LA RELIGIONE NELL'ANTICA ROMA
La religione
nell’antica Roma era un’istituzione dello stato, caratterizzata dal rigido
formalismo rituale. Titolari del culto erano taluni cittadini in funzione di
pubblici ufficiali, che non costituivano una casta sacerdotale. La funzione
sacerdotale era distinta ma non separata dalle pubbliche funzioni dei cittadini
e dei magistrati. Il carattere pratico e legalistico della religione romana,
disciplinata dal fas (diritto divino)
si trasfuse nello jus (il diritto civile, privato e pubblico, imperniato
sull’autorità sovrana del padre di famiglia, del proprietario, del testatore o
di altri titolari di diritti). Fondamento del diritto romano era la volontà
cosciente esteriorizzata nella parola ("verba ipsa tenent"). Il diritto religioso e quello laico, pur
essendo separati, mantennero una reciproca relazione. L’importanza del diritto
a Roma era pari a quella della filosofia in Grecia e a quella della religione
in Oriente.
I “sacra privata” erano i culti celebrati
nell’ambito della famiglia dal paterfamilias
o da un flamen (sacerdote preposto al
culto di una divinità). Il culto domestico si svolgeva mediante preghiere e
sacrifici in onore degli dei della casa, come i Penati (divinità della dispensa),
i Lari (divinità protettrici della famiglia, confusi in seguito con gli spiriti
dei morti), i Geni (numi tutelari dei membri della famiglia). Il Genio
corrispondeva al demone della filosofia greca, che si credeva accompagnasse
l’uomo dalla nascita alla morte. Forte interesse dei romani per la demonologia
si avrà durante il periodo imperiale. I “sacra
publica” erano invece i culti compiuti o dall’intera cittadinanza (“sacra popularia”) o dal magistrato
coadiuvato da pubblici sacerdoti (“sacra
pro populo”). Le principali solennità popolari, cui partecipava l’intera
cittadinanza, erano: il Septimontium, i sacra Argeorum, i Palilia, i
Saturnalia, le feriae Sementivae, gli Ambarvalia, i Terminalia, i Compitalia, i
Fordicidia. In seguito all’ammissione della plebe nel popolo romano, questa
ottenne il diritto di partecipare ai “sacra
publica” (cioè al culto di stato). Un po’ per volta la plebe ebbe accesso
anche agli uffici civili e al sacerdozio (con eccezione degli antichi collegi
dei Salii e dei Luperci e di altre supreme cariche religiose riservate ai
patrizi).
Le divinità
romane, originariamente di stirpe italica, si accrebbero e si confusero con le
divinità provenienti dai paesi conquistati. Quelle originarie romano-sabine,
che avevano concorso alla costituzione dello stato, erano astratte
personificazioni di forze naturali, rappresentate mediante simboli (la lancia,
simbolo di guerra, rappresentava Marte; il fuoco sacro, simbolo della vita di
Roma, rappresentava Vesta; ecc.). Ninfe e Fauni erano caratterizzati da uno stretto
legame con la natura. Lo “jus divinum”,
fissato dai pontefici, era raccolto in appositi libri. Gli “indigitamenta” erano libri contenenti
formule liturgiche recitate con rigorosa esattezza e proprietà di linguaggio
alle diverse potenze divine, cui erano sottoposti i più importanti atti della
vita umana, privata e pubblica (nascita, pubertà, matrimonio, morte,
inaugurazione di ponti, ecc.). A ciascun atto era preposta una divina potestà
(Lucina alla nascita, Libitina alla morte, Saturno alla seminagione, Epona
all’allevamento dei cavalli, Aesculanus al conio di monete, Argentinus al conio
di monete d’argento, ecc.). Accanto a ciascun nume, elencato negli “indigitamenta”, era indicata la sfera
specifica di influenza o attività, cui si credeva vi sovrintendesse. A questi
“dei certi” si contrapponevano “dei incerti”, di cui non era chiara la loro
influenza. Per non offendere divinità sconosciute, i Romani accolsero nel culto
l’adorazione di quelle ignote, l'aiuto delle quali era ritenuto necessario per
un’impresa deliberata. Il rito della “evocatio” era pronunciato dal comandante
militare, prima di sconfinare nel territorio nemico da conquistare, per
ottenere la benevolenza della divinità protettrice del luogo. Gli dei stranieri
(novensides, cioè nuovi arrivati),
che erano accolti nella famiglia delle divinità originarie (indigetes, cioè indigene), avevano i
loro templi fuori del pomerio, il confine sacro della città di Roma lungo la
cinta muraria. In epoca imperiale, caduta la distinzione tra cives romani e peregrini, furono aperte
le porte del pomerio anche alle divinità straniere. La conquista dell’Etruria
aggiunse al culto degli dei l’arte di indovinare il futuro (presagi) dalle
interiora degli animali sacrificati (aruspicina) o dal volo degli uccelli
(augurio o auspicio). L’arte di interpretare la volontà degli dei, secondo il
mito, fu rivelata ai Lucumoni, signori dell’Etruria, da Tagete, il Genio nato
miracolosamente dai solchi. Gli aruspici, reclutati a Roma tra i più elevati
ceti, favorirono la fazione aristocratica conservatrice. La religione greca
influenzò il culto romano con l’introduzione sia di nuovi dei (che furono
assimilati e confusi con quelli originari) sia di nuovi riti officiati negli
edifici sacri, come i lectisternia (cerimonie
propiziatorie consistenti in un pasto offerto ai numi) e le supplicationes (cerimonie pubbliche
solenni per scongiurare pericoli o calamità, o per propiziare i numi per le
vittorie conseguite). L’uso della musica, durante le sacre cerimonie, era
ritenuto gradito agli dei. Anche i ludi scenici, istituiti per placare gli dei,
comprendevano l’accompagnamento musicale degli attori. Prima di ogni impresa,
si consultavano i “libri sibillini” (responsi oracolari in lingua greca) per
allontanare lo sdegno degli dei (soprattutto stranieri).
La progressiva
decadenza dagli antichi costumi (mos
maiorum) iniziò a manifestarsi in seguito all’introduzione nei circoli
culturali romani della filosofia greca e della spiegazione razionale dei miti
(evemerismo). Con la diffusione progressiva dello scetticismo e
dell’indifferenza verso la cura delle faccende religiose, a nulla valsero sia
l’opposizione di un Catone sia quella successiva di Augusto per porre un freno
all’immoralità dei costumi, all’uso politico della religione, al dilagare dei
culti stranieri (superstitiones).
Oltre al Giudaismo e all’incipiente Cristianesimo (connotato da uno stile di
vita innovativo), i culti di maggior diffusione furono quello frigio della
Magna Mater (caratterizzato da paurosi misteri); quello egizio di Iside,
Osiride, Serapide; quello persiano del Sole Mitra, dio dei soldati (che
Diocleziano assunse a protettore dell’impero); quello delle religioni
misteriche. L’influenza dei costumi orientali contribuì alla trasformazione
della repubblica in monarchia e alla figura dell’imperatore come “dominus”, la
cui autorità assoluta, che compendiava l’unità religiosa, giuridica e militare,
si faceva discendere direttamente da Dio. Il dispotismo dei successori di
Augusto, infatti, si spinse fino all’apoteosi dell’imperatore (cioè alla sua
divinizzazione non solo dopo la morte, bensì ancora vivente). Al suo culto
erano adibiti appositi sacerdotes. La
carica di sacerdos consentiva di
raggiungere i più alti gradi del cursus (carriera) municipale. L’aruspicina e
le cerimonie augurali scemarono di valore a vantaggio delle pratiche di
divinazione (come le sortes), delle
arti magiche, dell’astrologia dei Caldei (fatalismo), della negromanzia
(evocazione di spiriti), delle pratiche oracolari (esprimenti la volontà
divina), dei responsi di guarigione (tratti dai sogni fatti nei templi di
Esculapio e di Serapide, trasformati in una sorta di ospedali; cfr. Elio
Aristide, "Discorsi sacri"). Con l’adozione nel IV sec. del cristianesimo
quale religione di stato, le usanze pagane (come i giochi olimpici), le
pratiche superstiziose e i culti furono aboliti. Al culto pagano dei demoni
propizi, i cristiani opposero il culto degli angeli, degradando i primi a
demoni malefici. Al culto delle divinità pagane opposero la venerazione dei
santi. Anche il cristianesimo, però, ai suoi esordi, subì l’influenza della
misteriosofia orientale, tralignando un ipotetico originario messaggio del
profeta ebreo Gesù nel dramma salutare del mistero della croce, del dio che
muore e risorge, come contemplato nelle religioni misteriche.
Per approfondimenti si rimanda
a:
F. G. Hubert, Antichità pubbliche
romane
W, Kopp – N. Moreschi, Antichità
private dei Romani
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