebbero assisi, redivivi, per giudicare le (mitiche) dodici tribù d’Israele. Quest’illusoria promessa, forse, serviva a ripagarli per le umiliazioni che avrebbero dovuto subire nel mondo. Quanto alle altre tribù umane, sparse per l’ecumene, esse troveranno nell’aldilà l’ebreo Gesù cristianizzato, giudice inflessibile, che si pronuncerà sulle loro malefatte mediante inappellabile giudizio.

Gesù, contestatore dell’ordine mosaico, disceso dalle stelle, nato in una stalla, rifiutato dal popolo eletto, volse lo sguardo alle genti pagane, alle quali inviò i suoi missionari, soprattutto il tenace Paolo, ad annunciare la “buona novella”. La setta ebraica dei nazareni si trasformò, nel tempo, nella Chiesa dei cristiani e in quella più potente dei cattolici apostolici romani. Costoro divennero testimoni, esegeti, manipolatori della parola di chi, bontà sua, nulla scrisse. La dottrina gesuana è stata tramandata ai posteri con dovizia di notizie leggendarie, contraddittorie, inattendibili e fantasiose speculazioni teologiche. La fede nella cristiana dottrina appare del tutto inaffidabile, salvo crederci per grazia ricevuta. Giova rammentare, in proposito, che la cieca fede nelle parole del Vangelo, tramandato e manipolato dalla Chiesa, rende gli uomini servi delle menzogne del clero.      


Lucio Apulo Daunio





I PRIMI DISCEPOLI DEL CRISTO GESU’



             Discordanti sono i racconti degli evangelisti riguardo alla chiamata dei primi discepoli. Nel Vangelo secondo Giovanni (1, 35-51) si attesta che i primi due che seguirono Gesù erano discepoli del profeta Giovanni Battista. Si racconta che un giorno Giovanni vide Gesù passare nelle vicinanze e lo additò ai discepoli, definendolo “Agnello di Dio”. Ciò bastò a persuadere due di loro. Così, lì per lì, desiderosi di entrare nell'ovile di Cristo, piantarono in asso il Battista per seguire l’altro. Gesù, accortosi che quei due lo stavano seguendo quatton quattoni, si voltò e chiese loro che cosa stavano cercando. Quelli risposero che volevano sapere dove alloggiasse. Gesù li invitò a seguirlo. Arrivati che furono, visto ciò che c’era da vedere, cioè dove era il ricetto di Gesù, i due neofiti restarono con lui (non è dato sapere altro). Uno dei due si chiamava Andrea (incerta è l’identificazione dell’altro). Andrea era fratello di Simone, che andò subito a cercare per riferirgli di aver trovato il Messia, l’Agnello di Dio, destinato a essere sacrificato sull'ara del mondo per discolpare l’umana gente da una presunta colpa originaria. Simone si convinse a seguirlo ed entrambi andarono a trovare Gesù. Questi, appena vide Simone, lo fissò negli occhi e lo chiamò per nome, pronunciando anche quello di suo padre. Che Gesù conoscesse, in quanto dotato di sovrumana conoscenza, le generalità di Simone e di suo padre, può credersi solo in base alla fede. Verosimilmente, Gesù ne era stato informato prima che l’altro arrivasse. Se Gesù avesse facoltà divine, lo lasciamo credere ai suoi fedeli. Intanto, tenendo lo sguardo sempre fisso su Simone (ipnotizzandolo?), lo conquistò (plagiò) alla sua causa, attribuendogli il nome Pietro (Kefa in aramaico e Pétros in greco significano pietra, forse un soprannome per le persone di aspetto massiccio). In un passo di Matteo (16, 17), Gesù chiama Simone “figlio di Giona”. In aramaico “bar Jona” potrebbe significare figlio di Giona, cioè di Giovanni (cfr. Gv 1, 42 e 21, 15). Nessuna fonte però riporta Giona (Jona) come abbreviazione di Giovanni. Nel testo greco del vangelo, l’appellativo “barjona” è scritto tutto attaccato. In tal caso potrebbe significare “patriota” o “ribelle” e potrebbe alludere all'appartenenza di Simone a una setta radicale militante. Infatti, egli tenterà una resistenza armata durante l’arresto di Gesù (Gv 18, 10). Sarà proprio (metaforicamente parlando) sulla roccia pietrina che la costituenda Chiesa di Cristo edificherà il potere temporale e spirituale, sostituendo l’Agnello di Dio con il proficuo vitello d’oro.

Un giorno, mentre girovagava per la Galilea, Gesù incontrò Filippo e gli ordinò di seguirlo. L’altro, senza battere ciglio, ammaliato da Gesù, si convertì alla sua causa. Un giorno, incontrando il suo amico Natanaele, Filippo gli riferì di aver trovato il Messia, annunciato da Mosè e dagli altri profeti. L’Unto del Signore si chiamava Gesù. Proveniva da Nazareth di Galilea ed era figlio di un carpentiere di nome Giuseppe. Filippo non poteva immaginare che i discepoli l’avrebbero poi innalzato a Figlio di Dio. Natanaele, però, si mostrò alquanto scettico riguardo alla provenienza del Messia da una regione di cattiva reputazione. Egli aveva il pregiudizio, comune allora tra i giudei, che dalla Galilea non potesse arrivare qualcosa di buono. Era un territorio di militanza rivoluzionaria, generatrice di movimenti di ribellione contro l’occupazione romana e i loro collaborazionisti. Certamente, aveva sentito parlare della rivolta antiromana, guidata da Giuda il Galileo, capo degli zeloti (i galilei messianici, pieni di zelo per la Legge), tra le cui file militava l’ala estremista dei sicari (cfr At 5, 34 seg.), denominati “latrones” dai romani, ed era informato della durissima repressione che ne seguì. Filippo, tuttavia, riuscì a convincerlo. Andarono entrambi da Gesù, affinché Natanaele si rendesse conto che il Cristo era fatto di tutt’altra pasta (in verità, fu condannato a morte con l’accusa di sobillare il popolo, cfr Lc 23, 5). Non poté trovare minore accoglienza, poiché Gesù, appena lo vide, l’adulò, elogiandolo come autentico israelita in cui non c’era falsità. Natanaele rimase sbigottito nell’udire quelle suadenti parole, con le quali Gesù dimostrava di conoscerlo nell'intimo. Gli chiese donde provenisse la sua conoscenza. Gesù rispose di averlo già visto…sotto il fico (sic!). Una risposta da tomo? Una percezione telepatica? Un riferimento simbolico all’albero che illuminò Buddha? Non è dato sapere. Fico o non che fosse, veduto o non che l’ebbe, la risposta di Gesù soddisfece Natanaele, fugando la diffidenza su quelli provenienti dalla Galilea. Manifestò subito il suo entusiasmo per Gesù, lodandolo come re d’Israele, figlio di Dio (nel senso giudaico di titolo messianico). Ascoltando le lusinghe dell’altro, Gesù non stette nella pelle. Ringalluzzì e giocò di grosso. Aveva compreso il carattere del discepolo, azzeccato il luogo dove l’aveva notato, ma tutto questo non era niente in confronto ai prodigi che avrebbe ostentato in seguito. La fantasia di Gesù esplose, solleticata dalla curiosità di Natanaele, al quale assicurò che gli avrebbe mostrato cieli che si aprivano e angeli che apparivano in altalenanti saliscendi, come se fossero dei burattini al comando del puparo. Queste assurdità, che la Chiesa trionfante spaccia per verità sacrosante, son fole che servono a sbigottire pii creduloni. Quanto a immaginativa, gli evangelisti proprio non sanno contenersi nel descrivere le gesta mirabolanti del loro eroe, esagerando fino all’inverosimile. Della locuzione “est modus in rebus”, che condanna ogni esagerazione, gli autori dei Vangeli non fecero tesoro.

Nella schematica esposizione del Vangelo secondo Marco, l’evangelista presenta una diversa versione della chiamata dei primi discepoli di Gesù (Mc 1, 14-20). Si racconta che, dopo l’arresto di Giovanni Battista, ordinato da Erode Antipa, Gesù (verosimilmente discepolo del Battista) ritornò in Galilea, dove iniziò a predicare il Vangelo del Regno di Dio, essendo ormai terminato, a suo giudizio, il tempo dell’attesa messianica. Esortava a pentirsi e a convertirsi al suo messaggio e sperare nella salvezza dalle pene infernali nell’aldilà. Questo triste luogo oltretomba, invenzione di antiche superstiziose credenze, non è il fosco Sheol giudaico né il tenebroso Ade pagano, cupo, umido, marcescente. Gli evangelisti lo raffigurano paragonandolo all’ardente Geenna, la valle nei pressi del monte Sion in Gerusalemme, dove perennemente bruciavano immondizie e cadaveri. Marco racconta che un giorno, mentre Gesù passeggiava lungo la riva del lago di Genesaret, in Galilea, vide due pescatori intenti a gettare le reti nelle acque del lago. Erano i fratelli Simone e Andrea. Li chiamò e li fece pescatori d’uomini (al loro amo, infatti, abboccheranno in molti). I due, forse allettati dalla prospettiva di un lavoro meno oneroso, decisero tosto di cambiar mestiere, non riflettendo minimamente sulle conseguenze della loro decisione. Lasciarono le reti e, al pari di due sprovveduti, lo seguirono, senza darsi pensiero su come sarebbero campati sia loro sia le rispettive famiglie, privi dei proventi del loro lavoro. Sperarono nella divina provvidenza? Niente affatto! Fu invece la carità del prossimo benestante a fornire loro di che vivere per compiere la divina missione. In quel medesimo giorno, secondo il racconto dell’evangelista, mentre procedeva lungo la riva del lago, Gesù vide altri due pescatori: erano i fratelli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che stavano sulla barca, intenti a rassettare le reti. Li chiamò, e quelli andarono da lui, senza pensarci due volte, avvinti dal suo carisma. Lo seguirono senza remore, abbandonando baracca e burattini, ossia, barca, genitori, aiutanti e proventi della pesca. Gesù li soprannominò “figli del tuono” (boanerghes), forse per il loro carattere impulsivo e vendicativo (cfr Lc 9, 54), forse perché erano ribelli zeloti, ostili all’autorità romana. Queste improvvise conversioni appaiono del tutto inattendibili. Può la grazia suscitare una fede istantanea, che giustifichi la cieca disponibilità a seguire uno sconosciuto santone? Furono ipnotizzati, ammaliati o plagiati dal Cristo Gesù? Il più professionale dei moderni strizzacervelli non sarebbe capace di convincere chicchessia in un batter d’occhio, come fece Gesù con i pescatori, secondo la testimonianza riportata nel Vangelo marciano. Alleluia!

L’evangelista Matteo (Mt 4, 12-22) riproduce il racconto di Marco sulla conversione dei primi discepoli. Egli attesta che Gesù, lasciata Nazareth, andò ad abitare in Cafarnao, un villaggio sulla riva del lago di Galilea, affinché si adempisse il vaticinio del profeta Isaia. Siamo alla solita tiritera delle citazioni veterotestamentarie, con cui gli evangelisti cercano di dimostrare le predizioni riguardanti l’avvento del Cristo Gesù, cioè che questi operava secondo le antiche (pseudo) profezie. In verità, le profezie dell’Antico Testamento non hanno alcun legame con la vicenda del Nazareno. Quanto al suddetto vaticinio (Is 8, 23; 9, 1-6), esso aveva lo scopo di consolare il popolo d’Israele, oppresso dai nemici, prospettando loro la speranza dell’avvento di un re-messia liberatore, forte come Davide, sapiente come Salomone, che avrebbe regnato dall’uno all’altro mare e di cui tutti gli altri re della Terra sarebbero stati tributari. Nel Vangelo secondo Luca (Lc 4, 14-31), invece, si chiarisce che Gesù lasciò Nazareth e si stabilì a Cafarnao a causa di un diverbio con i suoi compaesani. La profezia d’Isaia, quindi, ci azzecca come i cavoli a merenda.

L’evangelista Luca (Lc 5, 1-11) racconta la vicenda delle prime conversioni, adornandola con aggiuntivi episodi. Il sipario del dramma si apre con la scena dell’apparizione di Gesù intento a predicare sulla riva del lago di Galilea, circondato dalla folla che fa ressa intorno a lui per ascoltare la buona novella sul Regno di Dio. Soffocato dalla calca, Gesù si apre un varco tra la folla, avvicinandosi a dei pescatori intenti a lavare le reti sulla riva del lago. Prega uno di loro, di nome Simone, affinché lo accompagni con la sua barca a breve distanza dalla riva, dove avrebbe potuto più agevolmente continuare la sua arringa salvifica alla folla vogliosa di ascoltarlo (erano così tanti in Israele i nullafacenti?). La sua richiesta è accolta. Terminato il sermone evangelico, mentre la folla comincia a diradarsi, Gesù decide di contraccambiare il favore ricevuto. Invita Simone ad andare a pescare con i suoi compagni. L’altro risponde che sarebbe una perdita di tempo, avendo già faticato, inutilmente, una notte intera. Prende tuttavia in parola il santone (non si sa mai…!) e ritorna a pescare con i suoi compagni. Gettano le reti e, quando le tirano su, queste (manco a dirlo!) straboccano di pesci di lago. Per evitare di strappare le reti e di affondare la barca, chiamano in soccorso altri pescatori. Stupefatto per il prodigio, Simone, che sarà soprannominato Pietro, va a prostrarsi ai piedi di Gesù. Lo esorta ad allontanarsi da lui, uomo di poca fede e peccatore (della precedente predica di Gesù, che non dava “conquibus”, Simon Pietro non si era curato più di tanto). Gesù risponde che vuole farlo pescatore d’uomini (sventura per chi abboccherà!). Simone non esita un solo istante alla chiamata nella compagnia gesuana. Decide di cambiar mestiere, abbandonando ogni cosa per seguirlo. Si fa pescatore d’uomini, antesignano di ciò che diverrà poi la casta sacralizzata del clero, senz’arte, ma di parte, separata dalla profana gente. Altri due compagni si uniscono a lui. Sono i figli di Zebedeo: Giacomo e Giovanni. Questi sono, secondo Luca, i primi tre militi della leva gesuana, chiamati alla missione di pescatori d’uomini per il regno dei cieli. Fu la miracolosa cattura di pesci a convincere i tre pescatori a seguire Gesù e a non curarsi di come sarebbero campati? Avevano cieca fiducia nell’approvvigionamento della Divina Provvidenza? Senza i loro proventi, come avrebbero potuto far fronte alle necessità della vita e procurare la sussistenza alle loro famiglie? Queste non si opposero alla loro impulsiva decisione? Quanto agli altri compagni pescatori, non pare che fossero meritevoli, a insindacabile giudizio di Dio Padre, di ricevere la grazia del Figlio. Presumibilmente, costoro non erano scriteriati come i tre “vocati” alla divina missione apostolica. L’insondabile mistero della grazia divina è dono riservato unicamente agli eletti per buona pace degli altri.

Della vocazione di un altro discepolo, un pubblicano, appaltatore di tasse per conto dei Romani, ne parlano concordemente gli autori dei tre Vangeli sinottici (Mt 9, 9-13, Mc 2, 13-17, Lc 5, 27-32). Il mestiere di gabelliere, in quei tempi, era ritenuto disonesto, non solo perché i pubblicani (romani o giudei) erano al servizio di una potenza straniera, che occupava la Palestina, ma anche perché esercitavano quel mestiere con esosità, compiendo atti vessatori (estorcevano denaro alla popolazione in misura maggiore rispetto a quanto dovevano versare al fisco romano). I pubblicani giudei venivano tacciati come traditori della nazione. Secondo gli evangelisti Marco e Luca, il discepolo “vocato” si chiama Levi, figlio d’Alfeo. Si chiama invece Matteo nell’altro omonimo vangelo. Ne consegue che, escludendo l’ipotesi che possa trattarsi di persone diverse, il discepolo in questione ha due nomi: Levi e Matteo. Verosimilmente, l’episodio narra la vocazione di un pubblicano, che potrebbe essere l’autore del Vangelo matteano. In verità, gli studiosi ritengono che il vangelo in questione sia stato redatto da un autore anonimo e attribuito all’apostolo Matteo per sancirne l’autorevolezza.

La chiamata alla leva di Cristo avvenne similmente alle precedenti conversioni. Un giorno Gesù vide il pubblicano Levi-Matteo seduto al banco delle imposte, intento nel suo lavoro, e lo chiamò. Quello si alzò e, senza esitare, abbandonò il desco e il redditizio impiego per seguire Gesù: alla chiamata di Dio non tentenna il milite cristiano! Pare incredibile! Invece è vero, parola di Vangelo! Tuttavia, prima di lasciare ogni cosa e dedicarsi all’apostolato, offrì un pranzo nella sua casa in onore di Gesù, nuovo padrone e patrono (non c’è santo che va in gloria, se manca la pappatoria!). Fu preparato un gran banchetto, al quale furono invitati numerosi ospiti di riguardo, tra cui gli immancabili farisei, scribi e dottori della Legge. Questi, durante il convito, si lamentarono con i discepoli di Gesù, perché lo vedevano in compagnia di pubblicani e di peccatori. In verità, stavano anche loro distesi sul triclinio intorno al medesimo desco a cibarsi assieme alla malfamata combriccola. Quantomeno inopportuno era il loro borbottio, potendo invece alzarsi e andarsene. Non lo fecero. Quel serpentino mormoreggiare raggiunse le orecchie di Gesù, il quale, avendo intuito le insinuazioni di quegli ipocriti, sentenziò, in tutta risposta (cfr. 1 Mc 2, 13-17), che il medico curava gli ammalati, non i sani. Quanto alla sua missione sulla terra, annunciò che non era venuto a redimere i giusti, ma i peccatori (anche se con molto ritardo e dando la preferenza all’eletto popolo del Padre celeste, ma questo è un altro discorso). L’evangelista Matteo aggiunge, al riguardo, che Gesù invitò i farisei ad apprendere la lezione del profeta Osea (Os 6, 6). Dio, secondo l’insegnamento di Osea, chiese al suo popolo d’avere sentimenti di misericordia e di amore verso il prossimo, ancorché peccatore, anziché limitarsi a offrire sacrifici idolatrici (che, tuttavia, erano pur sempre sanciti dalla Legge mosaica, di diritto divino). A sproposito citò, in quel frangente, fra le tante nefandezze bibliche, l’integralismo religioso di Mattatia. Il suo zelo per la Legge, infatti, spinse Mattatia a trucidare gli apostati, a circoncidere forzatamente i bimbi incirconcisi e a far strage di peccatori e rinnegati.

Della misericordia di Cristo trasse immeritato beneficio l’apostolo Paolo (1 Tm 1, 12-17), bestemmiatore e crudele persecutore dei nazareni. A lui fu concessa la grazia di Dio, inaspettatamente, non avendola richiesta. Vano sarebbe chiedersi con quali criteri Dio dona le sue grazie agli uomini.


 Lucio Apulo Daunio



sabato 30 luglio 2011


IL TIMORE DELLA MORTE




Il timore della morte ha generato la speranza di una vita futura, immortale, di eterna beatitudine. Le antiche pratiche misteriche cercavano di esorcizzare gli iniziati dalla morte, garantendogli uno stato di vita felice nell’altro mondo (come i misteri eleusini) e offrendogli un assaggio preliminare nel nostro mondo (come avveniva durante i baccanali dei misteri dionisiaci). I misteri orfici elevavano la natura umana a dignità divina e sancivano il diritto dell’uomo a un destino felice. I cristiani sperano, in virtù della fede in Dio, che ciò che non possono ottenere in questo mondo, potranno possederlo nell’altro. La speranza cristiana rende possibile esaudire nel futuro i desideri impossibili da realizzare nel presente. Questa ottimistica illusione consola il fedele dalle avversità quotidiane. Il fatto che una fede religiosa ha effetti positivi sulla vita di una persona credente, ciò non prova la sua veridicità. La via cristiana da percorrere, per la conquista del regno di Dio, è quella della rettitudine dedotta dal Vangelo. E’ una via marchiata dalla sofferenza, in espiazione dei peccati. La virtù cristiana deve conformarsi non solo al Vangelo del Cristo Gesù, ma soprattutto alle risoluzioni della Chiesa, che presume d’essere illuminata dallo Spirito Santo (At 15,28), terza ipostasi di un dio trino, invenzione del cristianesimo. La via retta, che deve fattivamente percorrere il cristiano, consiste nella sottomissione alla tirannia di un credo, ai valori imposti da una casta sacerdotale e da un sovrano assoluto, pontefice massimo, in materia di fede e di morale. La Chiesa si proclama maestra di rettitudine, di giustizia e di certezze desunte dalle verità di fede, supposte rivelate dallo spirito di Dio, del quale il suo infallibile vicario sulla terra crede di ricevere ispirazione quando deve imporre i suoi “diktat” in materia di diritto divino. Il Papa, sempre aggiornato dalle informative dell'altro mondo, è l’unico indiscusso interprete della sacra parola dell'Altissimo, fondamento della fede cristiana, pietrificata nella dogmatica teologica. Iniquo è tutto ciò che la Chiesa disapprova. Sotto la parvenza del peccato, dell’offesa fatta a Dio, la Chiesa maschera la riprovazione per chi viola l’ordine morale. Peccato è, invece, il pregiudizio di una Chiesa, di una fede religiosa. E’ violazione delle regole morali da essa prestabilite, pretese come universali, in base alle quali giudicare pensieri e comportamenti umani. I seguaci di Cristo, tuttavia, non hanno seguito alla lettera le sue massime evangeliche. Sotto l’egida della presunta ispirazione divina, hanno offuscato quella parte della dottrina del maestro non più utile ai loro scopi, perciò caduta in desuetudine. La Chiesa ha iniziato il suo gioco, cambiando le carte in tavola, quando si è accorta dell’inganno di Cristo. Egli aveva predetto l’imminenza del suo glorioso ritorno nel mondo. Sarebbe riapparso ancor prima che la morte falciasse i suoi discepoli. Aveva mentito riguardo alla parusia? I proto-cristiani, ad ogni modo, gli prestarono fede, giustificando il ritardo della parusia con dotte disquisizioni teologiche. La credenza nell’imminente ritorno glorioso del Risorto escludeva qualsiasi organizzazione chiesastica, clericale e cultuale. Cristo, però, non pare si sia comportato sempre da buon cristiano. Scagliò invettive addosso a quelli che non volevano ascoltarlo o non volevano accogliere il suo credo. Minacciò eterni castighi a chi non aderiva al suo vangelo. Dalle astiose prediche del Figlio possiamo desumere il carattere del Padre e quella della sua corte celeste e terrestre. Gli epigoni di Cristo non sono stati da meno del loro Maestro: hanno seguito le sue orme, il suo ombroso temperamento. Hanno negato la libertà d’espressione e la giustizia a chi non pensava e agiva in conformità agli schemi della cultura ortodossa cristiana. Hanno giudicato il prossimo con metodi inquisitori, infliggendo pubbliche mortificazioni e sofferenze corporali e morali. Hanno torturato e bruciato sul rogo gli eretici (come Giordano Bruno, critico sovversivo dell’ortodossia cristiana) o infliggendo loro, tramite il braccio secolare (il potere laico), restrizioni di libertà e pene detentive a vita (come quella sulle galere). Unica salvezza per il reo consisteva nella dichiarazione di voler rientrare nell’ovile di Pietro, rinunciando così al libero pensiero e alla libertà di esprimerlo. E con gli eretici, anche le presunte streghe furono perseguitate. Oggi la Chiesa ha cambiato volto: è diventata strenua paladina della vita fino a condannare l’aborto di un feto, di una materia priva di forma umana. La Santa Inquisizione fu istituita nel 1231; la tortura fu introdotta nel 1252 con la bolla “Ad Extirpanda”; successivi tribunali inquisitori furono designati dalla Controriforma contro Umanesimo, Rinascimento, Protestantesimo. L’efferata persecuzione clericale, alleata con il potere laico, ha messo a ferro e a fuoco intere regioni per sopprimere le sette ereticali (come la crociata contro gli albigesi). Vano è stato il tentativo, durante il medioevo, di edificare la vita sui valori spirituali propugnati dal cristianesimo primitivo. Vicari e seguaci di Cristo hanno reso il sesso scandaloso, se non finalizzato alla procreazione (ai tempi del papa-re, però, regnava sovrana la “pornocrazia” papale e clericale). Hanno imposto una morale che ha contribuito ad aumentare anziché lenire le sofferenze umane. Hanno frenato il perseguimento della prosperità e della felicità, valorizzando invece il dolore, simboleggiato dalla croce di Cristo. Hanno ostacolato il progresso della scienza, condannandola come eresia, quando essa contrastava con le pretese verità della Bibbia (indicativo, al riguardo, è stato il processo a Galileo). Hanno santificato persone che poco o nulla hanno contribuito al benessere e alla felicità degli uomini sulla terra. Si sono arricchiti in barba ai precetti evangelici, pur di trarre giovamento dalla favola di Cristo: “historia docuit quantum nos iuvasse illa de Christo fabula” (dalla “Lettera di papa Leone X al cardinal Bembo”, in archivi vaticani, corr. Leone X, vol.III, scaffale 41, secondo piano inferiore). Hanno innalzato dimore sfarzose a Dio e ai santi per la vanità dei loro culti. Si sono divisi in sette antagoniste, perseguitandosi tra loro. Tutto ciò che non trovava riscontro con il canone cristiano ortodosso, era tacciato d’eresia ed equiparato al culto diabolico o stregonesco. La caccia alle streghe pare sia stato lo sport preferito dai domenicani. Due di loro, Institor e Sprenger, hanno persino redatto il “Malleus maleficarum”, manuale del perfetto inquisitore. Molti archivi, testimoni delle nefandezze perpetrate dai cristiani, sono stati opportunamente distrutti in varie circostanze. Ancora oggi, nonostante l’evidenza dei progressi della scienza, il cristianesimo cerca la fondatezza delle sue radici nelle angustie culturali di un remoto medioevo e con l’avallo delle encicliche del maggior epigono di Cristo, edulcorando le malefatte del passato con una sorta di revisionismo storico. I cristiani, insomma, hanno mostrato al mondo che la religione (in verità tutte le religioni) è non solo inutile, ma anche dannosa, perché irrazionale, falsa, dogmatica, intollerante, fautrice di discordie. Essa, in opposizione al mondo reale, regno del demonio, valorizza un mondo immaginario, delizia delle delizie per la gloria degli ingenui e il tornaconto dei furbi. L’auspicio di morte del dio uni-trino (e di tutte le divinità partorite dalla fantasia umana) estinguerà dalla terra la specie dell’homo christianus (e religiosus), e, contemporaneamente, farà crollare il colossale sistema d’inganno collettivo messo in opera dalla Chiesa (e da altre organizzazioni religiose). La religione, quando assume aspetti dogmatici, offende e umilia la dignità e l’intelligenza umana. L’ossequio indecoroso ai sacri burocrati ecclesiastici da parte di taluni governanti, artefici di una politica codina a tutela del prestigio di una fede religiosa atavica e ingannevole, storicamente responsabile di scelleratezze, affetta da fobie etiche, avversa a movimenti modernisti, denota la triste connivenza (caratterizzata da riconciliazioni, patti compromissori e concordati) della cultura laica, ancora impregnata di cristianesimo, che stenta a realizzare la piena autonomia da qualsiasi fede religiosa, qualificandosi come Stato aconfessionale.

Sulla reale esistenza dell’uomo Gesù, creduto il Cristo, Figlio di Dio, non abbiamo riscontri storici affidabili. “Dio esiste” è una proposizione che persone credule, ineducate al senso critico, presuppongono vera per fede. Su ciò che non può essere indagato con concreta ragionevolezza e fondata storicità, si discetta tramite argomenti speculativi, che inducono a credere nell’esistenza di entità supreme, artefici del creato, che trascendono l’immediato e il mondo, ma che (si presume) possono essere conosciute intuitivamente. L’idea di Dio, infatti, si costruisce non solo per spiegare la realtà ultima delle cose, ma anche per colmare l’insufficienza della conoscenza umana con la fede illusoria nell’Assoluto. Pascal sosteneva che il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Il futuro del mondo e dell’umanità, tuttavia, non è scritto nella Bibbia o in altri testi sacralizzati, né dipende dalla volontà di supposte divinità. L’umanità appare come l’unica cosciente realtà che si trova a essere nel mondo per un concorso di casualità naturali. Essa può contare solo su se stessa, artefice del proprio destino, del senso della vita, della ricchezza di un sapere utile, di valori reali antitetici ai falsi miti che i giullari di Dio spacciano in templi e pubbliche piazze, mediante spettacolari liturgie, esibendoli con simboli feticisti a folle narcotizzate nell’estasi anelante speranze e bisogni. Fustigando l’inganno del sacro e la protervia del dominio clericale e dei suoi politicanti lacchè, proni a rituali inchini e baciamani, potrà essere riabilitata la calpestata e umiliata dignità e libertà di pensiero e di espressione degli uomini, valorizzando la concretezza di un’esistenza libera da alienanti illusioni. Scommettere sull’esistenza di Dio è un azzardo, essendo massimamente improbabile vincere la posta in gioco: l’illusione di un guadagno illimitato nell’aldilà. Se, con l’addio alla vita, il premio nell’oltretomba consisterà in un eterno vagolare tra anime oranti e ombre consunte, prive di vigore (menos), emozioni (thymos), intelligenza (nous), c’è di che annoiarsi a calpestare per l’eternità paradisiaci prati di asfodelo. Meglio accontentarsi di un modesto guadagno quaggiù: l’esserci nel mondo. Poi nulla e così sia, per sempre!


 Lucio Apulo Daunio




IL RITUALE MAGICO DEL CRISTIANESIMO



Durante l’esistenza terrena, l’uomo confida nella possibilità di mettersi in relazione con le misteriose forze soprannaturali, mediante arti magiche volte a predisporre la divinità a suo favore. La invoca con pratiche cultuali e la placa con preghiere, offerte, sacrifici. Egli cerca di stabilire un rapporto con l’ente assoluto e ne interpreta i segni al fine di realizzare nell’aldiquà ciò che vuole la divinità (aspetto religioso). L’esercizio della ritualità è una prerogativa sacerdotale. Compito del sacerdote è onorare la divinità per ingraziarsela e volgerla a favore dell’uomo. Il ministro del culto ha la funzione di mediare il rapporto tra l’uomo e il divino: è il trionfo del “pensiero magico-religioso” sul “pensiero razionale”, della verità di fede sulla verità oggettiva.

La religione cristiana commemora con sacrifici simbolici e sacri pasti una drammatica vicenda terrena di un dio fattosi uomo, concepito in tre distinte entità aventi un'unica sostanza divina. Le sue grazie, però, le concede arbitrariamente a chi vuole, purché sia sottomesso all’autorità della sua Chiesa, dispensatrice di (pseudo) verità. La drammatizzazione cerimoniale cristiana, ricca di pathos, si focalizza nel banchetto sacrificale, durante il rito della messa officiata dal sacerdote. Questi, dopo la consacrazione del pane (l’ostia, simbolo del corpo del dio) e del vino (simbolo del sangue del dio), divora ciò che, per magia, si converte nel corpo e nel sangue del dio (nella persona del Cristo Gesù, il Figlio di Dio risorto dalla morte). Il mistero dell’eucarestia (“mysterium” per la Chiesa, in quanto accade fuori dall’esperienza sensibile), consistente nel miracolo della transustanziazione, fa rivivere perennemente nel presente un evento mitico (concezione cristiana del tempo ciclico). Il sacro rito è regolato da scrupolose e minute prescrizioni e va eseguito correttamente. In verità, non Dio ha bisogno di culti esteriori e riti spettacolari, ma una Chiesa teatrale, finalizzata alla messa in scena di faraoniche cerimonie per tenere in soggezione il suo fedele gregge, devoto e obbediente ai diktat dell’autorità ecclesiastica, sempre vigile nella difesa dei propri privilegi di casta. Profezie, vaticini, sogni, visioni, segni, ierofanie, oracoli, sortilegi sono mezzi per ascoltare la divinità. Sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento s'invocano maledizioni per chi non ottempera ai precetti divini. Gesù maledice (a torto) persino l’albero di fico per non aver fruttificato, appagando un suo desiderio (Mt 21,19). Paolo anatematizza chi non ama il Signore (1Co 16,22) ed esecra persino gli angeli, qualora questi annunciassero un vangelo diverso da quello da lui predicato nel nome di Cristo (Ga 1,8). L’inflessibile Pietro, con la magica forza delle sue impietose parole, provoca la morte improvvisa di due fedeli, che gli hanno mentito (At 5,1 s). Nemmeno alcuni santi cristiani disdegneranno le maledizioni contro i nemici della fede.

L’esercizio pubblico della religione cristiana cattolica romana si attua per mezzo della Chiesa e dei suoi ministri (sacerdoti gerarchizzati), in conformità:

-ai comandamenti divini, desunti dalle Sacre Scritture; 

-alle norme del diritto canonico;

-alle prescrizioni dottrinarie decretate dal Vaticano.

I riti cultuali della liturgia cattolica sono finalizzati a propiziarsi la benevolenza della potenza divina. La dignità sacerdotale si fonda sulla “vocatio” (chiamata di Dio) e sull’acquisizione di uno specifico sapere. Il miracolo, evento eccezionale e inspiegabile, è assunto a testimonianza della benevolenza di Dio verso la comunità dei fedeli, all’interno della quale rafforza la fede, mentre all’esterno è strumento di propaganda. Il cristianesimo condivide con il paganesimo l’usanza di credere ai prodigi, alle apparizioni, ai sogni profetici, alle visioni, alle voci misteriose (cfr. “Liber prodigiorum” di Giulio Ossequente). L’iniziazione ai misteri sacramentali rende il cristiano partecipe della natura divina, che si manifesta attraverso i carismi. L’etica cristiana è desunta dalla dottrina elaborata sul modello comportamentale del Cristo, descritto nei Vangeli. Gesù si oppose al fariseismo, contrastandone la pratica sacrificale e accentuando gli aspetti della misericordia e della carità. La morale cristiana è obbedienza alla volontà di Dio, trasfusa in un codice di comportamento, la cui trasgressione fa cadere nel peccato. Agire secondo la propria volontà, anziché fare la volontà di Dio, è peccato. La riconciliazione con Dio richiede l’ammissione di responsabilità della colpa e il proponimento a non più commetterla. A perorare il perdono presso Dio Padre provvede il figlio Gesù. Non è chiaro però se Gesù intercede presso il Padre a favore di tutti i peccatori (1 Gv 2, 1-2) o solamente per chi ha ricevuto il dono della grazia (Gv 17,9). Il perdono divino si ottiene tramite l’intermediazione del sacerdote nel sacramento della confessione (una sorta di psicoterapia).

Le virtù teologali cristiane sono regole di condotta che riguardano Dio (cfr. 1 Ts 5, 8). Esse sono: la fede incondizionata (in opposizione alla miscredenza), la speranza di assurgere alla visione beatifica (come alternativa alla disperazione) e la carità (in opposizione all’odio). Carità è amore verso Dio sopra ogni cosa e verso il prossimo per amore di Lui (in vero, una carità pelosa, finalizzata al proprio tornaconto nell’altro mondo). Le virtù cardinali, inferiori a quelle teologali, desunte dalle quattro virtù platoniche, sono regole di condotta che si confanno ai precetti della fede. Esse consistono nel rispettare i diritti di ognuno (giustizia contro stoltezza); nel resistere alle avversità della vita (fortezza contro codardia); nel perseguire il giusto e il bene (prudenza contro avidità); nel temperare gli istinti naturali (temperanza contro lussuria). Le une e le altre virtù, parola della Chiesa, sono infuse da Dio nell’animo umano. Un’etica universale, però, implica che vi sia una Verità universalmente riconosciuta, in base alla quale si possa garantire e legittimare la validità dei valori per tutti, in ogni tempo e luogo. La realtà del mondo, invece, si presenta con molteplici verità e valori etici, dipendenti dalle diverse culture e dai periodi storici. Nella pratica delle virtù cristiane non difettano forme esasperate di perfezionismo, quali l’esperienza di vita monacale, le pratiche ascetiche, la clausura. Tutte queste pratiche, però, potrebbero sfociare nella nevrastenia religiosa. Esse tendono a mortificare il corpo, ritenuto fonte di peccato (Rm 7, 13-25), e aprono l’accesso mistico al divino (2 Pt 1, 4). Le realtà mondane sono svalutate e, di contro, sono esaltate quelle ultraterrene. Obbedienza, umiltà, compostezza, mortificazione: sono atti che qualificano la vita del santo agli occhi di Dio. Non più i giudei, bensì i cristiani costituiscono il nuovo popolo eletto, preordinato alla salvezza sin dall’origine del mondo. Solo i figli adottivi di Dio (Ef 1,4-5) sono stati designati al possesso dell’agognato regno celeste (Mt 25,34 seg) e alla vita sempiterna, in virtù e della grazia e della fede. I figliastri, invece, saranno gettati tra le fiamme dell’inferno. In verità, i condannati per eresia o per stregoneria dal tribunale della Santa (!) Inquisizione, quando non furono reclusi a marcire in tetre e gelide segrete o gettati in perpetua schiavitù, dopo aver patito scomuniche, crudeli torture, confische di beni, esposizione alla gogna, furono arsi vivi nel fuoco dei roghi, complice degli esecrabili misfatti il braccio secolare.

L’ambito religioso, giacché appartenente alla sfera divina, è caratterizzato dalla sacralità ed è isolato dal profano, vale a dire dal mondo naturale e dal vivere comune, aconfessionale. Siccome il sacro è associato all’idea di Dio, bene supremo, implica superiorità rispetto al profano. Sul luogo deputato al sacro (fanum), si edifica il tempio, dimora del dio, dove i sacerdoti, rivestiti con paramenti “old-faschioned” (del tutto “démodé”), circonfusi di carisma e d’arcani poteri, che fanno derivare dall’onnipotenza divina, celebrano culti rituali, propiziatori, finalizzati a mettere in contatto i fedeli con la divinità. La cura del sacro consiste nel compiere sacrifici, libazioni, lustrazioni, oblazioni, nell’officiare liturgie, nel predicare gli insondabili misteri divini, nel somministrare sacramenti, nell’impartire benedizioni, nell’intercedere la divina benevolenza mediante preghiere. Il tempio cristiano è anche un santuario (luogo santo), in cui si custodiscono (nel “tabernaculum”) suppellettili e immagini sacre, ostie consacrate, reliquie dei santi e dei martiri (cristiani perseguiti a causa della loro empietà verso le divinità pagane). Il tempio è considerato luogo di rifugio e d'asilo. Tutto ciò che si trova fuori dallo spazio sacro, è considerato profano. Il passaggio dal luogo circostante profano a quello sacro richiede l’espletamento di un rito purificatorio: l’abluzione con acqua benedetta, il segno della croce. Icone, statue e famedi in onore di santi, madonne e cristi adornano l’interno delle chiese cattoliche, istoriate con simboli, per essere comprensibili alle masse incolte dei fedeli. Icone di Madonne con il bambinello, avente sul capo la corona solare, ricalcano le antiche raffigurazioni egizie del dio Horus in braccio alla dea Iside e quelle babilonesi del dio aureolato Tammuz (che muore e risorge dopo tre giorni) in braccio alla dea Ishtar. Nel Medioevo, la maggior parte degli edifici religiosi possedeva pozzi sacri contenenti acque miracolose (mitiche fontane di vita e di giovinezza). Nel Tempio di Gerusalemme, costruito da Salomone, figlio di Davide, il sacerdote levita sacrificava un animale per la remissione temporanea delle colpe del popolo. L’ebreo Gesù, tempio vivente, agnello di Dio, sacrificò se stesso per redimere la colpa originaria del genere umano. Il suo sacrificio si perpetua quotidianamente nei templi cristiani durante la celebrazione della messa. Il ritualismo cultuale, messo in opera dal cattolicesimo durante un lungo processo d’inventiva elaborazione di simboli, riti e miti, è una forma di magia bianca, sacralizzata, ritenuta non malefica (come invece si qualifica quella nera, illegale) in base ad una gerarchia di valori convenzionali, legittimati. In verità, il culto feticistico delle reliquie e delle salme dei santi, eccelsi paladini della fede, innalzati e venerati sugli altari delle chiese cattoliche, destinatari delle intercessioni di fedeli imploranti grazie, è vera e propria superstizione. Una “superstitio nova” fu invece il giudizio della cultura pagana del tempo nei confronti del cristianesimo, perché non confacente (immodicus) con l’antica tradizione romana del “mos maiorum” (l’uso e il costume dei padri). 

Gli antichi Romani suddividevano i giorni in fasti (“dies profani” o “negotiosi”, per i quali non sussisteva alcun impedimento religioso alla trattazione degli affari) e nefasti (“dies sacri”, che cadevano sotto la proibizione divina). “Fas” era il diritto divino, distinto dallo “ius”, il diritto umano. L’esercizio delle attività era consentito solo durante i giorni fasti (leciti), non invece nei giorni nefasti, nei quali era considerato sacrilego. “Feriae” erano i giorni sacri agli dei, quindi nefasti. La norma regolatrice dei rapporti con la divinità era immutabile, inviolabile, superiore a quella regolatrice dei rapporti interpersonali, che doveva conformarsi all’altra. I “dies religiosi” erano giorni pieni di divieti, durante i quali bisognava sospendere ogni azione, privata e pubblica, laica e religiosa. Questi giorni, reputati di malaugurio, predisponevano l’uomo pio a prestare attenzione solo a ciò che era divino. Il riposo nel giorno di sabato, dopo una settimana lavorativa, è una tipica istituzione israelitica. Qualsiasi attività lavorativa è interdetta durante il sabato, giorno sacro a Dio. L’osservanza è praticata con rigore dalle sette ebraiche. I cristiani sostituiranno il sabato con la domenica (giorno della risurrezione del “Christus Dominus”). La ricorrenza festiva del “dies dominica” fu introdotta nell’anno 383 da Costantino in sostituzione del “dies solis” (giorno del “Deus Sol Invictus”, appellativo del dio Mitra). I musulmani hanno il loro “venerdì” santo per la preghiera collettiva e rituale ad Allah.

Il giorno festivo è contrassegnato da un’esperienza spirituale: i vari riti, che celebrano il culto alla divinità, commemorano, mediante forme simboliche, sacri episodi mitizzati. La religione cristiana (cattolicesimo) ha carattere formale e collettivo come l’antica religione romana, correlata alla meticolosità rituale del diritto. La generale accettazione dell’atmosfera festiva, drammatizzata dalla tradizione cristiana, induce al conformismo del “gioco” religioso. Durante le festività cristiane comandate dalla Chiesa, debitamente caricate di significato con sacre rappresentazioni, l’agire umano si svolge in modo diverso da quello quotidiano, non solo per quanto concerne la cura del sacro, ma anche per quanto concerne il profano. L’ambito profano della festività religiosa tende a prevalere parallelamente alla dissacrazione della festività e alla scristianizzazione della gente.

Non attraverso le illusioni della religione e della magia l’umanità potrà prosperare, bensì mediante la faticosa ricerca della verità oggettiva, conseguibile con metodiche scientifiche.



Lucio Apulo Daunio

CREDENZE CRISTIANE



Il bisogno di credere in qualche supposta verità, di dare un significato alla propria vita, di avere un riferimento di valori, un ideale, una fede religiosa, accomuna universalmente gli uomini. Il nostro modo di essere nel mondo è correlato alle circostanze di luogo e di tempo in cui viviamo. Ciò che ci distingue, invece, è se il fine che ciascuno persegue in rapporto all’essere nel mondo sia dannoso o utile.

La credenza cristiana in un ente divino, uno e trino, da cui deriverebbero valori morali, non implica né la sua reale esistenza né la cognizione della sua essenza, dotata di Verbo e di Spirito. In forza della fede, però, il cristiano crede che esista una realtà trascendente e che questa si sia concretata nell’immanenza per donare all’umanità la speranza della vita oltre la morte. L’ente divino è raffigurato come un Padre (antropomorfismo), che tramite la persona del Figlio, concepito nel ventre di una donna immacolata sempre vergine, prima, durante e dopo il parto, si è rivelato nell’umana natura, pur conservando quella divina (coincidentia oppositorum di umano e divino). Tutto ciò è paradossale, dunque irrazionale. E’ assurdo credere, sulla base di discutibili testimonianze, che un ebreo di nome Gesù sia il Figlio di Dio ed egli stesso Dio. E’ assurdo credere che il Figlio di Dio sia stato abbandonato dal Padre a un triste destino, affinché la sua sofferenza e il suo sacrificio riscattino l’umanità da una presunta colpa originale (cfr. Mc 15, 34). E’ assurdo credere che Gesù, crocefisso morto e sepolto, possa risorgere dalla morte, apparire vivo e piagato ai discepoli per poi ascendere al cielo nel regno del Padre, dove risiede alla sua destra, simbolo di potenza. Queste assurde credenze implicano la subordinazione della ragione al folle dominio della fede: dono irrazionale che lo Spirito Santo, terza persona divina del panteon cristiano, elargirebbe a eletti individui, ligi all’autorità della Chiesa docente, istituzione legittimata a propagare verità dogmatiche in nome di sconosciute entità divine. Questa sedicente sacra istituzione religiosa ha la pretesa di testimoniare verità teologiche, rivelate mediante presunta divina ispirazione, spacciandole per verità di fatto. Il cristiano ha l’obbligo imperativo di annunciare al mondo intero la sua fede sacrosanta. La sua certezza, fondata sulla fede nelle Sacre Scritture, è il requisito per conseguire la vittoria sul mondo (I Gv 5, 4).

L’onnisciente e onnipotente divina Trinità, invenzione cristiana, che predilige la stoltezza e l’ignoranza (1Co 1, 17-30), donando le sue grazie a chi più gli aggrada, appare diversa dal dio giudaico Jahvè. Questi, prima di essere cristianizzato, aveva scelto un uomo come Mosè, pieno della sapienza di questo mondo, istruito presso gli Egiziani, potente in parole e in opere (At 7, 22), per liberare il suo eletto popolo dalla cattività egiziana. In quei tempi biblici, in cui imperava una religione bellicista, l’altissima divina maestà non gradiva stolti e inetti ignoranti alla guida del suo popolo. Sacrosanta umana contraddizione!

L’evangelista Giovanni, rapito in un’estasi mistica, liricizza nel Vangelo a lui attribuito la narrazione della creazione del mondo e dell’uomo per opera del Verbo, che identifica nell’uomo-dio Gesù. Verbo (Logos) è la parola creatrice di Dio, conoscenza assoluta, realtà “ab aeterno” esistente presso il Padre, da lui generata nella persona del Figlio, creatore del mondo e dell’uomo (Pantokrator). Dio si è incarnato nella persona del Cristo Gesù per riscattare l’umanità dal peccato originale. Da questa diade divina, Padre e Figlio (c.d. Unigenito per decreto dei padri conciliari), procede (deriva, scaturisce) lo Spirito Santo (questione del “Filioque”, concausa del Grande Scisma). Il dio-duo, quindi, si vivifica e s’illumina con un terzo dio: tre diversi predicati di una stessa sostanza, ovvero, un’unità che si predica in tre sostanze. Questo pasticciaccio inestricabile sulla via misteriosa della fede cristiana è incomprensibile, illogico, cervellotico, giacché fondato su sofismi dogmatici teocristologici, partoriti con aspre contese e litigiose diatribe dai padri conciliari. Che i lumi della ragione possano liberare l’umana gente da codesti farraginosi rompicapi!

La Bibbia degli ebrei racconta che l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio (l’unico e indivisibile). In realtà, Dio, ideato a immagine e somiglianza dell’uomo, è un’invenzione di una casta sacerdotale a beneficio del proprio dominio sulle coscienze degli uomini. Pensiero e parola sono attributi umani, mediante i quali l’uomo crea e interpreta la realtà conoscibile e immagina l’ignoto. L’uomo ha immaginato Dio, trasfigurando idealmente se stesso, trasponendosi in un mondo immaginario, ultraterreno, dove crede che regni felicità e giustizia. In questa visione utopica, l’uomo ha posto la speranza di una vita immortale e beata, agognato premio per compensare mortificazioni e patimenti subiti durante la vita terrena. Le supreme verità di fede, annunciate dalla Chiesa in conformità a (inverosimili) rivelazioni e ispirazioni divine, non possono avere la pretesa dell’universalità (cattolicità), giacché non possono essere convalidate con prove e dimostrazioni incontrovertibili. Né può essere dimostrata l’esistenza di un ente assoluto, trascendente, che si sottrae al divenire del mondo. Solo in virtù della fede incondizionata nella “auctoritas” di un’istituzione religiosa e di una “scrittura”, che si crede sia stata redatta su divina ispirazione, si può assumere per vero ciò che la ragione respinge. La fede che riposa su speranze ritenute possibili, anziché su verità concrete, può trascendere in credenze ritenute vere, che escludono il dubbio e sprofondano la mente nel cieco, distruttivo fanatismo. La libertà di pensiero e di critica del credente, ligio alle prescrizioni dogmatiche della Chiesa, legittimata a predicare divine insussistenze, subiscono una rigida limitazione: l’imposizione del “munus obbedienti”. L’asservimento dell’intelligenza all’irrazionalità di un credo ostacola il progresso delle conoscenze. Il dogmatismo dottrinario fondamentalista ottenebra la ragione, intorbida la coscienza, mortifica l’intelligenza. Riti, simboli e credenze religiose, espressioni di significati reconditi, perpetuano il mistero di una vacua entità a profitto di una casta sacralizzata. La via regia della cristiana salvezza è rischiarata da una pallida luce, simile a quella di una lucciola vagante in una notte buia. Questa luce, purtroppo, illumina il cammino verso le tenebre del nulla. La casa di Dio, infatti, appare un tugurio d’inganni.

Si deve credere nell’esistenza di un ente trascendente, creatore del mondo, perché molte concezioni religiose lo asseriscono per fede? Oppure perché su un pianeta sperduto nell’immenso universo si è prodotto il fenomeno della vita e l’uomo appare come l’essere più importante e influente? La specie umana, peraltro, rappresenta un’infima percentuale rispetto a tutti gli organismi viventi (sia animali sia vegetali). I mitici racconti biblici, come quelli concernenti la creazione, la caduta dell’uomo a causa del peccato originale, il diluvio universale, le alleanze con Dio, ecc., ancorché tramandati in sacri libri, non implicano di per sé la loro veridicità. L’esistenza della realtà non necessariamente ha origine da supposte divinità, né ha un precipuo scopo. Un essere perfettissimo, qualora esista, non ha bisogno di creare qualcosa che completi il suo essere. E’ un circolo vizioso, un salto logico, credere che Dio, ente irreale, sia l’inizio e la fine del mondo reale. Vero è che l’universo per un verso appare regolato da leggi fisiche e armonie matematiche, che sembrano implicare l’esistenza di un artefice intelligente, ma, per un altro verso, appare condizionato da fenomeni imprevedibili e disarmonie cosmiche. Dovremmo perciò dedurre che Dio è un insieme d’armonie e disarmonie? D’intelligenza e irrazionalità? Non esistono fondate e comprovate ragioni a sostegno della credenza in una realtà soprannaturale, che trascende il mondo sensibile (teismo). Lo stesso concetto di Dio non è necessario all’equilibrio morale e intellettuale dell’uomo, se talune religioni e le persone differentemente credenti ne prescindono. La fede nell’aldilà, supposto regno di Dio, in cui vivrebbero esseri divini, madonne reginette, santi benefattori, beati gaudenti e cristi addetti alla “pesatura delle anime” (psicostasia), è mera superstizione, ancorché proficua fonte di sussistenza per la casta sacerdotale, deputata e legittimata alla rappresentazione del sacro. Elucubrazioni teologiche avvallano, con argomenti speciosi, tutto ciò che attiene al culto e alla dottrina religiosa. Sfarzose liturgie, litanie, preghiere ripetitive, fedeli proni in pii atteggiamenti davanti ad un’icona, a una statua, a una reliquia per ingraziarsi l’intervento divino, l’intercessione di un santo, la protezione di una madonna o dell’angelo custode, sono fatti che denotano aspetti formali e noiosi di una religione politeista e idolatra. Vera effettiva deità è quella che impera sulla terra (deus in terris), governando le coscienze in nome e per conto di un essere immaginario e tramite la sacralità di una fede dogmatica. E’ quella di chi vuole identificare il popolo dei cristiani con la comunità dei cittadini di una nazione. E’ quella di chi ha monopolizzato il tempo dell’uomo con feste comandate e sacri riti, osservati più per consuetudine e convenzione sociale che per convinzione. E’ quella di chi valorizza l’uomo non per i suoi meriti e la sua utilità sociale, ma per la fede in un’astratta divinità, vale a dire nell’oscura e irrazionale verità di una scrittura resa sacra poiché ritenuta ispirata dalla stessa divinità di cui tale scrittura rappresenta l’unica testimonianza. E’ quella di chi diffonde pseudo verità religiose, annichilendo l’indipendenza della ragione con la fede nel pastrocchio teologico della mistificazione salvifica di un redentore, ipostasi incarnata di un Dio trino. E’ quella di chi ha voluto rappresentarsi al mondo con l’insegna della tiara (copricapo di origine pagana, formato con tre sovrapposte corone, simbolo del triregno, cioè dei tre poteri ostentati dall’autorità papale: ecclesiastico, spirituale, temporale) e della mitra (già copricapo liturgico del culto mitraico). E’ quella di chi si arroga d’essere rettore dell’universo, in quanto presume di essere vicario di Dio, da cui fa discendere la supremazia spirituale (summa potestas) di una Chiesa teocratica sulle autorità laiche dell’orbe, insidiando la libertas civium con l’imposizione di supposte norme divine. Arduo sarà, anche per una società prevalentemente laica, rieducare l’uomo alla scepsi (intesa come moderato scetticismo) e alla criticità di giudizio, distinto dai pregiudizi indotti da credenze metafisiche. Dobbiamo imparare a distinguere il ragionamento critico dalla cieca fede dogmatica, la credenza religiosa dalla necessità di un’etica. Le credenze teistiche, una volta radicatesi nella psiche degli adolescenti, terrorizzati da presunti castighi infernali, proni ad accogliere convincimenti religiosi in assenza di adeguati strumenti per una riflessione critica, difficilmente potranno essere estirpate, resistendo persino davanti all’evidenza della realtà, essendo tali credenze, come i sensi, funzionali alla sopravvivenza umana. L’ecclesia imperante non si preoccupa tanto della salvezza delle anime, quanto e soprattutto dell’eventuale perdita dei suoi fedeli sudditi, pietra angolare del suo dominio bi-millenario.

La religione di un popolo, durante un determinato periodo storico, risente dei condizionamenti dell’ambiente in cui vive. L’oppressione subita dal popolo ebreo per le continue invasioni del loro territorio da parte di potenze straniere (assiri, babilonesi, persiani, egiziani, romani) può aver ingenerato in loro la speranza di un messia liberatore, portatore di giustizia. In natura vige la violenza del più forte, giustificata dalla necessità della sopravvivenza. L’uomo uccide animali per nutrirsi e spesso altri uomini per conquistare i loro territori e impossessarsi dei loro averi. Il bisogno di un popolo per assicurarsi la sopravvivenza può influenzare le sue concezioni mitico-religiose. La dura esistenza del popolo ebreo ha certamente influito sulle sue concezioni religiose, come quella della creazione del mondo, concepita come un’immane fatica di un dio, o come quella che giustifica l’assassinio dei nemici per occupare e difendere un territorio in nome della propria divinità protettrice. L’uccisione dei nemici diviene così una necessità per la sopravvivenza, moralmente giustificabile mediante l’espiazione di un sacrificio. Il loro dio Jahvè, secondo i leggendari racconti della Bibbia, giustifica l’uccisione di uomini per proteggere il suo prescelto popolo dai nemici, che ostacolano la conquista della terra che ha loro promesso. Jahvè si concepisce come un guerriero che combatte al fianco del suo popolo, assicurandone la vittoria, ma a una condizione: la scrupolosa osservanza delle sue prescrizioni. La dura lotta per la vita induce gli uomini a credere nella ricompensa di un premio nell’aldiquà in virtù dei meriti acquisiti. Il premio per i cristiani, a differenza di quello agognato dagli ebrei durante la loro terrena esistenza, si realizza dopo la morte, in un’eterna vita di beatitudini nel bengodi celeste, girovagando su prati d’asfodelo, tessendo lodi all’Onnipotente. Gesù, il Cristo divinizzato dai cristiani, annuncia il regno di Dio nell’altro mondo e insegna le regole per entrarci. La contemplazione della sua divina parola è concepita come suprema conoscenza (Lc 10, 38-42). Si sentenzia persino che Dio offusca l’intelligenza a chi non vuole comprendere le Sacre Scritture. In vero, è proprio l’emancipazione della ragione dalle assurde costrizioni dogmatiche della religione che consente la comprensione critica dei sacri testi, spacciati per verità sacrosante, ma che la critica rivela essere di dubbia attendibilità storica, pregni d’incredibili e leggendari episodi. Solo attraverso il vaglio dell’esperienza e la faticosa acquisizione della conoscenza delle cause dei fenomeni, la ragione umana consegue l’utile sapere.

Non ci sono pervenute le opere critiche degli autori pagani contro i cristiani, considerati portatori di una nuova superstizione. Possediamo solo frammenti riportati nelle opere di confutazione di alcuni autori cristiani: frammenti di Celso (da Origene), di Ierocle (da Eusebio), di Giuliano imperatore (da Cirillo di Alessandria), di Porfirio (da Girolamo e da Macario di Magnesia). Le opere dei dotti pagani contro la superstizione cristiana furono contestate, falsificate, condannate, bruciate (per disposto imperiale intorno alla metà del V secolo). La Chiesa di Cristo, affermatasi come legittima istituzione nel IV secolo, si è autoproclamata custode della sapienza divina, che un presunto Figlio di Dio le ha rivelato (e continua a illuminarla mediante lo Spirito Santo). Egli è Gesù, il “christus domini”, l’unto del Signore, il re consacrato, l’atteso Messia d’Israele, che si è fatto uomo per redimere l’umanità da una presunta colpa dei nostri primi avi, da espiare attraverso pratiche di purificazione (come nelle religioni misteriche). Terminate le persecuzioni contro i cristiani, iniziò l’ascesa del cristianesimo, consolidandosi e legittimandosi nello stato costantiniano, portatore di un pensiero politico-religioso egemonizzato dalla Chiesa. E’ il principio di una nuova storia di soprusi e di repressioni messe in atto dai cristiani contro paganesimo, eresie (deviazioni dall’ortodossia) e giudei (accusati di deicidio).  La libertà di parlare con franchezza (parresia) e spirito critico è soffocata. Il modo di vivere ellenico è perseguitato (assassinio di Ipazia, maestra, filosofa, scienziata, attiva nella prestigiosa biblioteca di Alessandria d'Egitto). Gli apologeti cristiani esaltano la figura del Cristo Gesù, avviando così la costruzione teologica della sua apoteosi. Il cristianesimo ideologico elaborato dalla Chiesa istituzionalizzata, governata teocraticamente da un monarca assoluto, si è posto a guida morale del mondo civilizzato, obliterando l’intelligenza della società civile nel sonno di una fede dogmatica e assurda, divergente dalla religione mosaica. E’ la storia inconfessabile di un cristianesimo criminale, che non può sconfessare i misfatti, gli inganni, le connivenze politiche, né tantomeno giustificarli, storicizzandoli nei vari contesti culturali e religiosi del tempo. Nel nome di Dio (che non vuole essere invocato invano), imposto anche con il ferro e il fuoco, i cristiani hanno divulgato il loro credo “urbi et orbi”, invadendo il Nuovo Mondo con l’antesignano Colombo, portatore dell’emblema, triste e cupo, del Cristo in croce. Non la colomba della pace, ma le aquile dei cristiani “conquistadores” spagnoli, seguiti dai portoghesi e dagli inglesi, hanno colonizzato e cristianizzato i popoli delle nuove terre scoperte (imperialismo). I cristiani si sono macchiati di genocidio, pulizia etnica, sfruttamento, schiavismo, giustificandosi con la necessità di diffondere l’unica vera fede. Hanno praticato un ignobile commercio umano: la tratta dei neri, venduti come schiavi. Il mito della maledizione di Noè ai Camiti (Gn 9, 20 seg), condannati alla schiavitù delle stirpi semitiche e iafetiche, e le teorie delle diseguaglianze delle razze umane e della presunta superiorità della razza bianca, hanno giustificato l’oppressione e l’asservimento dei popoli africani e hanno legittimato il diritto alla colonizzazione dei loro territori. Ai nostri giorni, l’empio commercio compiuto nel nome di Dio dai nuovi mercanti del tempio, usurpando indegnamente il suo nome e i suoi simboli (espressamente proibiti nel Decalogo mosaico) a profitto di un dominio spirituale e temporale, è il triste epilogo del cammino di una Chiesa in declino irreversibile, che ha sostituito l’agnello di Dio con il vangelo dei quattrini, con il business del vitello d’oro. La pietra angolare di Cristo non potrà più sorreggere la monumentale costruzione degli epigoni, fondata su dogmatismi di stampo clericale, su assurde credenze inerenti all’incarnazione, al sacrificio, alla morte e resurrezione di Dio nella persona del Figlio Unigenito, assunte come verità storiche, rinunciando al rischio della fede (che implica il dubbio). Né sono più sostenibili le concezioni fondate sulla predilezione selettiva della grazia e benevolenza divina, sul pregiudizio della superiorità della civiltà cristiana, sull’intransigenza dell’evangelizzazione, sulla presunzione di conoscere la Verità, della cui interpretazione il sedicente vicario del Cristo deificato rivendica l’esclusiva. Contraddittoria appare l’opinione della Chiesa riguardo alla questione della sessualità, viste le posizioni discriminatorie che essa assume sia verso la donna sia verso il diverso (sessualmente e socialmente). Se per un verso il N.T. tende alla parificazione dell’uomo e della donna (dono malefico di Zeus, per l’antica cultura greca), per un altro verso, si rilevano posizioni discriminatorie (subalternità, misoginia, ecc.), che riflettono i pregiudizi del tempo (la donna è stata considerata “ianua diaboli”, la porta attraverso cui penetra il male).

              
 Lucio Apulo Daunio


giovedì 28 luglio 2011


CASTIGHI E PROMESSE DI JAHVE’



Il peccato di disobbedienza a Dio, secondo la Bibbia, ha causato la caduta dell’uomo e l’inizio delle sventure che opprimono l’umanità (cfr. Gn 1-9). L’episodio leggendario di Caino (coltivatore del suolo), che uccide per invidia il fratello Abele (pastore di greggi), perché il Signore aveva gradito il sacrificio di costui, anziché il suo, raffigura la lotta tra due antiche culture: quella dei pastori nomadi e quella dei coltivatori. Jahvè, il temibile dio dei nomadi ebrei, difende la pastorizia opponendosi all’invadenza dell’agricoltura (che, essendo praticata in terre poco fertili, non poteva essere redditizia). Egli maledice il suolo per punire il fratricida. Caino è costretto ad abbandonare la terra, che non dà più frutti, per andare ramingo nel mondo, temendo la vendetta degli uomini (inesistenti, essendo la terra disabitata, secondo la Bibbia). Poi Caino conosce sua moglie (come poté trovarla in una terra disabitata?), da cui ha una discendenza (siamo tutti figli di Caino?). Dopo la leggendaria unione dei figli di Dio (angeli decaduti, aventi attributi sessuali) con le figlie degli uomini, cioè di Caino (mito della nascita degli eroi), e la riduzione della durata della vita (ad eccezione dei longevi patriarchi), Jahvè castiga con il diluvio universale la razza umana, che a suo giudizio era degenerata, pentendosi di averla creata. Questa vendicativa divinità applica la legge del taglione: punisce la malvagità umana con la sua, dimenticando che l'indole umana è una sua consapevole creazione. Egli distrugge la vita sulla terra (ad eccezione di pesci, microbi e insetti), annullando la proliferazione dell’originaria creazione, per l’indolenza e la dissolutezza delle sue umane creature. La storia del diluvio (mito della purificazione del genere umano mediante una catastrofe) è un retaggio di racconti appresi dagli ebrei durante la cattività babilonese (Epopea di Gilgamesh). Una variante greca del mito descrive le vicende di Deucalione e Pirra, cui gli dei permisero di salvarsi dal diluvio universale. Dal cataclisma biblico, Jahvè salva solamente Noè e la sua famiglia, alla quale impartisce disposizioni contraddittorie, confondendola (Gn 6,9; 7,24). Ordina loro di recuperare (dio sa come!) esemplari di piante e bestie e di ammassarle su un immenso barcone (del tutto insufficiente per salvaguardare la catena alimentare dell’ecosistema mondo). Ritornata la calma dopo la tempesta (Dio solo sa, dove fece rifluire tutta quella massa d’acqua con la quale aveva sommerso il mondo!), Jahvè fa apparire il segno dell’arcobaleno e alla famiglia umana superstite detta le condizioni per un’alleanza (la prima, essendosi reso conto di non poter estirpare l’inclinazione al male nell’animo umano). Il patriarca Noè, nuovo Adamo, deriso dal figlio Cam, padre di Canaan, si vendica maledicendo Cam e tutta la sua incolpevole discendenza (il popolo Cananeo), schiavizzandola. Benedice invece Sem e Jafet, che avranno preminenza sui cananei (i neri). Le conseguenze del potere assolutistico del patriarca Noè fomenteranno ideologie di oppressione (lo schiavismo e la tratta dei neri).

Jahvè, dopo aver cercato di ricostruire la primitiva integrità dell’umanità, è nuovamente ferito dall’orgoglio umano. Gli uomini, infatti, intendono raggiungere il cielo con la costruzione di una torre in Babele. Jahvè interviene, punendoli con la confusione delle lingue, disperdendoli su tutta la terra. Poi ci ripensa, e ritorna a riappacificarsi con un solo uomo, Abramo, senza che questi l’abbia invocato, impegnandosi con un nuovo patto sotto il segno della circoncisione, simbolo di appartenenza al popolo di Dio (da lui amato, ancorché di dura cervice). Ai patriarchi, Jahvé promette il possesso della terra (dove scorre sangue anziché latte e miele) e una numerosa discendenza, ma chiede in cambio obbedienza incondizionata. La fede abramitica al dio padrone è così salda che non indietreggia neanche di fronte a un’assurda, tremenda richiesta: il sacrificio del figlio Isacco. La fede abramitica è cieca, perciò il patriarca ha la certezza di non macchiarsi di un orrendo delitto. In verità, in quei tempi era costume offrire i propri figli in olocausto a divinità (Lv 20, Gdc 11,31, Gr 7,31-35; 2 Re 23,10). Certamente deprecabile è il comportamento di Abramo, quando per salvarsi e arricchirsi è disposto per ben due volte a disonorare la moglie Sara all’altrui concupiscenza. Lo stesso farà suo figlio Isacco. La sterile Sara, prima di essere miracolata con la nascita del figlio Isacco, offre al patriarca la sua fertile schiava Agar per dargli un figlio. Per dirimere la successiva rivalità tra le due donne, il bigamo Abramo decide di ripudiare la concubina Agar, abbandonandola assieme al figlio Ismaele, che un dio pietoso soccorre, ma non punisce il deplorevole comportamento del patriarca. Da Ismaele (antenato mitico degli Arabi) discenderanno gli Ismaeliti (le popolazioni arabe).

Si racconta (“Genesi” 15, 1 seg.), che Abramo conosce e chiama il suo dio, l’Altissimo (El Elyon), Creatore e Signore del cielo e della terra. Si racconta (nel libro “Esodo” 6, 2-3), che l’Altissimo parla a Mosè, riferendogli (mentendo) che da Abramo e dagli altri patriarchi era stato conosciuto con il nome di “El Shaddai”, divinità protettrice e scudo della dinastia abramitica. La contraddizione potrebbe derivare dalle diverse tradizioni che compongono i libri biblici: la jahvista, l’elohista, la sacerdotale. In verità, Jahvè non fu sempre sincero con Abramo, facendolo penare prima di mantenere quanto promessogli. Lo fece allontanare dal suo paese, dalla sua casa, dalla sua parentela, promettendogli una ricca terra (che invece era desertica e con scarse attrattive economiche).  Quando Abramo si rese conto che quella terra era abitata dai Cananei, gli apparve Jahvè per annunciargli che la promessa riguardava la sua discendenza, costringendolo a sloggiare e ad accamparsi nell’arida regione del Negheb. Riapparve successivamente ad Abramo, promettendo sia a lui sia alla sua discendenza (che non aveva ancora) il possesso della terra. In seguito, però, Jahvè continuò a promettere quella terra alla sua discendenza e solo raramente a lui. Riguardo all'altra promessa, quella di avere una propria discendenza, Abramo dovette attendere lungamente, fino a quando, a dio piacendo, rese fertile in tarda età la moglie Sara, che diede alla luce il figlio Isacco. L’impenetrabilità di un dio, libero nel suo agire, da cui tutto dipende e che tutto può (anche contraddirsi?), come pure l’impossibilità di giudicare i suoi atti, metterà a dura prova la pazienza di Giobbe. Non sarà semplice per lui capacitarsi della presenza del male (e per noi comprendere il paradosso di un dio, che si lascia tentare da Satana per metter alla prova il suo servo più fedele, affliggendolo). Giobbe, tuttavia, non si ribella contro un dio impenetrabile dalla ragione umana, né giudica la nequizia dei suoi atti. La sua fede incondizionata, come quella abramitica, gli consente di sopportare il male fino a ritenersi colpevole.

Nelle successive (e poco edificanti) vicende leggendarie del periodo dei patriarchi, si rileva il culto di un popolo di pastori nomadi per il “dio del padre” (cioè, dell’avo immediato), non più legato a un santuario in un luogo sacro. Giacobbe accetterà il culto del dio di suo padre Isacco, a condizione che lo aiuti nel suo viaggio (Gn 28,20-21). Jahvè, divinità guerresca, accompagnerà e proteggerà il suo eletto popolo, purché esso onori e veneri solo lui, sancendo la morte per chi sacrifica e onora altre divinità (Es 22,19). Il bisogno di credere in un dio protettore (come El Saddai, protettore dei Patriarchi) è un’esigenza sentita dai popoli primitivi, costretti a difendersi o a offendere altri popoli per necessità di sopravvivenza o per ambizioni di dominio. Il diritto tra i popoli in quei tempi biblici si regolava mediante l’uso della forza e, per assicurarsi la vittoria, ciascun popolo invocava la protezione del suo dio. Dal punto di vista ebraico, il loro dio era superiore alle altre divinità, perché faceva meraviglie ed era terribile in imprese belliche.

Le origini religiose delle primitive tribù di nomadi ebrei non sono caratterizzate dal monoteismo, bensì dall’enoteismo, cioè dal culto di una divinità (monolatria), commisto a un diffuso, per quanto vietato, costume cultuale politeistico. Il monoteismo, che attesta l’esistenza di un unico dio, si affermerà più tardi, durante la cattività babilonese. Abramo, infatti, non nega l’esistenza di altre divinità, anche se ne venera una fra tante. Diversamente dagli altri popoli, gli ebrei si pongono sotto la protezione del dio dei propri padri: di Abramo, d’Isacco, di Giacobbe. Il mito della liberazione d’Israele dalla cattività egiziana, mediante l’aiuto decisivo del guerrafondaio JHWH (sacro e impronunciabile tetragramma ebraico del nome divino), farà prevalere la concezione che il dio d’Israele è più grande e più potente degli altri. Da ciò conseguirà l’obbligo di riconoscenza e fedeltà verso di lui da parte del suo popolo. Questo mito letterario, però, non trova riscontro né storico né archeologico. Da esso, tuttavia, è derivato un falso diritto: la pretesa degli ebrei della diaspora di riappropriarsi l’antica terra promessa (sionismo), estromettendo o prevalendo su chi vi dimora.

Le peripezie del condottiero e profeta Mosè, spesso raffigurato (come nella statua michelangiolesca) con il corno della santa illuminazione, simbolo dello spirito divino, sono narrate nel libro biblico “Esodo”. La sua figura ricalca il modello degli eroi mitologici. Egli, infatti, incontra il “dio dei padri” sul monte Oreb, che gli si rivela come “Colui che è” (cioè un dio che parteggia a esclusivo vantaggio del suo popolo, danneggiando chi lo ostacola) e lo manda alla ricerca dei figli d’Israele (i suoi prediletti, di cui per l’ennesima volta si pente per averli maltrattati). Mosè ha l’incarico di informare gli ebrei emigrati in Egitto dell’esistenza di Jahvè, dio dei loro padri, e della sua volontà di liberarli dalla cattività egiziana (un altro mito letterario). Egli, Mosè, è stato designato condottiero da Jahvè per guidarli verso la (brulla) terra promessa ai loro padri. Gli ebrei, superate alcune vicissitudini, lasciano l’Egitto con l’aiuto di un dio crudele, spietato, omicida, che non si fa scrupoli di colpire e decimare la popolazione egiziana incolpevole con dieci orribili piaghe, segni e prodigi della sua onnipotenza (cfr. Gr 32,21). Piegata l’ostinazione del faraone, Mosè guida gli ebrei verso la terra promessa. Suo protettore e guida è un dio fazioso e bellicoso, l’impronunciabile JHWH, che non vuole essere raffigurato con immagini o idoli. Il Mar Rosso, per magia, si apre innanzi a Mose, consentendo agli ebrei di attraversarlo incolumi, ma affogando l’esercito faraonico inseguitore (chi sa con quali cavalli i guerrieri egiziani inseguivano gli ebrei, giacché tutto il bestiame era stato distrutto da una delle tante piaghe inviate dall'onnipotente JHWH). Sul monte Sinai, JHWH detta le condizioni per un’ennesima alleanza (la terza) con il suo popolo. A Mosè, suo mediatore, prescrive un codice normativo (le tavole della Legge, che dovranno essere conservate dentro un’arca, sotto una tenda), imponendo un rituale liturgico e la consacrazione del sabato, come segno dell’alleanza. Questo dio geloso e sadico (cfr. Dt 28,15-69) richiede fedeltà assoluta e non consente di onorare altre divinità (sulla monolatria professata da Israele cfr. i Salmi 82, 86, 95, 96, 97, 135). Incita il suo popolo a una feroce lotta contro altri popoli (pure figli suoi, ma non prediletti, perché adoranti differenti divinità). Dopo una quarantina d’anni trascorsi (dio sa come!) nel deserto del Sinai per scontare l’ira di JHWH per le colpe di cui i suoi prediletti si sono nuovamente macchiati, gli ebrei penetrano finalmente nella terra promessa, Canaan, dove, malauguratamente, non scorrerà latte e miele, bensì sangue. Gli ebrei, infatti, combatteranno una guerra santa in nome del loro dio bellicoso e collerico. Questo singolare dio guerrafondaio, che invia un angelo, in veste di guerriero, per assistere Giosuè e proteggere il suo esercito dai nemici (Gs 5, 13-15), ha cura e parteggia esclusivamente per il suo popolo, votando allo sterminio i nemici (Gs 6, 17). Questo dio sommamente ingiusto non concede uguale vigore e pari vanto ai contendenti in lotta. Consente la vittoria ai suoi protetti e non ha misericordia dei nemici trucidati (Dt 7,16). Per aiutare il suo popolo contro i Filistei, fa nascere un eroe dalla forza sovrumana, anche se vulnerabile come Achille. Il suo punto debole però non è il tallone, bensì la folta capigliatura, che non dovrà essere rasata (Gdc da 13 a 16). Palesemente assurda appare tale concezione della divinità! Le decantate prodezze di Sansone contro i Filistei, come la maggior parte degli altri episodi biblici, sono da considerare fantasiose leggende. Gli eletti sudditi dell’impietoso JHWH vivono nel suo timore, soggiogati da una sorta di terrorismo psicologico e dal grigiore della Legge (Lv 26; Dt 28). Devono ottemperare alle proibizioni comandate dal loro dio, come le restrizioni alimentari e i divieti inerenti ai rapporti sessuali. Devono rifuggire dall’idolatria ed evitare la contaminazione morale ed etnica con popoli idolatri per salvaguardare la loro integrità. Sono indotti a vivere in completo isolamento, impossibilitati alla convivenza con altre popolazioni. Consacratisi al loro dio, devono rispettare la purità rituale, la perfezione dell’atto religioso. Offenderlo, significherebbe commettere un grave peccato, una colpa etica, privandosi della sua protezione e predisponendosi alla condanna divina, non nello Sheol, (l’oscuro desolante abisso, simbolo delle ombre erranti dei morti), bensì durante il corso della loro vita. Giusto è conformarsi alla volontà divina, osservando scrupolosamente la Legge. Empio è violare i comandamenti, causando la rottura dell’alleanza con Jahvè. Mali e beni procedono da lui (Lm 3, 38). Egli promette ai suoi servi fedeli, ubbidienti e sottomessi, benedizioni, grazie e doni; maledizioni e castighi, invece, ai ribelli. Persino raccapriccianti antropofagie questo dio tremendo minaccia contro l’ostinazione del suo popolo (Lv 26, 27-29; Dt 28, 53). Casi di madri che si cibano delle carni dei propri figli trovano riscontro nei libri 2 Re 6, 29 e Lm 2, 20; 4,10, nonché nelle predizioni di Geremia (19, 9) e di Ezechiele (5, 10). Con Samuele e l’istituzione della monarchia, il re della nazione ebraica diventa “servo di Jahvè” e da lui riceve la supremazia su tutta la Terra. Dopo il regno di Saul e quello di Davide, durante il quale non manca di scatenarsi l’ennesima ira di Jahvè (2 Sm 24), si afferma l’ideologia messianica, cioè la credenza nell’avvento di un re ideale, che ripristinerà un nuovo paradiso sulla terra (il messia cristiano, invece, lo collocherà nell’alto dei cieli, non potendo attuarlo sulla terra). Altro che re ideale fu Davide! Si rese colpevole di adulterio e omicidio. Il suo primogenito Ammon stuprò la sorella Tamar. Il fratello gemello di Tamar, Assalonne, si vendicò uccidendo Ammon. In seguito, Assalonne ordì una congiura contro il padre. Un altro figlio di Davide, Adonia, tentò di usurpare il regno al padre. Non meglio si comportò Salomone, il figlio avuto dalla relazione adulterina con Betsabea, moglie di Uria l’Ittita. Le colpe dei padri, ancorché pupilli di JHWH, ricadranno sui loro figli e sul popolo. Salomone costruì sul monte Sion il mitico Tempio di Gerusalemme, residenza permanente dell’arca dell’alleanza, presenza visibile di JHWH. Durante la festa della dedicazione del Tempio, immolò ventiduemila buoi e cento ventimila pecore in olocausto, cui seguirono oblazione e sacrificio di comunione (1 Re 8, 62-66). Dopo la morte di Salomone, il regno si dividerà in due: quello d’Israele al nord, che si macchierà di colpe gravi, quali idolatrie, olocausti umani, pratiche magiche (cfr 2 Re 17), e quello di Giuda al sud, dove il re Acaz offrirà il figlio in olocausto a JHWH (cfr 2 Re 16). La scissione politica e religiosa d’Israele (1Re 12), principale causa della sua distruzione, segnerà l’inizio della cruda storia del regno di Giuda, che vedrà il consolidamento della casta sacerdotale e l’affermazione dell’integralismo religioso, caratterizzato da un’ortodossia dogmatica e una orto-prassi comportamentale.

La santità del popolo d’Israele è solamente un’invenzione letteraria dei profeti, atteso la proluvie di sangue, di orrori, di vendette (cfr. Sl 137), descritte in numerose e indecenti pagine della Bibbia, libro di dubbia sacralità. Del tutto inammissibile è che Dio abbia voluto farsi conoscere da un solo popolo, la cui storia, come quella di altri popoli, è segnata da orribili nefandezze e inenarrabili crimini, avvantaggiandolo a scapito di altre popolazioni. Un dio legato a un solo popolo e a un solo paese è una concezione tribale, tipica di antiche culture. Sarà un’incombenza del cristianesimo paolino, slegato dal giudaismo, tentare di trasformare il dio locale, cruento e fazioso, in dio ecumenico, con lo zelo, non immune da fanatismi e brutalità, del proselitismo evangelizzatore e dell’assolutismo di una fede dogmatica. Una fede assoluta non è esente da rischi, giacché rasenta il fanatismo e può indurre a compiere nefandezze in nome di Dio nella convinzione di adempiere la sua volontà. L’assenza di Dio di fronte ai mali del mondo e alle catastrofi naturali, non è un mistero insondabile né la punizione per i peccati dell’uomo, bensì la prova evidente della sua inesistenza e inutilità.    


 Lucio Apulo Daunio