mercoledì 29 ottobre 2014

IL PECCATO ORIGINARIO DI DIO


IL PECCATO ORIGINALE DI DIO

ATTO DI ACCUSA CONTRO DIO



Il peccato originale di Dio è la fonte del male nel mondo



Il Dio creatore non può essere prosciolto, davanti al tribunale umano, dell’addebito di essere Lui la genesi del male che grava sull’uomo e sul mondo. Lui è colpevole delle calamità naturali e delle infermità, spirituali e materiali, che incombono sull’umanità. In lui ha origine la violenza perpetrata dal genere umano, creato a sua immagine e somiglianza. Lui, perfettissimo onnisciente onnipotente, è colpevole di aver lasciato indifesi i nostri primi avi dalla malvagità di Satana, sua creatura. Lui, sommamente buono, è colpevole di aver consentito che la perfidia di Satana rovinasse l’ingenua felicità paradisiaca di Adamo ed Eva, pur essendo consapevole della loro debolezza. Dio si mostrò persino invidioso, quando constatò ciò che già preconosceva, cioè la perdita dell’innocenza (ingenuità) delle sue creature, che mangiando il frutto proibito acquisirono coscienza di ciò che è bene e di ciò che è male, divenendo così simili a Lui. Poi, temendo che potessero mangiare anche il frutto della vita e vivere in eterno, decretò che fossero scacciati dal Paradiso con la fiammante spada dei Cherubini, suoi servi. Adamo ed Eva furono esiliati sulla Terra a scontare una perpetua punizione, riversibile anche alla loro incolpevole discendenza (non fino alla terza o quarta generazione), consistente in sofferenze, infelicità e morte.

L’Essere supremo, onnisciente e onnipotente, aveva già preconosciuto anche l’atto di ribellione di parte degli angeli capeggiati da Satana, che da servi ubbidienti divennero malefici. Egli, pur castigandoli con la pena dell’eterna dannazione nell’Inferno, ha inspiegabilmente loro permesso, giacché spiriti depravati, d’insidiare la debolezza umana, inducendola al male.

L’Onnisciente è quindi imputabile di grave negligenza di omissione per non aver impedito, potendolo prevedere con certezza assoluta, un evento prevenibile. La colpa di Dio è di somma gravità, perché ha voluto che accadesse ciò di cui era conscio che sarebbe accaduto. Egli, Dio provvido, è corresponsabile delle azioni malvagie compiute e dai demoni e dagli uomini. A nulla varrebbe sminuirne la colpevolezza, adducendo a sua discolpa il fatto di aver contrapposto ai demoni gli angeli buoni, coadiuvanti degli esseri umani nella lotta contro le sataniche insidie.

A nulla servirebbe giustificarlo, contrapponendo a Lui, Dio buono, apportatore di salvezza, un Essere maligno, antagonista, di pari potenza, originario, increato, eterno, cui addebitare ogni potenza malefica (principio dualistico). Né può essere assolto, sostenendo che non ha voluto interferire sulla libertà d’arbitrio che ha concesso a uomini e angeli, giacché è responsabile di aver permesso l’esistenza del male, che invece si vuol rimettere alla libera volontà delle sue creature razionali, immeritevoli della fiducia che Egli ha riposto in loro. Infatti, pur ammettendo la responsabilità di ciascun uomo e di ciascun angelo ribelle, non possiamo escludere la responsabilità di Dio per grave volontà di omissione, dato che, volendo e potendo scongiurare un prevedibile infausto evento, nulla ha fatto per impedire che accadesse.

La responsabilità per omissione addebitabile a Dio non trova attenuanti nella sua sconfinata misericordia di redenzione (peraltro negata agli angeli ribelli) a favore degli immeritevoli uomini, spinta fino a sacrificare se stesso con il supplizio della croce tramite il corpo del Figlio Unigenito. Della divina redenzione, però, potrà beneficiarne solamente chi crederà nel Verbo incarnato, riscattando la sua colpa ereditaria mediante un sacro lavacro purificatorio, istituzionalizzato dalla Chiesa nel sacramento del battesimo. Ciò nonostante, l’uomo non è totalmente sanato dalla sua inclinazione al male, ereditata dal peccato originale, complice la seduzione del Maligno, solerte nell’attuare la distruzione delle opere di Dio, avendone il suo beneplacito.

Irrilevante è cercare di sostenere l’innocenza di Dio, presentandolo come l’Essere sommamente buono a cui non può essere addebitata la genesi del male, che è privazione del bene, e quindi riferibile a chi non vuole conseguire il bene. Ne consegue che la genesi del male sarebbe da addebitare al libero volere delle creature razionali, alla loro “mala voluntas”, alla loro incapacità a volere il bene. In tal modo, però, si sottovaluta l’originaria grave responsabilità di Dio, causa prima della causa del male.

I nostri primi avi, prima che conseguissero coscienza del bene e del male, erano sprovvisti di libero arbitrio, perciò non può essere loro addebitata alcuna colpa. La giustizia di Dio, inoltre, è iniqua, perché fondata sulla disparità di trattamento. Dio, infatti, concede a suo arbitrio la grazia giustificatrice, condannando all’eterna dannazione angeli satanici e quella parte dell’umana gente, non predestinata alla salvezza, contaminata dalla colpa originale, perciò passibile di pena.

A sua difesa si sostiene che se nessuna creatura, che si ribella a Dio, meriti il suo perdono, la grazia giustificatrice a beneficio di taluni è un dono gratuito elargito dalla divina bontà. Cosicché, la condanna irreversibile per gli altri, che non beneficiano della salvezza, sarebbe ascrivibile alla giustizia divina, non essendo dovuta la sua misericordia. Neanche, però, Dio si aspetti riconoscenza da chi subisce l’iniquo giudizio. Se la fede e la grazia sono doni che Dio elargisce a suo arbitrio a chi più gli è gradito, iniqua è la sua giustizia, il dare agli uni (gli eletti) e il rifiutare agli altri (i dannati) a parità di condizioni. Come un sadico dittatore, con il suo incomprensibile e arbitrario disegno salvifico, Dio gode nel vedere la tribolante umana gente, trepidante per l’incertezza della propria sorte.

La totale subalternità dell’uomo alla assoluta assolutezza di Dio si configura in un determinismo senza scampo. Il divenire della vicenda umana è già preconosciuto e deciso secondo l’insindacabile giudizio di Dio. Il Previgente e Onnipotente ha già prefissato come il tutto dovrà avverarsi, indipendentemente da ogni determinazione dei singoli esseri umani, la cui vicenda terrena risulta già programmata dal volere divino.

Nella logica della predestinazione, tutto dipende da Dio: ciò che dovrà accadere e ciò che non dovrà accadere. Ne consegue che la libertà umana di agire nel bene o nel male è pura finzione, essendo già preconosciuta dal Dio creatore, che “ab aeterno” ha la prescienza di ciascuna decisione umana. Egli, pur preconoscendo chi vorrà peccare, permette che ciò avvenga, né si premura per scongiurare che ciò accada.

Dio onnisciente è quindi responsabile di ogni malefico accadimento, poiché non provvede a evitare il male in virtù della sua onnipotenza e della sua assoluta bontà. La colpa di Dio consiste nel suo volere omissivo, giacché non interviene in soccorso di chi è predestinato all’eterna dannazione. A nulla vale la sua pretesa onnipotenza, essendo prigioniero della sua stessa volontà, incapace di modificare i suoi piani.

Solamente una cieca, incomprensibile fede può determinare l’uomo alla sudditanza di un Dio del tutto arbitrario, che avendo “ab aeterno” tutto previsto, lascia che tutto si verifichi, inclusa la ribellione degli angeli, il peccato originale, l’atroce supplizio della croce per il Figlio.

La ragione umana rifiuta di accettare che sia “giustizia” il giudizio arbitrario di Dio per l’umana gente, considerata la sproporzione tra la “laesio”, che Dio avrebbe potuto evitare solo se avesse voluto, e la “satisfactio”. L'uomo razionale rifiuta di sottostare al Verbo di un Dio incomprensibile, a credere in ciò che si rivela assurdo.

Dio, che incarica i demoni a istigare al peccato gli uomini, è responsabile per commissione della rovina escatologica di chi subisce tale prevaricazione. Il Presciente non poteva ignorare la futura ribellione di parte degli angeli. Dio, perciò, preconoscendola, preconosceva anche l’utilità che ne avrebbe potuto ricavare. Infatti, ha voluto gli angeli malvagi per servirsene. Ha voluto il male per contrapporlo al bene. Ha voluto i malvagi per soddisfare gli eletti del Cristo Redentore.


Dio è colpevole del proprio peccato originario.


 Lucio Apulo Daunio







lunedì 8 settembre 2014


DIO COME
ESPRESSIONE DELLA COSCIENZA UMANA


L’uomo ha conseguito, durante il suo lungo cammino dai primordi della vita, una consapevolezza di sé e del mondo esterno. É perciò provvisto di una vita interiore, di un pensiero con cui ragiona con se stesso. Manifesta altresì una vita esteriore, dialogando con il mondo esterno, da cui attinge conoscenze. La sua essenza non è solo ragione, ma anche sentimento, forza di volontà, istinto, carattere, personalità, intelligenza, passione.

L’uomo, dunque, non è solo un’espressione della ragione, ma anche delle suggestioni indotte da sentimenti e passioni scaturenti, in un determinato periodo storico, dai rapporti con il mondo esterno e con se stesso. Ha acquisito una coscienza con cui conversare, ma anche con cui fantasticare, inseguendo realtà immaginarie, fino a idealizzare un altro da sé. La coscienza è lo specchio interiore in cui l’uomo riflette la sua essenza. Avere sentore di sé, del proprio corpo, del mondo, ciò non implica necessariamente l’esistenza di una vitalità e di una realtà anche dopo la morte. L’intuizione del soprasensibile non implica l’esistenza effettiva di un Ente trascendente: ipostasi immaginifica, vana come i sogni della notte, dove tutto è confuso e tutto precipita nell'abisso del nulla con il risveglio della coscienza e della ragione. Oggettivandosi fuori di sé, l’uomo ha idealizzato la sua essenza, rappresentandola nella forma di un Essere divino, sovrumano e perfettissimo, presumendolo esistente, eterno, creatore del mondo. Ascrivendo degli attributi all'Ente pensato, ha creduto che esso esistesse realmente, in una diversa dimensione. Ha creato un’immagine irreale di sé, estraniata da sé, in cui ha proiettato illusorie qualità ideali e ne ha fatto oggetto di culto. Rappresentando la nebulosità dell'irrappresentabile con l'immaginazione, spazio senza limiti, ha creduto di vedere l’invisibile e sentire il non sensibile. Una divinità inintelligibile avvolge e stravolge l’uomo religioso durante la sua labile esistenza. L’opposizione tra uomo ed Essere divino è un’illusoria costruzione umana di un’entità astratta, modellata con l’immaginazione, da cui l’uomo fa dipendere la propria esistenza in questa e nell'altra vita.

Dio è ciò che la mente e il sentimento dell’uomo hanno rappresentato esistente oltre il reale. L’immagine psicologica dell’essenza divina, intesa come verità assoluta da cui attingere certezze, si concretizzata in una fede religiosa, che induce a credere in un mondo ultraterreno e in una vita eterna dopo l’infausta morte. La religione è caratterizzata da dipendenza e adorazione: l’una genera l’altra. Ciò che l’uomo desidera avere al massimo grado, lo immagina presente nell'onnipotenza dell’Ente divino. L’illimitatezza di Dio riflette i desideri innumerevoli dell’uomo. La presunta esistenza di un’essenza divina, in quanto ritenuta vera, è creduta anche reale, ma di una realtà trascendente, quindi extra fisica, dunque ipotetica. Ciò che si crede vero, si crede che sia anche esistente, ancorché in una diversa realtà, che può essere conosciuta anche indirettamente, come nel cristianesimo, tramite la “rivelazione” di un messia. Una vita d’eterna beatitudine in un mondo soprannaturale, in cui regna la divinità, non l’umanità, è l’agognata meta “post-mortem” del cristiano. La natura divina, sacralizzata e santificata, è opposta al mondo profano e peccaminoso. Quanto più si apprezza l’illusoria positività dell’Ente divino (ens rationis = puro pensiero senza concretezza), tanto più si disprezza la realtà, caratterizzata da negatività e limitatezze. L’inno trionfale dell’auspicata gioia paradisiaca, il “Gloria in excelsis Deo”, si leva dagli abissi della sofferenza umana. Nell'armonia di Dio, l’uomo religioso vede la conciliazione delle dissonanze del mondo. La credenza nell'assoluta eticità dell’entità divina è il riflesso dei sentimenti morali dell’uomo, la proiezione del suo dover essere in un essere eccezionale. Dio è ciò che l’uomo immagina più grande d’ogni realtà, un ente perfettissimo, una dimensione senza limiti temporali e spaziali (Anselmo d’Aosta). Egli è sempiterno, contrariamente all'effimera natura dell’uomo. É luminoso e splendente: è luce che illumina le tenebre e vede, e vedendo conosce, e conoscendo sa. È onniveggente e onnisciente. La sua onnipotenza è imperscrutabile. Il suo libero arbitrio è insindacabile. In verità, Dio è solo un nome prodotto dal “gioco” linguistico inerente alla speculazione religiosa: un’illusione, una speranza, una parvenza, un'oggettivazione dell’essenza umana idealizzata. Dal Logos, potente parola creativa di Dio (Verbo), si è fatto derivare l’esistente. L’infinita potenza di Dio è stata posta a fondamento di tutto il reale.

Dio, un concetto astratto, si concretizza nel cristianesimo come Ente invisibile (purissimo spirito), sussistente in tre distinte mistiche sostanze d’identica natura. Dall'autorevolezza della parola di un uomo, supposto messia, adorato come Figlio di Dio, i cristiani hanno creduto di trovare la salvezza per il genere umano, segnato da una presunta colpa originale. Dalla provvida sventura della passione di un uomo, il Cristo Gesù, hanno dedotto l’attuazione della redenzione: positivo riscatto dal negativo del mondo. Con la potenza del nome di Cristo, Figlio di Dio e lui stesso Dio, i suoi seguaci, titolati di sacralità, presumono di scacciare diavoli, compiere prodigi, redimere colpe e fare da tramite alle anime inquiete in cerca di beatitudini edeniche. In realtà, dal nulla oltremondano non può derivare qualcosa di concreto in virtù di un potere divino (ex nihilo nihil fit). Se di ciò che sappiamo non abbiamo certezza assoluta, figuriamoci se da ciò che non è si possa derivare qualche sapere. Tutto si compie non per intervento divino, ma in seguito a fenomeni di cui solo in parte se ne conoscono le cause; per il resto, la scienza formula solo ipotesi e continua a perseverare nella ricerca. L’esperienza del divino, in quanto fuori della concreta realtà, non rientra nell'ambito delle concrete possibilità conoscitive dell’uomo. Solo la realtà oggettiva è relativamente conoscibile e interpretabile. Dio è un concetto estraneo alla realtà oggettiva, un non-senso rivestito d’enfasi e caricato di significati. L’oltremondano è un insieme concettuale di parole e immagini costruite artificiosamente. Credere nella reale esistenza dell’aldilà è possibile in virtù di una fede religiosa. In realtà, l’Ente divino che si rappresenta nella mente è in relazione con l’immaginazione, non con l’esperienza. Dire che un asino vola, significa esprimere un concetto fittizio mediante termini che denotano cose e fatti concreti (ossia un asino e l’atto di volare proprio di certe specie d’animali). Dalla concretezza degli elementi non può desumersi la certezza espressa da un concetto. La fede in Dio, Verità Assoluta, al vaglio della ragione critica, è una contraddizione in termini, in quanto la fede implica credenza in un assunto, non certezza di una verità.

La fede cristiana è la credenza in una pretesa verità indiscutibile, rivelata da una supposta divinità umanizzata, testimoniata da testi inattendibili, tramandata dalla pervicace autorità di una Chiesa istituzionalizzata e legittimata. Non c’è garanzia che la verità rivelata nei sacri testi pervenga da Dio e non dalla testa immaginifica degli uomini. Le trascendenti verità della fede cristiana non si fondano su certezze fattuali, su ipotesi verificabili o falsificabili dall’esperienza effettiva, perciò non si prestano all’esercizio critico della ragione, all’obiettività di una valutazione. La fede assoluta in un assunto metafisico, non sperimentabile, non controllabile, non falsificabile, è una fede che non elimina l’errore, come fa invece la scienza. La fede implica la volontà di credere, ma questa non implica la verità delle cose, bensì l’opinione riguardo ad esse.

L’interesse della Chiesa ad evangelizzare il mondo intero consiste nell’imporre “erga omnes” il proprio modello etico, religioso, politico, come l’unico voluto da Dio per la nostra salvezza nell’aldilà. La Chiesa, in quanto istituzione storicamente determinata, giuridicamente riconosciuta, coadiuvata da fedeli gregari e da politicanti codini, è lo strumento con cui il clero attua il proprio dominio sulla collettività, plagiando le coscienze con il mito di Cristo, mediante un sistema formativo d’indottrinamento “ad hoc”. In quanto “ecclesia”, ossia comunità di fedeli, essa tende ad egemonizzare la collettività, invadendo il sociale e socializzando la religione. Il culto religioso rinsalda il legame dell’individuo con l’identità collettiva d’appartenenza ad un sistema sociale e culturale, espressione di un comune sentire, di un consenso collettivo. L’angoscioso bisogno degli uomini di conoscere il mistero d’essere nel mondo trova puntuale risposta nella verità assoluta di una fede rivelata. L’ideologia dominante della Chiesa, sia durante il lungo periodo medioevale sia in prosieguo di tempo, ha egemonizzato le istituzioni dello stato, la società laica, la cultura, imponendosi come unica vera religione, statuendo precetti e norme etiche obbligatorie. Le prescrizioni del cristianesimo cattolico sono inculcate nelle coscienze sin dalla tenera età, fossilizzandosi in imperativi categorici in funzione dei dogmi e dei culti sotto i quali si celano le forze occulte del potere clericale. I preti, come gli stregoni, s’arrogano un sapere magico, mascherato di sacralità carismatica, drammatizzata con le imponenti scenografie liturgiche, gli sfarzosi cerimoniali e i melodiosi canti gregoriani. Il magico rituale religioso è finalizzato a soggiogare la massa dei fedeli, inducendoli alla pietà verso il divino e all’obbedienza verso chi in terra lo rappresenta (spesso, come la storia documenta, indegnamente).

Dio, giacché immaginato come un essere perfettissimo, pura ragione trascendente e suprema legge morale, non può che amare se stesso e creare tutto in funzione della sua gloria. L’uomo, umiliando se stesso a causa della limitatezza e dell’imperfezione della sua natura, supplisce alle deficienze naturali, venerando l’egoismo di un Tutto irreale, un Nulla di fatto. Il bisogno d’immaginare un ente perfetto e potente sopperisce all’incompletezza dell’umana natura, tormentata dall’angoscia esistenziale, assillata dal dubbio e dalla paura dell’ignoto. Al lancinante dolore dell’esistenza, l'uomo trova conforto venerando un’illusione. Per tacitare il timore del precario e mutevole divenire, s’immerge nell’oscurità della superstizione, credendo di attingere sicurezza e conforto. L’ideologia religiosa, impregnata di teorie astratte, sublima la transitorietà della concreta esperienza, imponendo concezioni dogmatiche, certezze e valori assoluti, che determinano sicurezza all’agire dell’uomo. La fede cristiana si fonda sulla credibilità che le testimonianze delle Scritture siano attendibili e sulla convinzione di poter conoscere cose non viste, perché percepibili nel profondo della propria coscienza. Non è una libera scelta la credenza religiosa, se la volontà è condizionata in tal senso sin dall’infanzia.

L’ideologia cristiana, in quanto valore assolutizzato in forza di una fede rivelata da una pretesa divinità, è il metro con cui la Chiesa giudica l’agire umano, giustificandolo o criticandolo in rapporto alla conformità o non conformità ai propri dogmi e principi. I catechizzatori cristiani influenzano i comportamenti degli adepti imponendo il “cultus religionis”. L’egemonismo del cristianesimo, di una fede che si rinnova nella sua staticità, reinterpretando le sue pretese verità, ha dominato per secoli la cultura laica, subordinando lo stato ai suoi principi e contrastando la piena autonomia del potere civile rispetto a quello religioso. I suoi sistemi educativi e formativi sono finalizzati ad inculcare nella mente, sin dall’infanzia, norme e valori assoluti, condizionando i comportamenti e plagiando le coscienze. Il sistema di credenze religiose e i relativi valori etici, inculcati nell’animo degli adolescenti con parole suadenti sin dalla prima educazione, sono assimilati acriticamente, imprimendosi indelebilmente. L’educazione emotiva alla superstizione magico-religiosa del cristianesimo scolpisce la coscienza infantile, conformandola al sentire di una fede e asservendola, anche in età adulta, ad una stretta dipendenza alla sacralità cristiana. L’intelletto, soggiogato dal mito cristiano, è imprigionato nella gattabuia di una supposta verità rivelata da Dio. In realtà, una convinzione ideologica assoluta, fondata su una fede incondizionata in un’entità inesistente. Non è facile estirpare ciò che si è radicato in noi sin dall'infanzia. Le norme religiose, infatti, sono accettate come idee innate, naturali, che non richiedono punto un esame razionale o il sostegno di prove logiche. L’assolutismo religioso, in quanto ritiene d’essere universalmente valido, pretende d’imporsi a tutti. Non può scendere a compromessi con altre fedi, nei confronti delle quali alimenta il concetto di “diverso” fino all'estrema avversione per incompatibilità, se non addirittura fino alla repressione per necessità. Un acritico sistema educativo tende a degenerare in fanatismo e intolleranza. La storia è testimone della spietatezza criminale perpetrata nei secoli dalla violenza cristiana in nome dell’amore assoluto per un triste dio, inspiegabilmente uno e trino. Le mire politiche del cristianesimo, e del cattolicesimo in particolare, sono volte a condizionare il corso storico, nella sua totalità, per dirigerlo verso la propria meta, prefissata in ogni tempo con una sua specificità.  Dal sincretismo tra cultura religiosa e laica, conseguente all'alleanza fra trono e altare, il cristianesimo ha prodotto e adattato ai tempi una sua ideologia politica, auto-giustificativa, al fine di conquistare e conservare il potere sulle coscienze, legittimandosi. Persino una “sinistra” opportunista, convertita al buonismo, per acquisire un più vasto consenso popolare legittimante, si è aggregata al giogo del carro clericale, lasciandolo correre a briglia sciolta. Finanche filosofi che si dichiarano laici, poco attenti alle idee scientifiche, crocifiggono la ragione per cercare una fede smarrita, soffrendo sussulti e riflussi, “credendo di credere”, ossia d’illudersi di un Nulla, che sostituisce un vuoto mentale. Dio è la risposta irrazionale alle domande cui la scienza non può dare ancora una spiegazione plausibile. Solo con il supporto della ragione fondata sulla concretezza, l’uomo può ritrovare l’io alienato nell'altro da sé.



Lucio Apulo Daunio


domenica 16 febbraio 2014


CHE COSA E’ L’UOMO?


Che cosa è la specie uomo? L’uomo è il prodotto determinato dalla sua eredità naturale e dall’ambiente storico-culturale in cui è stato educato? E’ il protagonista della sua storia, personale e sociale, di emancipazione dai condizionamenti dello stato di natura e dell’ambiente culturale storicamente determinato in cui vive? C’è discontinuità tra il regno naturale e quello specifico dell’uomo? Ha una specifica particolarità naturale come ogni altro essere vivente, oppure ha qualcosa in più che gli consente di potersi svincolare dai condizionamenti naturali e storici? La sua mente è determinata dalla materia e dall’ambiente storico sociale in cui vive, oppure ha una sua autonomia, una sua libertà, una sua ragione critica, una specificità che le consente di trascendere, di oltrepassare i condizionamenti naturali e storici? Può evolversi dalla sua animalità, oppure tutto il suo modo di essere nel mondo è determinato alla nascita dalla sua innata eredità naturale e dall’ambiente culturale in cui è stato educato?

L’idea che l’uomo sia determinato dalla sua eredità naturale può degenerare nella credenza che, per natura, ci sarebbero dei buoni e dei cattivi, degli eletti e dei tarati, e che le capacità mentali dell’essere umano derivino prevalentemente da fattori ereditari, piuttosto che dall’influenza dell’ambiente in cui vive e dall’educazione culturale acquisita, sia individuale sia sociale.

La concezione meramente materialistica e deterministica, nel senso che tutto il modo di essere dell’uomo è programmato esclusivamente dalla natura e dall’ambiente storico-culturale, può degenerare nella negazione della libertà umana. Il libero arbitrio dell’uomo sarebbe quindi un’illusione. Io penso che sia proprio la libertà specifica dell’uomo, rispetto agli altri esseri viventi, che gli dia adito a riflettere con spirito critico su se stesso e sul mondo che lo ospita, rendendolo libero da condizionamenti imposti dalla natura e dall’educazione. Ed è proprio questa specificità dell’uomo, la sua umanità, a separarlo dalla sua animalità e a determinare una sua propria etica. L’animale, invece, è guidato dall’istinto specifico della sua specie, che lo obbliga a un codice di comportamento. La condizione di libertà dell’uomo gli consente di svincolarsi da ogni condizionamento. La sua libertà di scelta, determinata dal suo spirito critico, lo separa dai condizionamenti naturalistici e culturali e gli consente di esprimere giudizi di valore universali, come quelli indicati nella Dichiarazione dei diritti fondamentali dell’uomo, validi per ogni persona, indipendentemente dalla sua appartenenza a una comunità etnica, religiosa, linguistica, nazionale. L’umanità, dunque, si differenzia dall’animalità in base al criterio della libertà, cioè della capacità d’interrogarsi sulla sua natura e di giudicare moralmente la realtà.

L’uomo, quindi, ha una sua specificità etico-culturale, che consiste nella coscienza di sé, ossia nella libertà di pensare con spirito critico e di interrogarsi, condividendo la sua esperienza con altri uomini. Ed è proprio questa sua libertà che consente all’uomo di costruire la sua storia nel mondo e fondare i suoi valori etici o commettere azioni malvagie.

L’etica aristocratica, fondata sull’ineguaglianza naturale nella ripartizione dei talenti, è elitista e naturalistica; perciò avvantaggia i migliori, dotati più degli altri di talenti naturali. La virtù dell’etica aristocratica consiste nel conseguire l’eccellenza mediante il talento innato. L’eccellenza è intesa come giusta misura, come perfezione della propria natura, come medietà tra posizioni estreme. Ciascuno deve trovare la sua sistemazione nella società secondo la sua natura innata.

L’etica meritocratica, fondata sulla competizione individuale, avvantaggia il merito piuttosto che il talento; favorisce il percorso formativo della personalità, piuttosto che i risultati conseguiti. Il merito consiste nello sforzo effettuato per superare i propri limiti, piuttosto che nella realizzazione delle proprie capacità innate. Il talento, essendo un dono naturale, non ha alcun valore etico di per sé. La virtù ora consiste nella lotta della libertà contro i limiti della natura umana, contro ogni forma di egoismo e d’interesse particolare, contro ogni condizionamento. L’etica meritocratica è un’etica democratica e i suoi valori sono l’altruismo, la solidarietà, l’azione disinteressata, l’interesse generale, l’universalità. La virtù dell’etica democratica implica quella del dovere, ossia la capacità di resistere alla nostra natura egoistica, all’animalità. Dobbiamo trovare proprio in noi le ragioni per superare i nostri personali interessi. E’ la nostra soggettività che decide in ultima istanza a cosa dare o togliere valore.

L’etica utilitaristica, invece, mira non alla realizzazione delle doti innate né al superamento di sé, ma al benessere personale, mentale e fisico. Lo scopo dell’attività umana consiste nel conseguimento della massima felicità per il maggior numero di persone. L’etica utilitaristica è dunque universalistica e contraria all’edonismo egoistico.

Se l’esistenzialismo è la filosofia basata sulla convinzione che l’esistenza preceda l’essenza, la filosofia cristiana, invece, ritiene che sia l’essenza a precedere l’esistenza. In altri termini, l’ente divino concepisce prima l’idea dell’uomo, della donna e dell’universo, cioè l’essere; poi mette in atto la creazione che li fa esistere. Ciò presuppone una finalità dell’essere, creato dall’artefice divino. L’essere umano e il cosmo così concepiti devono risponde a un obiettivo, compiere una determinata missione (per esempio, l’uomo è stato creato per servire l’ente supremo e obbedire alle sue leggi). Se, al contrario, nessuna essenza precede la sua esistenza, se l’uomo non è stato progettato per uno scopo e, quindi, non è stato creato per realizzare tale scopo, allora ne consegue che l’uomo è libero, non condizionato dai comandamenti divini, bensì padrone del suo essere nel mondo. La sua dignità è nella sua libertà, nel suo non essere determinato da essenze preliminari alla sua esistenza. L’uomo che, negando la propria libertà, assume in malafede determinati ruoli psicologici o sociali, identificandosi completamente in essi, trasforma la sua umanità in un oggetto. In tal caso, sarà il ruolo assunto dall’uomo a determinare la sua esistenza. L’essere umano autentico, quindi, non è chi s’identifica in un ruolo, ma chi, distanziandosi da sé oggetto, si pone come soggetto che riflette e giudica se stesso e il mondo. In questa distanza della coscienza, che è solo soggetto, dall’oggettività delle cose del mondo, l’uomo dà un significato alle cose medesime e toglie loro l’essere in sé. E’ l’uomo responsabile del mondo, di se stesso e delle scelte che assume. Il conflitto tra gli uomini sorge dai differenti significati che ogni uomo dà alle cose del mondo.

Se l’essere umano non ha un senso determinato a priori, deve dare da sé e per se stesso un significato alla sua vita. L’esistenzialismo, dunque, si pone in antitesi alla teologia e a ogni genere di metafisica, che cercano sempre la causa dei comportamenti umani fuori di loro. La conoscenza deve fondarsi sulla concreta rappresentazione della realtà, che abbia una validità universale, non invece sulla contemplazione metafisica, che prescinde da ogni possibile esperienza. Un concetto astratto, di cui non sia possibile avere alcuna immagine sensibile, resta del tutto incomprensibile e non concretamente rappresentabile nella coscienza umana. Il linguaggio metafisico, dunque, è irrazionale, giacché fuori dalle esigenze di comprensione e di senso che sono quelle della coscienza reale degli uomini.

                  

Per approfondimenti, si rimanda a:

Che cos’è l’uomo – Sui fondamenti della Biologia e della Filosofia

di Luc Ferry e Jean-Didier Vincent.

Presentazione di Salvatore Veca.


sabato 15 febbraio 2014


FORME DI
MATERIALISMO E ATEISMO
NELL’ANTICHITA’



“Empio non è chi rinnega le divinità del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica alle divinità” (Epicuro)

“I soli possono tramontare e risorgere: noi, quando è tramontata la breve giornata della nostra vita, dobbiamo dormire un’unica notte perpetua” (Catullo, carme 5)

«La paura primamente creò nel mondo gli dei» (Stazio, Tebaide III, 661)


L’accettazione dell’ateismo (negazione-assenza del teismo) libera l’uomo dalla subordinazione a una supposta volontà divina e dalla credenza dell’ineluttabile fatalità del destino. La liberazione dalle credenze religiose e da qualsiasi altra superstizione (concezioni magiche, adorazioni astrali, ecc.) è una delle condizioni per l’uguaglianza tra gli uomini, giacché non più distinti con riguardo alle diverse fedi, che innalzano barriere immaginarie impedenti il raggiungimento di una comune etica sociale. Prometeo odia tutti gli dei, perché soffocano l’autocoscienza degli uomini asservendoli ai loro voleri.

Lo scetticismo verso le credenze religiose, si fonda sull’impossibilità di conoscere e dimostrare l’esistenza di supposte divinità. Ciò che non si conosce non può essere dimostrato. Dio o esiste o non esiste. Cercare una via di mezzo, affermando che l’esistenza o l'inesistenza di Dio siano ugualmente probabili, è un modo fallace di ragionare (argumentum ad temperantia), giacché la probabilità che esista l’inesistente non implica di per sé la verità di qualsiasi supposta esistenza. L’idea che esista qualcosa oltre la realtà materiale, non riconducibile a essa, è un concetto metafisico non supportato da una conoscenza oggettiva. Dio, trascendenza, sono termini concettuali, inconsistenti, irreali, astratti, accettabili solamente in un contesto personale di fede religiosa. Credere in qualcosa o in qualcuno non implica né verità né esistenza. Da ciò che non esiste nella realtà conoscibile, le religioni deducono molte assurdità, assunte dai credenti come sacre verità dogmatiche di fede, valide per tutti e ovunque. Dio, entità trascendente, è concepito come dispotico legislatore cui sottomettersi per non subire orribili pene eterne nell’aldilà. L’apocalittica presunta rivelazione di Gesù, supposto Figlio di Dio e Lui stesso Dio (assoluta assurdità teologica), riguardo all’imminente fine del mondo, non si è avverata. L’ostinata accettazione cieca della fede cristiana nell’escatologia ha prolungato in un futuro indeterminato il catastrofico accadimento. La fine dell’uomo e del mondo, in realtà, non dipenderà dall’economia della provvidenza divina, ma da cause naturali, fisiche.

Lo scetticismo riguardo alle credenze religiose si riscontra in quei reperti e scritti pervenuti fino a noi sin dalle più antiche civiltà. Ciò che possiamo apprendere da un antichissimo testo come l’Epopea di Gilgamesh è la rilevanza di un’esperienza di vita terrena piuttosto che la sopravvivenza dopo la morte. Il Canto dell’arpista, dedicato al faraone egiziano, invita a rallegrarsi dei beni della vita, essendo improbabile una seconda vita oltre la morte. Un’antica scuola di pensiero pre-induista, materialista e atea, negava l’esistenza di entità immateriali. L’etica confuciana non contempla l’aldilà.

La natura fisica nel pensiero greco è la struttura originaria, eterna, del mondo (Eraclito, fr. 37), le cui leggi sono governate dalla necessità (anànche). La necessità è ciò che deve essere nell’ordine naturale, che non può variare. La natura è armonia, calcolo matematico, regolarità, immutabilità. Dallo studio della natura ha origine il sapere scientifico. La natura è caratterizzata da una temporalità ciclica (kiklos), un ripetersi all’infinito. Tutto in natura ha un tempo, un ciclo di vita. Secondo Platone, l’uomo è libero perché non è condizionato dagli istinti come lo sono gli animali. L’uomo apprende la conoscenza dalla visione del mondo, dalla regolarità e ciclicità dell’ordine naturale. Egli, a differenza degli animali, ha consapevolezza (pre-visione) del suo destino, della ineluttabilità della morte. Dalla sua capacità di apprendere, l’uomo sviluppa la tecnica, con cui volge a suo vantaggio l’ordine della natura. In virtù della memoria, conserva il ricordo delle precedenti esperienze, progredendo nelle conoscenze. La sua previdenza lo rende consapevole dell’unicità e irripetibilità della sua vita. La speranza d’immortalità è una pia illusione, un inganno. La vita va vissuta pienamente, sviluppando al massimo l’eccellenza umana, fisica e psichica, espandendo la virtù (areté) nella giusta misura, senza travalicare i propri limiti, per non peccare di tracotanza (hybris). Dalla conoscenza della tragicità della sua vita, l’uomo apprende la necessità di dare un senso, uno scopo alla sua breve, corporale esistenza. Il dolore, per i greci, è parte costitutiva della vita, un’anticipazione della morte.

Nella concezione cristiana, invece, la natura è una creazione della volontà di Dio, posta sotto il dominio dell’uomo. Il dolore è l’espiazione per una colpa originaria. La sua cristiana accettazione apre la porta del paradiso, alla speranza della sopravvivenza oltre la morte. La storia nel cristianesimo è concepita come redenzione nel presente, per una colpa commessa nel passato, e come speranza di salvezza nel futuro. Il senso cristiano della storia svuota di senso la morte, depotenziano la vita presente a vantaggio della speranza di una vita futura.

Le comunità culturali dell’antica Grecia ebbero una visione della vita materialistica e edonistica, fondata sulla centralità dell’uomo e della natura (physis). Era la razionalità, quella dell’uomo e quella della natura, a occupare prevalentemente l’interesse dei greci. Tutti gli ideali erano terreni e con il sopraggiungere della morte terminava per sempre la vita. L’oltretomba era immaginato come il mondo del non essere. Primeggiavano le virtù eroiche (areté), l’impari lotta dell’eroe contro l’oscura e misteriosa forza del Fato. Il divino era un’idealizzazione scaturente della fragilità umana, un bisogno per vincere la paura dell’ignoto; perciò si rappresentava in forme e caratteristiche umane e si onorava ottemperando a norme cultuali prestabilite dalla tradizione, dalla cui osservanza si speravano protezioni per sé e per l’intera comunità-stato. Criticare il culto degli dei, o metterne in dubbio la loro esistenza, si rischiava d'incorrere nel delitto (religioso e politico) di empietà, passibile di condanna per abbandono della loro protezione (ateos). Ciò non ostacolò l’espressione del libero pensiero, la critica riguardo alla veridicità dei miti e la generale diffusione dell’incredulità dovuta alla disattesa manifestazione della giustizia divina e all’incapacità degli dei d’impedire il male nel mondo.

Euripide, nella tragedia “Bellerofonte”, mise in dubbio l’esistenza degli dei, rispecchiando un comune sentire del popolo. Attraverso i personaggi delle tragedie “Edipo a Colono” e “La Fenicie”, egli criticò l’ingiustizia degli dei, perché non perseguivano i malvagi e lasciavano soffrire i buoni. In “Oreste”, traspare la condizione umana asservita all’ineluttabile volontà degli dei e del Fato. In “Medea”, Euripide evidenziò l’impotenza umana di fronte alle trame e alla malevolenza degli dei. In “Elena”, dubitò dell’esistenza degli dei, concepiti come immagini create dal pensiero. L’irrazionalità umana, piuttosto che il volere del Fato, è per Euripide causa permanente di sofferenza. Aristofane, nella commedia “Le Rane”, taccia Euripide (già ridicolizzato in “Acarnesi”) di ateismo, amoralità, corruzione. Euripide, infatti, attraverso i personaggi delle tragedie, manifestava un atteggiamento scettico e razionalista, perciò fu accusato e processato per empietà.

Eschilo, in “Prometo”, e Sofocle, nelle tragedie “Filottete”, “Elettra” e “Le Trachinie”, rimproverano gli dei per la loro ingiustizia e crudeltà, che opprimono i giusti e causano sofferenze umane.

Melisso, secondo Diogene Laerzio (IX, 24), affermò che sugli dei non bisogna pronunciarsi, perché di essi non è possibile conoscenza. Democrito (e poi anche Epicuro) attribuì l’invenzione degli dei e della religione al terrore provato dagli uomini primitivi davanti a fenomeni celesti, malefici o benefici, di cui non sapevano spiegarne la ragione; perciò essi immaginarono che fossero causati da entità a loro superiori, dotate di straordinaria potenza. Dio (Theos) è, dunque, l’eccezionale manifestazione di un evento fisico; perciò soltanto attraverso lo studio della natura si possono comprendere i fenomeni naturali e superare il timore degli dei. La natura, secondo Lucrezio, non richiede un dio né tantomeno ha bisogno della sua provvidenza.

Pitagora, fondatore di una scuola etica a carattere religioso – dogmatico, derivante dalla dottrina salvifica orfica, credeva nell’armonia e nel misticismo dei numeri (concepiti come enti astratti rappresentabili in uno spazio ideale) e nella reincarnazione della natura umana in altra natura animata (metemsomatosi) per scontare le colpe commesse durante la vita. Riteneva altresì che solamente l’acquisizione della conoscenza scientifica potesse liberare l’uomo dal male dell’ignoranza.

Ecateo di Mileto fu il primo a criticare la tradizione mitologica dei Greci mediante un’interpretazione razionalistica. Egli si mostrava spregiudicato e noncurante per tutto ciò che allora era considerato sacro e inviolabile.

In Grecia, i filosofi fisici naturalisti spiegarono i fenomeni naturali mediante cause materiali, fisiche, non divine (dissacrazione della natura). La sostanza fondamentale eterna (arché), da cui ogni cosa si era formata, era stata di volta in volta individuata nell’acqua (Talete) o nell’aria (Anassimene) o nel fuoco (Eraclito) o nel mescolamento di queste sostanze (radici dell’essere) con la terra, in virtù di due forze cosmiche antagoniste, che determinano stati di aggregazione (solido liquido gassoso etereiforme) e progressive selezioni delle forme originarie (Empedocle). L’allievo di Talete, Anassimandro, pose il fondamento del tutto nell’infinita forza della natura, indefinita (àpeiron), di per sé ovunque generatrice delle cose. Egli sostenne la tesi della sfericità della Terra. Con Anassagora si affina la concezione materialistica. Egli concepì l’esistenza d’infinite sostanze primordiali (semi), aggregate da una forza materiale (nous o intelligenza cosmica, non creatrice, non finalistica). Per aver messo in dubbio la divinità degli astri fu accusato e processato per empietà. Diogene d’Apollonia passava per ateo, perché spiegava l’universo in termini fisici, ritenendo mere allegorie religioni e miti. Diceva che niente diviene dal non essere e nulla perisce nel non essere. Eraclito sostenne che l’unico fondamento della realtà è la materia (monismo materialistico) e il perenne fluire di tutte le cose (pànta rèi).

Con Leucippo e Democrito si pongono le basi scientifiche della casualità meccanica dei processi naturali (l’essere – l’esistente) concepiti come combinazioni di atomi: particelle invisibili dotate di movimento vorticoso, vaganti nel vuoto (il non-essere - lo spazio). La realtà, dunque, concepita in termini materialistici, consiste in un’infinità di atomi in continuo movimento e trasformazione, da cui trae origine la pluralità materiale del cosmo in forma di curva. In questa loro visione deterministica e meccanicistica, fisica e cosmologica, in cui l’esistenza della materia è determinata dal caso e dalla necessità, si escludono la creazione e la provvidenza divina nonché il finalismo dei fenomeni naturali. Tale sarà anche il pensiero di Lucrezio. La divinità, dirà Epicuro, se esiste, è ininfluente: non s’interessa degli uomini, non è creatrice di materia, perciò la conoscenza naturalistica può fare a meno della metafisica. Quanto alle regole comportamentali, individuali e sociali, esse vanno osservate per la loro utilità, non per timore di castighi divini o per meritare premi paradisiaci. Bene è godere sobriamente e gioiosamente i beni della vita e i frutti del proprio lavoro (Meslier).

Dopo gli esperimenti scientifici di Boyle, nel 1600, e le successive ricerche sperimentali da parte dei chimici, furono individuati i veri e propri elementi chimici (sostanze pure da cui non è possibile ottenere sostanze più semplici). Tutte le altre sostanze presenti sulla terra (come le quattro supposte dai filosofi naturalisti) sono scomponibili negli elementi che le formano.

Diagora di Melo, discepolo di Democrito, accusato di empietà (asebeia) e ateismo, fu bandito da Atene per aver criticato il culto degli dei, negata la divina provvidenza, profanato i Misteri Eleusini, distogliendo molti dalla loro celebrazione. Se gli dei, posto che esistano, non s’interessano degli affari umani, tanto valeva disinteressarsi di loro. Anche Ippone di Reggio fu considerato ateo perché negatore della religione. Affermava, infatti, che nulla esiste fuori della materia. Le opere sulla religione scritte da Protagora furono bruciate sulla pubblica piazza per manifesta incredulità. Egli negò la possibilità di determinare l’esistenza o l'inesistenza delle divinità. Crizia riteneva che le divinità fossero invenzioni umane allo scopo di rendere gli uomini timorosi del castigo divino, qualora avessero trasgredito le leggi (religio instrumentum regni). Ciò pensava anche Cicerone, cioè che la credenza degli dei fosse uno strumento etico per tenere il popolo sottomesso. Senofane di Colofone, che criticava l’antropomorfismo religioso di Omero e di Esiodo e concepiva il divino come proiezione del sentire umano, affermò che intorno all’esistenza degli dei possiamo avere soltanto opinioni, non certezze.

Aristippo di Cirene, che dette inizio al materialismo edonistico della scuola cirenaica, disprezzò convenzioni sociali e tradizioni. Fu cultore di uno stile di vita libero e autosufficiente (possiedo, non sono posseduto), volto alla moderata ricerca del piacere (hedonè), inteso come qualsiasi bene che dia godimento (il che implica come disvalore la sofferenza e come valore la felicità, ed esclude la ricerca metafisica e la contemplazione del divino). Egesia di Cirene riteneva che la conoscenza fosse incerta e che gli eventi fossero dominati dall’impersonale potenza del caso (tyche). Gli antichi, secondo Prodico di Ceo, considerarono divinità tutte le cose utili per la vita dell’uomo (così il fuoco divenne Efesto, l’acqua Poseidone, ecc.) e inventarono il timore degli dei come spauracchio per i malvagi che riuscivano a eludere la giustizia umana. Evemero affermò che gli dei erano stati uomini illustri, divinizzati per aver reso servizi all’umanità. Che gli dei fossero creazione degli uomini, è ciò che ritenne già Demade. Teodoro detto l’Ateo fu bandito dalla città di Atene perché criticava i valori tradizionali e negava l’esistenza di ogni divinità. Il fine della vita, secondo Teodoro, consisteva nel raggiungimento del piacere, mediante la saggezza pratica, al fine di conseguire un permanente stato d’animo gioioso. I filosofi cinici (Antistene, Diogene di Sinope, Bione di Boristene, ecc.) escludevano la possibilità di una qualche conoscenza e ponevano il raggiungimento della vita virtuosa nell’estrema autosufficienza (autàrcheia), cioè nella drastica riduzione dei bisogni. Con provocante libertà di parola (parresìa), disprezzavano le convenzioni sociali e negavano le credenze religiose, opponendo a queste la natura (physis). Enomao di Gadara criticava la credenza nei responsi degli oracoli e nelle profezie, ritenendo che non provenissero dalle divinità, poiché queste non si curavano minimante delle cose umane. Stilpone di Megara, pur non credendo nella religione politeistica popolare, evitò di criticarla pubblicamente. Nonostante questo suo prudente comportamento, fu condannato all’esilio per empietà verso gli dei. Anche Socrate fu condannato per ateismo e corruzione, perché accusato di non riconoscere le divinità tradizionali della polis e d’introdurre nuove divinità e nuove pratiche religiose. Aristodemo il Giovane irrise i credenti. Carneade, scettico radicale, svuotò di significato la disputa intorno a Dio, data la debolezza delle argomentazioni tendenti a provarne l’esistenza. Plinio il Vecchio denunciò l’imbecillità degli uomini nel voler deificare tutte le cose. Tacito (An. XVI, 33) affermò che gli dei erano indifferenti al bene e al male. Nelle sue Satire, Giovenale evidenzia il carattere sanguinario delle religioni. Lo scettico Luciano di Samosata, critico irriverente delle religioni e degli dei, che mette in ridicolo nei “Dialoghi”, irrideva la credenza dei cristiani nell’immortalità dell’anima e nella cieca obbedienza ai dogmi di un presunto dio crocefisso. La sua opera “Peregrino”, infatti, è una parodia del cristianesimo.

Durante l'età medievale, l’incredulità era diffusa tra il popolo e nelle corti dei sovrani (Federico II). Tra gli intellettuali l’incredulità si esprimeva in forme letterarie (come in Carmina Burana dei Goliardi). Il filosofo islamico Averroè (Ibn Rushd) affermerà l’eternità del mondo e negherà la provvidenza divina, l’immortalità dell’anima e la risurrezione dei corpi. Gli ebrei Maimonide e Isaac Albalag accoglieranno, l’uno, l’idea dell’eternità del mondo, l’altro, la dottrina della doppia verità: quella filosofica, contraria alla fede; quella di fede, contraria alla ragione. San Tommaso, invece, sosterrà che l'esistenza di Dio non è di per sé evidente, giacché la natura umana, tramite i sensi, può avere conoscenza certa soltanto di cose materiali. Egli perciò partirà dalla materia per dimostrare, attraverso cinque discutibili vie, l’esistenza dell’Assoluto. Sarà poi Guglielmo di Occam che confuterà le cinque prove di san Tommaso, tenendo separate e distinte la fede e la ragione.

Si fa risalire al XIII secolo l’esistenza dello scandaloso e anonimo trattato “de tribus impostoribus”, in cui sono qualificati come impostori Mosè, Gesù e Maometto, fondatori dette tre religioni monoteistiche.


Lucio Apulo Daunio