martedì 12 luglio 2011


LA RELIGIONE NELL'ANTICA ROMA

 

La religione nell’antica Roma era un’istituzione dello stato, caratterizzata dal rigido formalismo rituale. Titolari del culto erano taluni cittadini in funzione di pubblici ufficiali, che non costituivano una casta sacerdotale. La funzione sacerdotale era distinta ma non separata dalle pubbliche funzioni dei cittadini e dei magistrati. Il carattere pratico e legalistico della religione romana, disciplinata dal fas (diritto divino) si trasfuse nello jus (il diritto civile, privato e pubblico, imperniato sull’autorità sovrana del padre di famiglia, del proprietario, del testatore o di altri titolari di diritti). Fondamento del diritto romano era la volontà cosciente esteriorizzata nella parola ("verba ipsa tenent"). Il diritto religioso e quello laico, pur essendo separati, mantennero una reciproca relazione. L’importanza del diritto a Roma era pari a quella della filosofia in Grecia e a quella della religione in Oriente.

I “sacra privata” erano i culti celebrati nell’ambito della famiglia dal paterfamilias o da un flamen (sacerdote preposto al culto di una divinità). Il culto domestico si svolgeva mediante preghiere e sacrifici in onore degli dei della casa, come i Penati (divinità della dispensa), i Lari (divinità protettrici della famiglia, confusi in seguito con gli spiriti dei morti), i Geni (numi tutelari dei membri della famiglia). Il Genio corrispondeva al demone della filosofia greca, che si credeva accompagnasse l’uomo dalla nascita alla morte. Forte interesse dei romani per la demonologia si avrà durante il periodo imperiale. I “sacra publica” erano invece i culti compiuti o dall’intera cittadinanza (“sacra popularia”) o dal magistrato coadiuvato da pubblici sacerdoti (“sacra pro populo”). Le principali solennità popolari, cui partecipava l’intera cittadinanza, erano: il Septimontium, i sacra Argeorum, i Palilia, i Saturnalia, le feriae Sementivae, gli Ambarvalia, i Terminalia, i Compitalia, i Fordicidia. In seguito all’ammissione della plebe nel popolo romano, questa ottenne il diritto di partecipare ai “sacra publica” (cioè al culto di stato). Un po’ per volta la plebe ebbe accesso anche agli uffici civili e al sacerdozio (con eccezione degli antichi collegi dei Salii e dei Luperci e di altre supreme cariche religiose riservate ai patrizi).

Le divinità romane, originariamente di stirpe italica, si accrebbero e si confusero con le divinità provenienti dai paesi conquistati. Quelle originarie romano-sabine, che avevano concorso alla costituzione dello stato, erano astratte personificazioni di forze naturali, rappresentate mediante simboli (la lancia, simbolo di guerra, rappresentava Marte; il fuoco sacro, simbolo della vita di Roma, rappresentava Vesta; ecc.). Ninfe e Fauni erano caratterizzati da uno stretto legame con la natura. Lo “jus divinum”, fissato dai pontefici, era raccolto in appositi libri. Gli “indigitamenta” erano libri contenenti formule liturgiche recitate con rigorosa esattezza e proprietà di linguaggio alle diverse potenze divine, cui erano sottoposti i più importanti atti della vita umana, privata e pubblica (nascita, pubertà, matrimonio, morte, inaugurazione di ponti, ecc.). A ciascun atto era preposta una divina potestà (Lucina alla nascita, Libitina alla morte, Saturno alla seminagione, Epona all’allevamento dei cavalli, Aesculanus al conio di monete, Argentinus al conio di monete d’argento, ecc.). Accanto a ciascun nume, elencato negli “indigitamenta”, era indicata la sfera specifica di influenza o attività, cui si credeva vi sovrintendesse. A questi “dei certi” si contrapponevano “dei incerti”, di cui non era chiara la loro influenza. Per non offendere divinità sconosciute, i Romani accolsero nel culto l’adorazione di quelle ignote, l'aiuto delle quali era ritenuto necessario per un’impresa deliberata. Il rito della “evocatio” era pronunciato dal comandante militare, prima di sconfinare nel territorio nemico da conquistare, per ottenere la benevolenza della divinità protettrice del luogo. Gli dei stranieri (novensides, cioè nuovi arrivati), che erano accolti nella famiglia delle divinità originarie (indigetes, cioè indigene), avevano i loro templi fuori del pomerio, il confine sacro della città di Roma lungo la cinta muraria. In epoca imperiale, caduta la distinzione tra cives romani e peregrini, furono aperte le porte del pomerio anche alle divinità straniere. La conquista dell’Etruria aggiunse al culto degli dei l’arte di indovinare il futuro (presagi) dalle interiora degli animali sacrificati (aruspicina) o dal volo degli uccelli (augurio o auspicio). L’arte di interpretare la volontà degli dei, secondo il mito, fu rivelata ai Lucumoni, signori dell’Etruria, da Tagete, il Genio nato miracolosamente dai solchi. Gli aruspici, reclutati a Roma tra i più elevati ceti, favorirono la fazione aristocratica conservatrice. La religione greca influenzò il culto romano con l’introduzione sia di nuovi dei (che furono assimilati e confusi con quelli originari) sia di nuovi riti officiati negli edifici sacri, come i lectisternia (cerimonie propiziatorie consistenti in un pasto offerto ai numi) e le supplicationes (cerimonie pubbliche solenni per scongiurare pericoli o calamità, o per propiziare i numi per le vittorie conseguite). L’uso della musica, durante le sacre cerimonie, era ritenuto gradito agli dei. Anche i ludi scenici, istituiti per placare gli dei, comprendevano l’accompagnamento musicale degli attori. Prima di ogni impresa, si consultavano i “libri sibillini” (responsi oracolari in lingua greca) per allontanare lo sdegno degli dei (soprattutto stranieri).

La progressiva decadenza dagli antichi costumi (mos maiorum) iniziò a manifestarsi in seguito all’introduzione nei circoli culturali romani della filosofia greca e della spiegazione razionale dei miti (evemerismo). Con la diffusione progressiva dello scetticismo e dell’indifferenza verso la cura delle faccende religiose, a nulla valsero sia l’opposizione di un Catone sia quella successiva di Augusto per porre un freno all’immoralità dei costumi, all’uso politico della religione, al dilagare dei culti stranieri (superstitiones). Oltre al Giudaismo e all’incipiente Cristianesimo (connotato da uno stile di vita innovativo), i culti di maggior diffusione furono quello frigio della Magna Mater (caratterizzato da paurosi misteri); quello egizio di Iside, Osiride, Serapide; quello persiano del Sole Mitra, dio dei soldati (che Diocleziano assunse a protettore dell’impero); quello delle religioni misteriche. L’influenza dei costumi orientali contribuì alla trasformazione della repubblica in monarchia e alla figura dell’imperatore come “dominus”, la cui autorità assoluta, che compendiava l’unità religiosa, giuridica e militare, si faceva discendere direttamente da Dio. Il dispotismo dei successori di Augusto, infatti, si spinse fino all’apoteosi dell’imperatore (cioè alla sua divinizzazione non solo dopo la morte, bensì ancora vivente). Al suo culto erano adibiti appositi sacerdotes. La carica di sacerdos consentiva di raggiungere i più alti gradi del cursus (carriera) municipale. L’aruspicina e le cerimonie augurali scemarono di valore a vantaggio delle pratiche di divinazione (come le sortes), delle arti magiche, dell’astrologia dei Caldei (fatalismo), della negromanzia (evocazione di spiriti), delle pratiche oracolari (esprimenti la volontà divina), dei responsi di guarigione (tratti dai sogni fatti nei templi di Esculapio e di Serapide, trasformati in una sorta di ospedali; cfr. Elio Aristide, "Discorsi sacri"). Con l’adozione nel IV sec. del cristianesimo quale religione di stato, le usanze pagane (come i giochi olimpici), le pratiche superstiziose e i culti furono aboliti. Al culto pagano dei demoni propizi, i cristiani opposero il culto degli angeli, degradando i primi a demoni malefici. Al culto delle divinità pagane opposero la venerazione dei santi. Anche il cristianesimo, però, ai suoi esordi, subì l’influenza della misteriosofia orientale, tralignando un ipotetico originario messaggio del profeta ebreo Gesù nel dramma salutare del mistero della croce, del dio che muore e risorge, come contemplato nelle religioni misteriche.

          Lucio Apulo Daunio

Per approfondimenti si rimanda a:

F. G. Hubert, Antichità pubbliche romane

W, Kopp – N. Moreschi, Antichità private dei Romani

 

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