IL PROCESSO
DI GESU’
PARTE PRIMA
Lo scopo di
quest’articolo è una libera indagine critica e razionale su quanto testimoniano
gli evangelisti riguardo al presunto processo di Gesù, detto il Cristo.
Il processo
di Gesù, trasmesso dai quattro evangelisti, non è l’autentica relazione del suo
svolgimento, ma una presunta ricostruzione del medesimo dal punto di vista
religioso (e però incoerente rispetto alla legislazione e alla situazione
storico culturale dell’epoca). Il processo non appare illegale o arbitrario,
anche se dai vangeli non risulta che siano state rispettate le procedure di
rito. Né può stabilirsi se la condanna di Gesù fu un errore giudiziario,
giacché non è dimostrata l’infondatezza delle accuse a suo carico. Nella
concezione cristiana, peraltro, il sacrificio di Gesù era necessario, in
quanto, secondo le Scritture, era l’attuazione preordinata della volontà divina
per riscattare una colpa originaria dell’umana gente. Tuttavia, nessuna
rilevanza ebbe per i contemporanei la tragica vicenda umana di Gesù: un uomo
che si fece (o i suoi seguaci han voluto fare) Dio.
La
persecuzione dei Giudei contro il compatriota Gesù, narrata con liturgica
drammatizzazione e commento apologetico, ebbe carattere essenzialmente
religioso. L’intendimento degli evangelisti è far credere che Gesù doveva
necessariamente morire, come annunciavano le Sacre Scritture. Queste,
artatamente interpretate, testimonierebbero che Gesù, adempiendo supposte
profezie, ha portato a compimento le rivelazioni che Dio annunciò ai precedenti
profeti. Riguardo agli avvenimenti che portarono all’arresto di Gesù e al
conseguente processo, si rilevano alcune anomalie procedurali. Il processo si
celebra di notte, sia pure in via informale, davanti ai membri del Grande
Sinedrio di Gerusalemme (organo giurisdizionale giudaico in difesa dell’ordine
pubblico, avente potere esecutivo e giurisdizionale in materia religiosa e
civile). Le sedute processuali formali, secondo la legislazione ebraica (cfr.
il Talmud Babilonese, testo sacro dell’ebraismo), dovevano sempre tenersi
durante il giorno, prima del tramonto, mai nei giorni festivi o di vigilia. Il
mattino seguente l’arresto di Gesù, il Sinedrio formalizza la grave accusa
contro di lui e lo consegna al tribunale romano, legittimato a pronunciare
sentenze capitali (era consuetudine dei romani riservare a sé lo jus
gladii, cioè l’attributo della sovranità sulle provincie sotto il loro
dominio e il conseguente potere di mandare a morte un criminale). Si discute, per
la mancanza di documenti storicamente attendibili, se il Sinedrio, sotto
l’amministrazione romana, abbia conservato il diritto di infliggere la pena
capitale in materia religiosa o se occorreva la convalida dell’autorità romana
per eseguire la sentenza (cfr. Gv 18,31), oppure se la competenza a pronunciare
sentenze capitali sia stata avocata dall’autorità romana (dal magistrato cum
imperio), che agiva secondo il proprio diritto (jure proprio). Il
Sinedrio era presieduto dal sommo sacerdote (nominato dalle autorità romane) e
composto di settantun membri, reclutati tra il ceto sacerdotale, i Sadducei
(partito religioso aristocratico), i Farisei (osservanti scrupolosi della Legge
e della tradizione orale), gli Scribi (dottori della Legge) e gli Anziani
(notabili). I capi d’accusa contro Gesù concernevano l’eresia (deviazione
blasfema, per aver dichiarato ai membri del Sinedrio di essere lui il Messia) e
la millanteria (per aver dichiarato di distruggere e ricostruire il Tempio in
tre giorni; cfr. Mc 14,53 seg.). Il Talmud Babilonese, invece, riporta che Gesù
fu condannato a morte (fu appeso sulla croce) per stregoneria (magia) e
apostasia. La legge giudaica considerava bestemmiatore, passibile di pena di
morte per lapidazione, chi violava le leggi del sabato o si proclamava “Figlio
di Dio” (in aramaico, “bar-abba”, cioè Barabba, che è anche il nome del
criminale liberato da Pilato durante il processo). Non erano capi d’accusa
gravi per ottenere una sentenza di morte presso i tribunali romani. L’accusa di
millanteria, però, implicava anche quella di sedizione (nella concezione di
vita teocratica degli ebrei, politica e religione erano strettamente
associate). Per dare legittima esecuzione alla pena capitale contro Gesù, il
Sinedrio trasferì il processo presso l’autorità giudiziaria romana,
riformulando le suddette accuse. Furono addotte imputazioni di natura politica,
per garantire la ratifica della condanna a morte. Denunciato per essersi
intrigato di politica e di volersi sostituire a Cesare, Gesù fu incriminato sia
del delitto di lesa maestà, per essersi proclamato “re dei Giudei”, sia di
sobillare il popolo, per aver ostacolato il pagamento dei tributi a Cesare,
rifiutando così di riconoscerlo come sovrano d’Israele (Lc 23,2). Taluni passi
dei vangeli inducono a pensare che Gesù sia stato sospettato di appartenere
alla setta galilea degli zeloti, fomentatori di rivolte contro le esazioni
fiscali romane (gli zeloti proclamavano che la sovranità spettasse
esclusivamente a Jahvè, non a Cesare). Non è dunque improbabile che Gesù fosse
a capo di un movimento messianico, che aveva molti elementi in comune con
quello zelota. Quest’ultimo movimento, capeggiato da Giuda il Galileo,
originario di Gamala, sedicente appartenente alla stirpe reale di Davide, aveva
tempo prima fomentato sollevazioni contro i Romani. Forse, sotto l’identità di
Gesù, prima che fosse spoliticizzato e de-giudaizzato dai revisionisti
cristiani di scuola paolina, si è voluto nascondere un seguace (o parente) del
suddetto ribelle.
La
proclamazione del Regno di Dio, che faceva parte del programma riformatore di
Gesù, implicava, a giudizio dei membri del Sinedrio, la restaurazione del regno
d’Israele mediante una rivolta popolare in Giudea contro il governo romano e i
loro collaboratori. Si ritenne dunque necessario intervenire drasticamente,
procedendo a una preventiva repressione dei fermenti di rivolta popolare,
mediante l’incriminazione del sobillatore Gesù e la sua condanna a morte
tramite un formale processo presso l’autorità romana, accusandolo di reati
religiosi e politici. I tentativi di Pilato di salvare il reo (del tutto
inverosimili, come le leggende pro e contro fiorite intorno alla sua figura)
trovarono un’accanita resistenza da parte dei Giudei. Questi, per aggravare le
accuse contro Gesù, insinuarono che il Nazareno dichiarava di essere il
re-messia d’Israele e che la sua liberazione avrebbe compromesso la fedeltà di
Pilato a Cesare, l’unico re legittimo al quale i Giudei si dichiaravano
soggetti. L’allusione non poteva certamente essere sottovalutata dal
procuratore romano. La bega religiosa interna al giudaismo sarebbe potuta
sfociare in una questione politica. I Giudei avrebbero potuto inviare un
esposto a Roma, travisando i fatti a suo danno. Così, per evitare grane, è
verosimile che Pilato abbia assecondato i capi giudei, convalidando le accuse
politiche e la conseguente condanna del reo alla crocifissione, pur dubitando -
secondo i Vangeli - della fondatezza delle medesime. In verità, assumendo per
vero ciò che riferiscono talune fonti su Ponzio Pilato (governava la Giudea con
metodi violenti e crudeli), non sembrerebbe che questi si lasciasse intimorire
dalle autorità religiose giudaiche, qualora i capi d’accusa contro Gesù li
avesse giudicati del tutto infondati. Si ritiene, invece, che l’immagine
teologica di Cristo, così come presentata nei vangeli canonici dai messianici
proto-cristiani, sia stata mistificata, edulcorando artatamente la versione dei
fatti processuali per renderli compatibili con il riformismo neo-cristiano di
stampo paolino, addossando la responsabilità della morte del Nazareno ai
perfidi Giudei (cfr. 1Ts 2,15).
Le
testimonianze su Gesù e sul relativo processo provengono quasi tutte da fonti apologetiche
neotestamentarie. Un cenno (della cui autenticità si discute) si riscontra in
Tacito (Annali 44,5), in Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche 18,64) e, con
riferimento ai seguaci di Cristo (dove il Cristo più che un predicatore sembra
un ribelle, propagatore di un’ideologia malefica), nelle Epistole di Plinio il
Giovane e nelle Vite dei dodici Cesari di Svetonio. Paolo, fondatore del
neo-cristianesimo messianico presso i “gentili”, in opposizione alla catechesi
giudaico-cristiana, incolpava della morte di Gesù i Gerosolimitani e i loro
capi religiosi (con conseguenze nefaste nei secoli successivi per gli ebrei
della diaspora). Li riteneva incompetenti e faziosi circa l’interpretazione
degli oracoli profetici, che, invece, trovavano puntuale adempimento in Gesù. I
giudei, a parere di Paolo, non sapevano comprendere l’autentico significato
delle Sacre Scritture, pur leggendole ogni sabato nel tempio (At 13,27-29). Il
diacono Stefano (forse un greco, come lascia supporre il suo nome), seguace di
Gesù, accusato di blasfemia da alcuni membri della sinagoga, fu condotto
davanti al Sinedrio. Là ritorse l’accusa contro i suoi accusatori giudei e i
loro padri, incolpandoli di aver perseguitato i profeti che avevano annunciato
la venuta di Cristo, da loro tradito e fatto assassinare (At 7,52-53). Stefano
fu lapidato seduta stante (primo martire cristiano). Pietro anche si scagliò
contro i giudei, che rinnegavano Cristo, servitore del dio dei loro padri,
nonostante che Jahvè l’avesse accreditato presso il popolo d’Israele con
portenti e miracoli. Li accusò d’aver compiuto un misfatto, consegnando Gesù a
Pilato, che pure cercava di liberarlo, affinché pronunciasse contro Gesù la
sentenza di condanna a morte. A causa della loro malvagità e ostinazione,
Pilato fu indotto a graziare, anziché il pio Gesù, un ribaldo, di nome Barabba.
Questo personaggio, il cui nome (“bar-abba”) significa “figlio del Padre”, cioè
“Figlio di Dio”, parola impronunciabile per gli ebrei, è anche l’appellativo
attribuito al Cristo, il che lascia alquanto perplessi circa l’omonimia di
questo personaggio con Gesù. Ad ogni modo, se Dio Padre aveva disposto “ab
aeterno” che il Figlio Unigenito sarebbe stato perseguitato dai giudei e
inchiodato sul patibolo (At 2,22-23; 3,13); se dunque era scritto che il Figlio
dell’uomo doveva soffrire molto ed essere disprezzato per la redenzione degli
uomini; se tale era l’acerbo fato del Cristo, tale l’inderogabile disegno
divino, dov’è la colpa dei Giudei e dei carnefici di Gesù? Dov’è la colpa di
Giuda, inconsapevole strumento della volontà di Dio? La tesi della non
colpevolezza di Giuda è sostenuta nell’apocrifo “Vangelo di Giuda”, che ribalta
l’accusa di tradimento, giustificando il suo atto come provvidenziale disegno
nell’economia salvifica di Dio.
Il processo
contro Gesù, svoltosi davanti a Ponzio Pilato, prefetto romano della Giudea
durante il regno di Tiberio, ancorché iniquo dal punto di vista dei cristiani,
appare formalmente legale, essendo conforme al diritto romano. Da escludere è l’ipotesi
secondo la quale Ponzio Pilato si limitò a dare esecuzione alla delibera di
condanna del Sinedrio. Vero è che la fase istruttoria, informale, del processo
di Gesù appare inusuale, tenuto conto della legislazione ebraica del tempo (si
svolse durante la notte, nelle abitazioni private dei sommi sacerdoti Anna e
Caifa, alla presenza di tutti i membri del Sinedrio, riunitosi in un luogo
diverso dalla sala del Tempio, in prossimità della festa di Pasqua). Peraltro,
le risultanze del processo, così come descritte nei quattro vangeli, attestano
la scarsa conoscenza degli autori circa le consuetudini giuridiche ebraiche. Da
alcuni passi dei vangeli sembra possibile che Gesù capeggiasse una banda armata
di zeloti e che istigasse alla rivolta contro la dominazione romana. In tal
caso, per un verso si spiegherebbe l’invio di una coorte militare romana
(decima parte di una legione) per arrestare Gesù, colto in flagranza di reato
sul monte degli ulivi assieme ai suoi seguaci in armi (come documentano i
vangeli); per un altro verso, si giustificherebbe la decisione del Sinedrio ad
arrestare Gesù di notte, per evitare sommosse popolari. Non avendo però
competenza giuridica per processarlo, il Sinedrio si limitò a formalizzare i
capi d’accusa, in attesa di consegnarlo il mattino seguente all’autorità
romana, aggiungendo a suo carico, oltre l’accusa di sedizione, quella contro la
religione (era blasfemo e non osservava i precetti del sabato, del digiuno,
delle abluzioni, ecc.). Se le accuse dei giudei fossero state prive di consistenza
dal punto di vista politico, l’autorità romana non avrebbe mobilitato i
pretoriani per reprimere i crimini contestati al caporione della setta
messianica galilea.
Non sempre
però i romani avevano il controllo sugli atti delle autorità locali o potevano
impedire i linciaggi da parte di folle inferocite. Gesù stesso aveva rischiato
più volte la lapidazione (Gv 8,59; 10,31.39; Lc 4,28-30; Mc 3,6). Il re Erode
Agrippa I, che governava con potestà consolare la Palestina (formalmente
indipendente da Roma, poiché l’imperatore Claudio aveva abolito la provincia di
Giudea), dopo aver determinato la messa a bando di Erode Antipa (il figlio di
Erode il Grande, che aveva fatto decapitare Giovanni Battista e interrogato
Gesù durante il processo a suo carico; cfr. At 12,1seg), poté far giustiziare
l’apostolo Giacomo e arrestare Pietro (che riuscì poi a fuggire, liberato da un
angelo, ma a costo della vita per i suoi custodi). Anche le autorità religiose
giudaiche non sempre potevano controllare il fanatismo popolare. A furor di
popolo, infatti, fu lapidato Stefano (At 6,11seg-7,1seg). Paolo fu perseguitato
prima dai giudei di Damasco, dai quali riuscì a fuggire con l’aiuto dei discepoli
(At 9,21-25), e poi da quelli d’Antiochia, i quali istigarono nobildonne e
notabili del luogo, che lo scacciarono oltre i confini (At 13,50). Egli dovette
fuggire da Iconio per evitare il linciaggio degli abitanti pagani, istigati dai
giudei (At 14,2 seg.). A Listra fu lapidato e trascinato fuori della città come
morto (At 14,19). Tumulti e sommosse contro di lui avvennero anche a
Tessalonica e a Berea (At 17,5-13). A Gerusalemme rischiò la lapidazione, ma si
salvò in extremis per l’intervento delle autorità romane (At 21,20seg.). A
Filippi e a Efeso fu aggredito dalle folle pagane (At 16,9seg; 19,23seg). In
seguito, anche i Romani perseguitarono i cristiani per motivi politici (sia
perché ritenuti fomentatori di disordine, sia perché rifiutavano o di riconoscere
la sovranità di Cesare o di sacrificare alla statua dell’imperatore o di
giurare nel suo nome), ma anche religiosi (l’accusa concerneva l’empietà,
poiché i cristiani si rifiutavano di sacrificare alle divinità pagane venerate
dai Romani). L’offesa fatta a Cesare implicava un atteggiamento politico di
ribellione: la liberazione dalla sottomissione al dominio di Roma. L’offesa
fatta alle divinità pagane poteva mettere in pericolo l’impero, venendo a
mancare la protezione divina, la “pax deorum”. L’unica autorità sovrana,
che i cristiani della prima ora riconoscevano, era Dio. Accettare la
subordinazione a un’autorità civile e religiosa pagana, significava per loro
commettere sacrilegio.
PARTE SECONDA
Il complotto
per uccidere Gesù avvenne nell’imminenza della festa della Pasqua ebraica. Il
Gran Consiglio si riunì nel palazzo del sommo sacerdote Caifa per trovare una
soluzione definitiva al problema Gesù, che perturbava l’ordine pubblico,
aizzando il popolo alla disubbidienza verso le avite costumanze (Mt 26,1seg, Mc
14,1seg, Lc 22,1, Gv 11,45seg). I membri del Sinedrio temevano che il movimento
del Nazareno potesse mettere in discussione la loro autorità, provocando un
intervento repressivo dei romani. Perciò lo accusarono di pronunciare discorsi
blasfemi, di sobillare il popolo, di proferire vituperi e maledizioni contro i
suoi fratelli giudei e i loro rispettabili capi religiosi. Giudicarono che il
vangelo che Gesù predicava era in palese contrasto con la Legge di Mosè e le
tradizioni dei loro padri. Assurdo e inaccettabile era per loro ascoltare che
si conclamava “Figlio del Benedetto” e in tale veste minacciava di togliere
loro il regno di Dio per consegnarlo a un altro popolo (Mt 21,42-46). I seguaci
di Gesù, invece, lo osannavano, considerandolo legittimo discendente di re Davide
ed erede del suo trono. Pare comprensibile che i membri del Sinedrio temessero
che l’opera di Gesù evolvesse nel messianismo politico e irritasse l’autorità
romana. Persa ogni speranza che il settario Nazareno si desse una calmata, il
massimo organo giudicante decretò di condannarlo a morte nell’interesse di
tutta la nazione. Fu ordinato di trovarlo e arrestarlo “manu militari”,
ma non durante la festività della Pasqua, nel timore di una sommossa popolare.
Gesù, intanto, avendo avuto sentore dell’aria che aleggiava nella città santa,
pensò bene di non comparire in pubblico per un po’ di tempo. Cercò rifugio in
una località desertica, dove attendere gli eventi fatali. Fu comunque ritrovato
e arrestato di notte in seguito alla delazione di un suo discepolo, Giuda
Iscariota. Secondo l’evangelista Matteo, Giuda tradì Gesù per motivi economici
(ebbe in compenso trenta monete d’argento). Alla sua cattura presero parte i
militi di una coorte romana, che contava 500-600 uomini (ciò appare del tutto
improbabile, salvo ammettere che Gesù fosse un ribelle, capo di una banda
armata di zeloti messianici). Tutto ciò doveva accadere, affinché s’adempissero
le Scritture dei Profeti (Mt 26,56). Era dunque predestinato che qualcuno lo tradisse
e altri lo condannassero a morte. La coorte romana però non arrestò anche
quella “dozzina” che lo seguiva, nonostante avesse tentato di reagire mettendo
mano alle spade, tanto che uno di loro (Pietro, secondo l’evangelista
Giovanni), sguainata la sua spada, colpì il servo del sommo sacerdote, staccandogli
l’orecchio destro. Pare plausibile che Gesù, essendosi consegnato
spontaneamente, ottenne in cambio la liberazione dei suoi discepoli. Terminato
il tafferuglio, tutti gli apostoli abbandonarono il loro Maestro, dileguandosi
nella notte. Le guardie condussero il reo dinanzi ad Anna (secondo la versione
dell’evangelista Giovanni; cfr. 18,12seg), un ex sommo sacerdote, suocero di
Caifa, capo del Sinedrio, che procedette a un accertamento informale. Lo
interrogò riguardo ai suoi seguaci e alla sua dottrina settaria. Gesù rispose
che non aveva nulla da aggiungere a quello che già era noto, atteso che il suo
ministero lo compiva “coram populo”, nelle sinagoghe e nel Tempio, e non
tramando di nascosto. Si buscò un ceffone da una guardia per la risposta
impertinente (non sempre, infatti, conviene parlare con franchezza). Lo
schiaffo non sortì l’effetto di abbonire la sua apparente protervia. Anna si
spazientì, quando Gesù lo sfidò a dimostrare la fondatezza delle accuse a suo
carico. Tagliò corto, ordinando alle guardie di condurlo dal genero, il sommo
sacerdote Caifa, che convocò il Sinedrio in seduta plenaria notturna (Mc
14,53seg, Mt 26,57seg, Lc 22,54seg). Del tutto inattendibile appare questo
procedimento processuale straordinario. Forse il Sinedrio aveva preferito
procedere in maniera subdola all’arresto preventivo di un sobillatore, al fine
di evitare non solo una sommossa popolare ma anche che lo stesso potesse
sfuggire all’accertamento formale dei reati di cui era accusato. Era inoltre
necessario affrettarsi per la prossimità della Pasqua (sembra però che il
Sinedrio non si potesse riunire in tale periodo, salvo supporre che non fosse
prossima la Pasqua ma un’altra festività). Furono perciò compiuti atti
preparatori durante la notte per procedere al giudizio il mattino seguente.
Furono chiamati e ascoltati vari testimoni, che si contraddissero tra loro
fornendo testimonianze discordanti sul Galileo. Due di loro testimoniarono di
averlo udito che avrebbe potuto distruggere il Tempio e ricostruirlo in solo
tre giorni. I due testimoni, che sembrano concordare nell’accusa, forse non
erano sufficienti per far emettere al Sinedrio una sentenza
capitale. L’evangelista Giovanni cerca di giustificare l’infelice e
boriosa esagerazione, proferita da Gesù, sostenendo che intendeva riferirsi al
santuario del suo corpo, che avrebbe fatto risorgere dalla morte dopo tre
giorni (Gv 2,18-22). Questo pietoso escamotage non giustifica le tante
millanterie proferite da Gesù e descritte nei vangeli. Caifa, dopo aver
ascoltato le testimonianze contro di lui, gli consentì di difendersi (del tutto
inattendibile è la mancanza di assistenza legale dell’imputato). Di fronte al
silenzio dell’altro, insistette, ma invano. Non ottenendo da lui nessuna
risposta, si spazientì. Gli intimò, per il Dio vivente, di confessare se era
vero che dichiarava di essere il re-messia, il Figlio del Benedetto, inviato
dall’Onnipotente. Gesù testimoniò a suo sfavore, dichiarando che proprio lui
era il Messia atteso da Israele, l’unto di Jahvè. Subito dopo, con apparente
atteggiamento da megalomane, soggiunse che stava ormai per terminare
l’umiliazione che subiva, poiché si sarebbe rivelato a tutti come il Figlio
dell’uomo, il Re messianico di cui aveva a suo tempo profetato Daniele (Dn
7,13-14). Sarebbe comparso, quanto prima, sospeso sulle nubi del cielo, seduto
alla destra della Divina Potenza (la "destra" pare che sia il luogo
destinato da Dio ai suoi eletti fiduciari). L’atteggiamento di Gesù esasperò il
sommo sacerdote Caifa, indisponendolo. Questi, essendo ormai fuori dei gangheri
per aver ascoltato gravi empietà, si stracciò le vesti in segno di orrore,
dando palese sfogo alla propria esasperazione. A ragione tacciò Gesù di
sacrilegio, imputandolo del reato di bestemmia, sanzionabile con la morte per
lapidazione. Servi e soldati fecero di lui il loro zimbello, beffeggiandolo e
percotendolo (ciò appare del tutto inattendibile, essendo tale condotta non
conforme alle norme talmudiche di tutela dell’imputato durante il processo).
L’anti-eroe Gesù non si conquistò l’imperitura gloria e l’immortalità in virtù
del suo valore, al pari di Ercole e Achille o di altri fieri e bellicosi eroi
pagani. Egli, invece, accettò il suo ineludibile destino, subendo l’umiliazione
di essere appeso sulla croce come un malfattore. Questo era ciò che Dio-Padre
aveva a lui riservato (cioè a se stesso, nella persona del Figlio-uomo) per
riscattare le colpe degli umani (sublime creazione divina!).
Giuda,
l’apostolo infedele, preso da rimorso per la sorte del suo Maestro, andò a
restituire i denari ottenuti come pagamento per il suo tradimento (Mt 27,3-10).
Poi si diede (o ebbe) una morte ignominiosa (il suicidio nella concezione
cristiana rappresenta un grave peccato). Il racconto matteano sulla fine di
Giuda (manco a dirlo!) non concorda con il resoconto di Pietro, riportato nel
libro degli Atti (cfr. At 1,18seg). Giuda fu rappresentato in molte leggende.
Pare possibile che sia stato giustiziato come traditore dalla vendetta messa in
atto da alcuni seguaci del Nazareno, che lo trafissero al ventre con la spada e
ne sparsero le viscere nel campo da lui comprato con i denari della delazione.
Del tutto pretestuoso è voler ricercare, mediante un’interpretazione
tipologica, il riferimento del tradimento di Giuda nel libro del profeta
Zaccaria (Zc 11,12-13).
Pare, come
già detto, che il Sinedrio, sotto il dominio romano, sebbene avesse ancora la
competenza di supremo organo giudicante in materia di diritto religioso, non
avesse anche l’autorità di pronunciare giudizi di rilevanza giuridica, né tanto
meno di eseguire sentenze capitali. Fu necessario quindi spostare il
procedimento giudiziario dal tribunale ebraico a quello romano, presso il praetorium,
cui era riservata la cognitio extra ordinem (l’esame del
crimine) e la esecutio (l’esecuzione della sentenza). Gesù,
dunque, fu consegnato al prefetto Pilato, che in occasione della Pasqua si
trovava in Gerusalemme per controllare l’ordine pubblico (Mc 15,1seg, Mt
27,11seg, Lc 23,1seg, Gv 18,28seg). Riformulati i capi d’accusa, gli furono
addebitati non soltanto i reati religiosi ma anche politici (blasfemia,
sedizione, evasione di tributi, alto tradimento contro l’autorità imperiale
romana per essersi Gesù proclamato re dei giudei). Questi delitti erano
passibili tutti di condanna a morte. Gesù stesso davanti a Pilato (che Giuseppe
Flavio e Filone d’Alessandria, contemporanei scrittori ebrei, lo descrivono
come persona priva di pietà) si auto-accusò di essere il re dei giudei, il
Messia atteso dagli Ebrei. Il governatore romano (che nei vangeli appare
inverosimilmente indulgente verso Gesù) comprese che il suo proclamarsi re si
riferiva a un regno fuori del mondo. Dedusse, perciò, che era andato fuori di
testa. Non trovando motivate le accuse a suo carico per “lesa maestà” e avendo
appurato che Gesù era galileo, decise di trasferire il processo (secondo la
versione di Luca) alla competenza giurisdizionale di Erode Antipa,
amministratore della Galilea, che in quei giorni si trovava in Gerusalemme (è
presumibile che l’evangelista abbia voluto discolpare in toto le autorità
romane per addossare ai giudei la responsabilità della condanna a morte di
Gesù). Giunto al suo cospetto, Erode Antipa se ne rallegrò. Aveva sentito
parlare di lui (fama volat), perciò sperava di vederlo compiere qualche
miracolo. Lo interrogò a lungo. Gesù però tacque di fronte a colui che tempo
addietro aveva definito una volpe (Lc 13,31-33). Perché tacere? Non era in suo
potere ribattere le tendenziose domande dell’altro con l’eloquenza dello
Spirito Santo? Mistero fitto! Intanto, i sommi sacerdoti e i dottori della
legge mosaica lo accusavano con veemenza, rafforzando il convincimento d’Erode,
che già da qualche tempo voleva farlo uccidere. Non trovando però prove sufficienti
per esprimere un giudizio di condanna (non pare credibile, stante le accuse
infamanti addebitategli), dopo averlo insultato e fatto beffeggiare dai suoi
soldati, lo rimandò alla competenza del tribunale romano. Il silenzio di Gesù
al cospetto dei giudici potrebbe spiegarsi, dal punto di vista del revisionismo
cristiano, come supina accettazione del suo amaro destino. Egli avrebbe potuto
difendersi con sublime eloquio e dare un saggio di elevata sapienza. Avrebbe
potuto invocare il soccorso di angeli e arcangeli, armati di tutto punto, e
compiere prodigi. Tutte queste soprannaturali possibilità, però, il Padre non
scrisse nel libro del fato riguardante il Figlio.
Pilato,
anziché liberarlo, deliberando il non luogo a procedere, in base al giudizio di
non colpevolezza espresso da Erode Antipa, concretizzò le accuse del Sinedrio,
riassumendo il processo a carico di Gesù. Questo governatore romano, secondo
gli evangelisti e secondo l’autore dell’apocrifo “Atti di Pilato”, appare
inverosimilmente sottomesso alla volontà dei capi ebrei (anche l’autore
dell’apocrifo “Vangelo di Pietro” attribuisce ai notabili ebrei la
responsabilità per la morte di Gesù). Pilato cercò invano d’indurre il reo a
discolparsi dalle accuse a suo carico. Infine, non ebbe altra possibilità che
procedere verso la conclusione del giudizio. Accusato di fomentare torbidi
politici contro l’autorità romana, Gesù fu condannato a morte. La leggenda,
concernente le pressioni rivolte a Pilato da sua moglie, Claudia Procula, in
favore dell’innocenza del Nazareno, è frutto dell’immaginazione
dell’evangelista Matteo. La figura della moglie di Pilato fu circonfusa, come
quella del marito, di fantastiche leggende che, fra l’altro, la vollero mezza
cristiana (una “proselita della porta”, che, sia pure in parte, accettava il
messaggio cristiano). Inattendibile è anche l’episodio che descrive l’usanza
dei romani (non storicamente documentata) di liberare un prigioniero, reo di
gravi crimini, in occasione delle festività dei popoli non latini
(inattendibile è anche l’ipotesi che fosse una consuetudine particolare di
Pilato, un uomo giudicato privo di scrupoli). Dovendo scegliere tra Gesù,
accusato di essersi proclamato “Figlio di Dio”, e un tale chiamato Barabba (Mc
15,7), arrestato in concomitanza di una sommossa (era un sedizioso e omicida
nella versione di Marco e di Lucca; un bandito in quella di Giovanni; una
persona distinta in quella di Matteo), il popolo giudaico si pronunciò a favore
di Barabba (Vox populi, vox Dei). Bar-Abba in aramaico può significare
“Figlio del Padre” (padre in senso metaforico per riferirsi a Dio). Barabba
potrebbe anche essere un patronimico (Abba = nome proprio di persona). Antichi
manoscritti del Vangelo secondo Matteo documentano che il prigioniero Barabba
si chiamava Gesù. Queste strane omonimie sono sospette e fanno dubitare che si
tratti di due distinti personaggi: il bandito Gesù, detto Barabba e il Cristo
Gesù, definito Bar-Abba, cioè Figlio di Dio. Si potrebbe ipotizzare che il
ribelle messianico, soprannominato Barabba, condannato a morte per blasfemia,
sia stato trasfigurato per motivi ideologici e dottrinari nel salvatore
cristiano, in attuazione del revisionismo religioso operato dall’incipiente
Chiesa paolina e dall’istituente cattedra pontificale dogmatica sul colle Vaticano.
Dal punto di vista del revisionismo cristiano, si giustificherebbe la
preferenza accordata dal popolo alla liberazione del patriota Barabba, giacché
Gesù andava predicando di pagare l’odioso tributo a Cesare, offendendo in tal
modo la sensibilità patriottica dei giudei. Leggendario è pure il racconto (Gv
19,1seg) relativo all’estremo tentativo di Pilato di far liberare il Cristo per
acclamazione popolare, dopo averlo fatto flagellare, essendo del tutto
improbabile che un giudice romano si affidi al giudizio della folla. Condotto
Gesù davanti ad un’esagitata moltitudine di giudei e capi popolo, rivestito con
un manto di porpora, con i segni della flagellazione (secondo mistero
doloroso), incoronato di spine (terzo mistero doloroso), fu mostrato alla pietà
della piazza (ecce homo!), capro espiatorio alla mercé del risentimento
popolare. La messa in scena non sortì l’effetto di commuovere i duri del popolo
giudaico. Questi, in preda ad una frenesia collettiva, urlando a squarciagola,
chiesero la sua crocifissione (anziché la morte per lapidazione, come
prescriveva la Legge). I giudei, maledicendosi, si assunsero la piena
responsabilità per la condanna a morte del reo (Mt 27,24-25). Ancora più
incredibile è che Pilato, non trovando capi d’accusa a carico di Gesù, lo
consegni alla volontà dei giudei, decretando che fosse eseguita la loro
richiesta (Lc 23,23-25), anziché pronunciare la sentenza di condanna alla
crocifissione (come risulta dalle parallele pericopi degli altri evangelisti).
Pare evidente che si è voluto addebitare ai Giudei la morte di Gesù,
alleggerendo la responsabilità dei Romani, considerati meri esecutori di una
sentenza già pronunciata. A essere messa in cattiva luce è soprattutto la setta
dei Farisei, condannata severamente da Gesù per il loro formalismo religioso.
In realtà, i membri di questa setta si consideravano sacerdoti e si
comportavano scrupolosamente nell’espletamento delle cerimonie rituali,
osservando con zelo le prescrizioni della Legge. Nazionalisti intransigenti e
tradizionalisti, i Farisei non tolleravano chi come Gesù profanava il giorno
sacro. Del resto, il formalismo rituale è insito nel concetto etimologico di
“religione” (re-ligere, cioè ripetere il rito non svolto in modo
scrupoloso). Peraltro, occorre tener conto che i vangeli sono stati redatti in
un periodo in cui i cristiani, se per un verso temevano la persecuzione da
parte delle autorità romane, per un altro verso stavano espandendo la loro
influenza tra le comunità pagane, dominate dai Romani, perciò non volevano
mettersi in cattiva luce, accusandoli della morte di Gesù. Ancora oggi, nella
professione di fede cristiana (Credo) si attesta che Gesù fu crocefisso sotto
(non condannato da) Ponzio Pilato (sub Pontio Pilato passus et sepultus est).
Pura invenzione è altresì l’episodio del colloquio tra Gesù e Pilato, svoltosi
all’interno del pretorio. Pilato cercava d’intimorirlo, ostentando che era in
suo potere lasciarlo in vita o farlo morire. Gesù gli rispose che non poteva
vantare alcun potere, che non gli fosse concesso dall’alto (omnis potestas a
Deo). Ammetteva tuttavia che la maggior responsabilità per la sua triste
sorte fosse da attribuire agli accusatori giudei. Appare del tutto inverosimile
il timore manifestato da Pilato di fronte alle tesi accusatorie dei giudei.
Quanto al popolo, che chiedeva a gran voce la condanna di Gesù, aizzato da
capipopolo e facinorosi prezzolati al servizio delle autorità religiose, appare
inattendibile il suo repentino cambiamento d’umore nel giro di pochi giorni (se
tempo prima aveva osannato il Messia, ora ne chiedeva a gran voce il “crucifige!”).
Gesù, infatti, aveva ricevuto (forse soltanto da parte di esseni e zeloti, non
anche dai seguaci del partito farisaico) un’entusiastica e trionfale
accoglienza presso la popolazione, quando era entrato in Gerusalemme a
cavalcioni di un’asina, guidando (novello Dioniso) il tiaso mistico dei
discepoli e facendosi acclamare come Messia, poiché in lui si compivano le
antiche profezie. Quel giorno fu osannato, fino all’ingresso nel Tempio, da
numerosissima gente, che stendeva i mantelli lungo la strada al suo passaggio,
mentre il codazzo dei seguaci, esultando, lodava Dio per tutti i miracoli che
avevano visto. Alcuni farisei, presenti al “trionfo” del prode nazareno,
s’indignarono non poco. Invano cercarono di far tacere chi pronunciava lodi
esaltatorie al Cristo. A questi guastafeste Gesù proclamò che, in quel giorno
di giubilo e di gloria, qualora i suoi seguaci tacessero, al loro posto
avrebbero gridato le pietre (c’è ancora chi non crede che esse abbiano
un’anima?). Nel tripudio generale della festa, non mancò di farsi sentire la
solita voce tonante del Padre per glorificare il diletto Figlio. L’evangelista
Giovanni (Gv 12,28-30) garantisce (ma non convince chi non crede alla sua
parola) che la voce udita in quella tripudiante baraonda fosse (manco a dirlo!)
un segno di Dio alla folla gaudiosa che seguiva il Cristo. Quanto alla
cavalcatura utilizzata da Gesù per tuffarsi nel bagno di folla plaudente,
sembra che sia stata prelevata abusivamente dai suoi discepoli (Mc 11,1-10; Lc
19,29-40; Gv 12,12-16). Questi, infatti, dovettero faticare non poco per
soddisfare la pretesa del Maestro, che volle “gratis et amore Dei”, per il suo
glorioso tripudio in Gerusalemme, un’asina non ancora “montata”. Nel caso in
cui i “suoi” fossero stati sorpresi nell’atto furtivo, avrebbero dovuto
giustificarsi, affermando che si trattava di un prestito d’uso, a titolo
gratuito, per urgente bisogno del loro Signore (e padrone). Secondo
l’evangelista Matteo (Mt 20,21seg), non bastò l’asino ma pretese anche il
puledro, sui quali montò in groppa (Dio sa come!) per l’osanna dei
gerosolimitani.
PARTE TERZA
Pilato, dopo
l’improbabile tira e molla tra lui e la piazza per salvare o condannare Gesù
(verosimilmente, cercava il consenso del popolo, che tempo prima lo aveva
osannato), lavatesi le mani in segno di scongiuro (è incredibile che un uomo
come Pilato voglia scaricare ai giudei la responsabilità morale della
condanna), lo dichiarò colpevole di ribellione e consegnò lo iettato profeta
alle guardie, che umiliando e percuotendo il reo procedettero all’esecuzione
della condanna ignominiosa della crocifissione (riservata dai romani agli
schiavi e ai ribelli). Chi subiva tale condanna era considerato maledetto dalla
legge ebraica (Dt 21,23).
I giudizi
dei posteri su Pilato sono contrastanti. Nei vangeli, Pilato è trattato con
indulgenza, senza recriminazioni. Tertulliano, nell’Apologetico (21,24), dice
che Pilato dentro di sé era cristiano e annunziò al Cesare Tiberio gli
avvenimenti riguardanti il Cristo. Tiberio, addirittura, parola di Tertulliano
(Ap 5,2), chiese al Senato di accettare Gesù tra le divinità dell’impero. Il
Senato, invece, rifiutò di divinizzare Gesù e dichiarò il cristianesimo
superstizione illecita. Quanto ai sommi sacerdoti Anna e Caifa, Dante li
ritenne degni di castigo (Inferno, canto XXIII), ma non anche Pilato, pur
menzionandolo nel canto XX del Purgatorio (dove lo paragona, quanto a crudeltà,
al re francese Filippo il Bello: l’uno per aver esercitato la sua cupidigia
contro l’ordine monastico dei Templari, l’altro per aver saccheggiato il Tempio
giudaico, profanandolo). Altre tradizioni e leggende condannano Pilato e lo
vogliono suicida: o perché vinto dal rimorso o per sfuggire alle gravi pene a
suo carico. L’apocrifo “Paradosi di Pilato” lo considera come martire,
decapitato per ordine di Cesare dopo la sua conversione a Cristo. L’apocrifo
“Vangelo di Gamaliele” specifica che la conversione di Pilato avvenne in
coincidenza della resurrezione di Cristo. La chiesa copta (Alessandria
d’Egitto) e quella etiopica considerano e venerano come santi Pilato e sua
moglie Procula.
La scena
tragica della “via crucis” si apre con la contemplazione del mistero
dell’uomo-dio Gesù, che cammina inceppando sotto il pesante fardello del legno
(patibulum) verso il luogo del supplizio per essere crocefisso (quarto
mistero doloroso). Una scorta militare lo accompagna verso il Golgota, una
collinetta presso Gerusalemme. In quel triste luogo (detto anche Calvario, che
significa “luogo del cranio”) i romani eseguivano le condanne capitali. Questo
luogo è rappresentato nelle chiese con il simbolo dell’altare, dove il
sacerdote celebra la commemorazione del sacrificio di Cristo, simboleggiato
nell’ostia, vittima immolata a Dio. Il legno della croce, “colonna infame” non
più del reo ma dei persecutori, divenne nel medioevo simbolo della sofferenza e
del riscatto dalla colpa originale. In quei secoli tristi, croci, rosari,
reliquie e altri accessori cultuali assunsero poteri magici. I gerosolimitani,
intanto, assistevano al penoso cammino del Cristo lungo la “via crucis”
(drammatizzata dalla Chiesa in esercizio di pietà, da compiere presso
quattordici “stazioni”, rappresentanti le scene della passione). Le guardie di
scorta al condannato costrinsero un passante, Simone di Cirene, mentre tornava
dal lavoro nei campi (dunque era un giorno lavorativo, non un sabato), ad
aiutare Gesù a portare sul dorso il peso del patibulum (palo
trasversale della croce), alleviandogli la fatica (episodio narrato solamente
dai vangeli sinottici). Secondo una leggenda (tratta dagli apocrifi “Atti di
Pilato”), una donna di nome Veronica (traslitterazione latina di Berenice),
assunta dalla Chiesa agli onori dell’altare, asciugò con un velo il volto sudante
di Gesù. L’immagine che s’impresse miracolosamente sul velo della Veronica
(“Vera Icona” è l’etimologia popolare medievale di Veronica) si venera come
reliquia del volto di Cristo a Manoppello, presso Chieti. Un’altra presunta
raffigurazione del volto santo era quella impressa sul Mandylion, o Immagine di
Edessa, scomparsa durante il saccheggio nel 1204 di Costantinopoli, dove era
stata trasportata. Due presunti Mandylion si trovano tuttora l’uno a Genova
(nella chiesa di San Bartolomeo degli Armeni), l’altro a Roma (in Vaticano).
Queste sacre immagini sono dette acheropite, cioè non fatte dalla mano
dell’uomo. Sulla via dolorosa verso il Golgota, una moltitudine di curiosi
assisteva al dramma, piangendo la disgrazia del Nazareno e percotendosi il petto
in segno di contrizione. Gesù, anziché mostrarsi riconoscente, esortò la gente
a non piangere le sue disgrazie, riservando i funesti pianti per i giorni
infelici, che stavano in procinto di arrivare e che avrebbero apportato
disgrazie a chi non si fosse nel frattempo pentito dei peccati e abbracciato la
buona novella giudaico-cristiana. La dolente processione del condannato terminò
con il supplizio della crocifissione (quinto mistero doloroso). Secondo il
Corano (sura 4,157), Gesù non fu crocefisso, bensì fu solo mostrato in effige
sulla croce. Non è credibile che Gesù, come si riscontra in certe
rappresentazioni iconografiche (non però nella Sacra Sindone di Torino), fosse
appeso sulla croce mediante chiodi infissi nel palmo delle mani (e nei piedi),
che non reggerebbero a lungo il peso del corpo. Verosimilmente, o i chiodi
furono infissi nei polsi (non anche nei piedi, perché sarebbe morto dissanguato
in breve tempo) o fu legato alla croce con la fune intorno ai polsi. In tal
caso, le presunte stimmate sul palmo delle mani di taluni santi cristiani (san
Francesco, san Pio, ecc.) e di altri mistici personaggi (come la calabrese
Natuzza Evolo) sarebbero da ritenere, se non prodotte artificiosamente, indotte
da forte emotività. Ne consegue che le testimonianze riportate sia dal Vangelo
secondo Giovanni (Gv 20,24-29), in cui l’incredulo Tommaso volle vedere le mani
piegate di Gesù risorto, sia dall’apocrifo “Vangelo di Pietro”, che attesta che
a Gesù furono estratti i chiodi dalle mani, non appaiono attendibili. Del tutto
pretestuoso è il riferimento dell’evangelista Giovanni (Gv 19,28-29), che
giustifica la morte di Gesù in adempimento della Scrittura, senza citarne la
fonte (che si vuole trovare nella preghiera del giusto morente del Salmo 22 o
nelle parole del Salmo 69,21-22). Accanto a Gesù furono messi in croce anche
due criminali (verosimilmente due patrioti zeloti, fomentatori della lotta
armata contro gli oppressori romani, e da questi vituperati come “latrones”).
L’uno scherniva il Nazareno, non credendo che fosse il Messia. Sosteneva,
infatti, che qualora veramente lo fosse, avrebbe salvato se stesso e anche loro
due. L’altro, invece, rimproverava il compare per le parole insensate e
beffarde che proferiva. Poi, rivoltosi verso Gesù, lo pregò di rammentarsi di
lui, quando avrebbe raggiunto il suo celeste Regno. Gesù promise che in quel
medesimo giorno sarebbe giunto con lui in Paradiso. Dal Vangelo secondo Luca,
dunque (cfr. 23,39-43), sembra che Gesù sia risorto il giorno stesso della
morte per involarsi verso il Paradiso. In verità, il Vangelo secondo Giovanni
(Gv 20,17), ritarda la salita al Padre di Gesù. Egli, infatti, come nelle
leggende pagane relative alla catabasi, doveva ancora discendere agli Inferi
(cfr 1Pt 3,19seg) a portare l’annuncio di salvezza ai “giusti”, vissuti sulla
terra prima di Lui, portatore della redenzione. Si credeva che i “giusti”
dimorassero nel limbo, luogo di riposo esente da pene (in seguito, si suppose
che nel limbo dimorassero anche i bimbi morti senza battesimo). Il limbo è
stato finalmente soppresso per decisione del Papa. I particolari leggendari
abbondano nella martirizzata vicenda del Cristo sulla croce. Sopra la testa del
suppliziato, i carnefici apposero le sue generalità (c.d. “titulum”,
scritto in tre lingue: l’ebraica, la romana e la greca), aggiungendo per
scherno “re dei giudei”. Ciò indispose i capi dei sacerdoti ebrei, che invano
protestarono presso Pilato per far cancellare dall’iscrizione il titolo
dissacratorio. Pilato rispose che ciò che aveva ordinato di scrivere era
irrevocabile (quod scripsi scripsi). La motivazione formale della
condanna capitale di Gesù (secondo gli evangelisti, Pilato cedette alle
pressioni della piazza), aveva carattere politico (crimen maiestatis):
era accusato di essere il re-messia rivoluzionario, che voleva liberare la
Palestina dal dominio romano, passibile di pena di morte per tradimento e
ribellione contro Roma. Durante l’immolazione dell’agnello di Dio, inchiodato
(o legato) sulla trave, i militi vollero fargli bere una disgustosa mistura
narcotizzante, per alleviare le sofferenze del supplizio, ma il condannato
rifiutò, appena l’ebbe gustata (l’episodio sembrerebbe costruito sul già citato
verso 69,22 dei Salmi). Gesù, vittima sacrificale (hostia), issato sulla
croce come malfattore, pregava il Padre celeste affinché perdonasse l’ardire
dei suoi aguzzini, che ignoravano con chi avevano a che fare. La soldataglia,
infatti, lo scherniva, mentre si spartivano le vesti, giocandosi la tunica con
i dadi. La croce rappresenta l’immagine della suprema “kènosis”, cioè
della spogliazione di cristo non solo riguardo alle vesti, ma anche ai segni
della divinità. Tutta la vicenda del Cristo Gesù doveva tragicamente accadere.
Si cercarono conferme nelle Sacre Scritture. Il fatale destino del Figlio di
Dio si era adempiuto per volere dell’inflessibile Padre. Durante la sacra
rappresentazione del dramma cristiano sul Calvario, ai piedi della croce, dove
si consumava l’agonia dolorosa del Cristo, stavano alcune pie donne gemendo.
Erano, secondo l’evangelista Giovanni (Gv 19,25), la madre, la sorella della
madre, Maria di Cleofa e l’immancabile Maria Maddalena. Le accompagnava il
discepolo che Gesù amava. Secondo i vangeli sinottici, invece, le pie donne che
stavano al suo seguito (della cui identificazione si discute, stante la
confusione dei nomi nei testi evangelici) osservavano l’esecuzione della pena
in lontananza. Altri spettatori, nelle vicinanze, si facevano beffe del Cristo,
sfidandolo a dimostrare la sua potenza, che tante volte aveva conclamato
durante le prediche. Si domandavano perché il Figlio di Dio non si schiodava
dalla croce, vendicandosi dei suoi nemici. Un prodigio, compiuto in quel
frangente, avrebbe certamente scosso l’incredulità dei religiosi giudei.
Tanto tuonò,
che piovve! Infatti, allo scoccare dell’ora sesta, in un chiaro mezzogiorno,
improvvisamente il cielo si rabbuiò e l’oscurità si estese su tutta la terra.
Era, forse, un’eclissi di sole? No, perdio! Durante la Pasqua (periodo di luna
piena) non poteva verificarsi. L’inspiegabile (e improbabile) fenomeno,
comparso improvvisamente a mezzogiorno di una giornata assolata, lasciò tutti
gli astanti attoniti. Gli autori dei vangeli sinottici, colmi di fervida
inventiva, lo propagandarono come un prodigio (chissà, forse il padreterno era
rabbuiato per la morte del Figlio). Un non ben identificato storico di nome
Tallo, vissuto dopo qualche decennio dalla morte di Cristo (citato nella
“cronografia” di Sesto Giulio Africano, a sua volta citato da uno storico
bizantino), informa sulla terribile oscurità che si abbatté durante la
crocifissione di Gesù (la notizia sarebbe stata raccolta da fonti scritte o
testimonianze circolanti nell’ambiente in cui viveva). Ad ogni modo, circa
l’autenticità degli episodi e degli eventi soprannaturali narrati nei vangeli,
che non sono documenti storici, bensì resoconti di fede, non essendo essi
suscettibili d’indagine fondata sull’obiettività e la dimostrabilità, ognuno è
libero di pensarla come crede. Verso l’ora nona (tre pomeridiane), ormai
esausto per le sofferenze, Gesù si disperava (a differenza di Socrate, che
serenamente bevve la cicuta, disprezzando la morte, conservando intatta la
serenità del suo spirito). Rimproverò persino il Padre (secondo Marco 15,34 e
Matteo 27,46) per averlo abbandonato (cfr. Sl 22,2), anziché salvargli la
pelle. Non più rammentava la profezia annunciata ai discepoli sulla necessità
del suo salvifico sacrificio, né che aveva loro insegnato a non aver timore per
quelli che possono uccidere il corpo, ma non l’anima (Mt 10, 28). Ebbe ancora
un attimo di lucidità per affidare alla madre, lacrimante ai piedi della croce,
il discepolo che lui amava. Poi, adempimento alla predizione della Scrittura,
ebbe sete. Non sarebbe stato degno del Figlio di Dio sopportare divinamente la
sete, come virilmente l’avrebbe sopportata un eroico figlio dell’uomo? Un
soldato di guardia gli inumidì le labbra con una spugna imbevuta d’aceto.
Finalmente, venute meno le forze del corpo, spirò l’anima, raccomandandola a
Dio (Lc 23,46). A che pro, se egli stesso era Dio? Mah! Si compì così la trista
vicenda del Figlio di Dio e il suo sacrificio espiatorio (sic transit gloria
mundi). Ora il Padre, finalmente propiziato (cfr. Gv 19,30), poteva essere
fiero del Figlio, che aveva umilmente portato a termine la sua missione
terrena, bevendo il calice amaro del calvario e rimettendoci la pelle (consummatum
est). Morì il 15 del mese di Nisan (primo mese di primavera),
corrispondente alle idi di marzo del calendario romano, giorno coincidente con
quello della morte del Divo Giulio, il Cesare eletto salvatore e benefattore
del genere umano, dio visibile in terra, conclamato figlio di Marte e di
Venere. Tra la vita del divo epifanico Cesare e quella del divo messianico Gesù
alcuni studiosi hanno individuato molte coincidenze, da cui hanno desunto
l’ipotesi di un debito del cristianesimo verso il culto di Cesare, anch’egli
considerato Chrestos (= Buono), e taumaturgo, segnato da
prodigi, clemente verso i nemici. Appena Gesù esalò lo spirito, emanando un
urlo sovrumano, successe un finimondo (ossia, l’incontenibile esplosione di
un’altra boriosa esagerazione narrata dagli evangelisti). In un’oscurità da
tregenda, si spaccarono le rocce sulla terra terremotante. Il velo del tempio
di Gerusalemme, che divideva il luogo santo dal Santissimo (accessibile ai
sacerdoti solo una volta l’anno), si squarciò (per simboleggiare, secondo
l’interpretazione cristiana, il libero accesso degli uomini a Dio in ogni
luogo). Persino le tombe si scoperchiarono e i santi corpi ivi giacenti
resuscitarono. Gli zombi redivivi uscirono dai loro sepolcri (Matteo, in
27,50-53, sostiene che ciò avvenne dopo la risurrezione di Cristo), avviandosi
verso la città santa, dove apparvero a molti. Figuriamoci lo spavento che colse
gli spettatori della sacra, movimentata rappresentazione per l’improvvisa
apparizione delle salme, esumate dalle tombe! Ognuno, intimorito, si batteva il
petto, bisbigliando il “miserere” e riconoscendo in Gesù il Cristo atteso.
Persino i rudi militi pagani, che l’avevano giustiziato, s’intimorirono. Il
centurione che li comandava si persuase della figliolanza divina del
condannato. Gli apostoli, secondo quanto riportano gli evangelisti, non erano
presenti sul luogo del Calvario (infatti, dopo l’arresto del Maestro, erano
fuggiti; cfr. Mc 14,50 e Mt 26,56). Soltanto il discepolo prediletto stava nei
pressi, assieme alle pie donne e alla madre di Gesù (stabat mater dolorosa
iuxta crucem lacrimosa). Più modesti furono i prodigi che accaddero alla
morte di Cesare, attestate da Virgilio nelle Georgiche (I, 463seg).
L’evangelista
Giovanni (19,25), come già detto, afferma che nei pressi della croce c’erano i
parenti stretti di Gesù, cioè la Mater Dolorosa, la sorella, Maria di Cleofa e
l’immancabile Maria Maddalena, oltre il discepolo che Gesù amava (forse
Giovanni apostolo o l’amico Lazzaro). Taluni studiosi ipotizzano che la
Maddalena possa essere Maria di Betania, sorella di Lazzaro e sposa del rabbi
Gesù (cfr. i libri apocrifi “Vangelo di Filippo” e “Vangelo di Maria”), e che
Lazzaro sia il discepolo amato, giustificando così la loro presenza presso la
croce. In onore di Maria Addolorata, madre di Gesù, i cristiani recitano il
rosario dei sette dolori (assieme al rosario delle sette virtù e delle sette
gioie). Mah!
Per affrettare
la morte dei tre rei, fu ordinato alle guardie di rompere loro le gambe. A
Gesù, che appariva morto, non gli furono spezzate. Un milite (il legionario
Longino, secondo l’apocrifo “Atti di Pilato”) volle accertarne la morte,
trafiggendo il costato di Gesù con un colpo di lancia (c.d. “lancia del
destino”). Dalla ferita sgorgò sangue e acqua (che, secondo le leggende del
Santo Graal, fu raccolto da Giuseppe d’Arimatea nella coppa utilizzata da Gesù
nell’Ultima Cena). Tutto ciò doveva accadere, secondo l’evangelista Giovanni
(19,24), affinché si adempisse la Scrittura. Del tutto pretestuoso è il
riferimento al Salmo 22,19, “le mie vesti si dividono fra loro, sui miei abiti
gettano la sorte”. Né appare congrua l’interpretazione tipologica della figura
del “Servo”, descritto nel libro di Isaia (52,13 e 53,1-12), che rappresenta il
popolo d’Israele in esilio. Lo stesso evangelista indica altresì un anonimo
testimone oculare per attestare la veridicità del racconto sulla morte di Gesù.
Non potendo costui essere identificato, essendo sconosciuto, ne consegue che la
sua testimonianza è inattendibile e il racconto dell'evangelista ancora meno
credibile. Qualora costui fosse identificabile, la sua testimonianza, in
assenza di validi riscontri, si dovrebbe accettare col beneficio del dubbio. La
tradizione ha voluto identificare nell’apostolo Giovanni il testimone oculare.
L’incertezza dei fatti, concernenti la vita e il ministero di Gesù, rende
verosimile l’ipotesi di manomissioni dei testi traditi, che non rispecchiano
più la forma originaria della testimonianza (quantunque di parte) e che perciò
possono essere ritenuti non degni di fede. Peraltro, nulla riguardo alla
vicenda e alla dottrina del Nazareno è stato riportato dagli storici
contemporanei, sia ebrei sia pagani. Eppure, all’epoca, l’evento della venuta
al mondo de Figlio di Dio, che si prodiga in mirabilia, deve aver fatto
chiasso, a prestar fede ai resoconti redatti dagli evangelisti!
La morte di
Gesù avvenne prima del tramonto, nel giorno di venerdì, vigilia della festa di
Pasqua (secondo l’usanza ebraica, il giorno iniziava dopo il tramonto). La
sepoltura della salma doveva essere portata a termine, prima che con il
tramonto sopraggiungesse il sabato di Pasqua. Secondo l’uso ebraico, un uomo
condannato alla maledizione della crocifissione doveva essere seppellito nel
medesimo giorno, prima del tramonto (Dt 21,22-23). Giuseppe d’Arimatea (Gv
19,38), uomo ricco, membro autorevole del Sinedrio, convertitosi in segreto
alla “buona novella” per timore dei giudei (il coraggio, se uno non lo ha, non
se lo può dare), chiese a Pilato il permesso di seppellire Gesù in una tomba di
sua proprietà (anziché, secondo l’usanza, in un campo comune, dove, però,
sarebbe stato difficoltoso sostenere la resurrezione). Giuseppe d’Arimatea,
secondo Luca (23,50), non si era associato alla deliberazione del Sinedrio
contro Gesù; invece, secondo Matteo (27,1) e Marco (14,64), partecipò al
consiglio e giudicò Gesù reo di morte. Pilato, informato della subitanea morte
di Gesù (Mc 15,44), si meravigliò (non risulta che fosse altrettanto stupito
dei presunti eventi soprannaturali occorsi). Dopo averne chiesta conferma al
centurione, accolse la richiesta di Giuseppe, che andò subito verso il Calvario
per deporre dalla croce il frale di Cristo, straziato e piagato. Lo
accompagnava Nicodemo (Gv 19,38seg), un fariseo membro del Sinedrio,
simpatizzante di Gesù, che frequentava in segreto, timoroso di esercitare
pubblica professione di fede nel Cristo. Poco si preoccupò, invece, della
reazione del Sinedrio per essersi preso cura della salma di un reo condannato
per il grave reato di blasfemia. Il movimento messianico capeggiato da Gesù
pare avesse simpatizzanti autorevoli tra i sacerdoti del Tempio, tra i membri
del Sinedrio e tra gli appartenenti alla famiglia degli erodiani. Nicodemo,
tempo avanti, di notte (cioè di nascosto, da nicodemita), aveva portato a
Giuseppe circa 35 kg di una mistura di mirra e aloe per imbalsamare il cadavere
di Cristo (evidentemente, i due non credevano alla sua resurrezione). Lo
avvolsero, secondo l’evangelista Giovanni, tra le bende assieme agli aromi (non
si accenna al lavaggio del cadavere, secondo l’usanza ebraica), e lo deposero
nel sepolcro di Giuseppe. Secondo gli evangelisti Marco, Matteo e Luca, invece,
il corpo esamine di Gesù fu avvolto subito in un panno di lino per essere
imbalsamato (secondo Marco e Luca) il giorno successivo dalle pie donne venute
con lui dalla Galilea. Se supponiamo che il cadavere fu prima cosparso di
aromi, poi bendato, poi avvolto in una sindone, è del tutto improbabile che
abbia marcato in essa l’immagine del corpo (come quella impressa sulla reliquia
venerata nel duomo di Torino, della cui autenticità si discute). Se invece
supponiamo credibile la versione esposta dagli altri tre evangelisti (che
attestano che il cadavere, prima di essere sepolto, fu avvolto in un lenzuolo o
panno di lino o sindone), perché i vangeli non fanno cenno dell’impronta
rimasta impressa sul lenzuolo? Perché le pie donne, recatesi al sepolcro per
imbalsamare la salma di Gesù (nelle versioni secondo Marco e Matteo) e lo
stesso Pietro, accorso per accertare la scomparsa della salma (nella versione
secondo Luca), non hanno notato il prodigio? Quanto all’immagine percepibile
nella reliquia conservata nel duomo di Torino, non è possibile accertare, per
mancanza di documentazione, che sia proprio quella di Cristo. Potrebbe invece
ritenersi che sia il prodotto di un’abile contraffazione, verosimilmente di
marca medievale (come l’analogo Sudario di Oviedo, in Spagna, presunto telo che
avvolgeva il capo di Cristo morto, o come la scomparsa Sindone di Besancon, in
Francia). Una copia della Sindone di Torino, identica all’originale
(misteriosamente ottenuta mediante un decalco effettuato nel 1655 con un
lenzuolo di lino di uguale misura), è custodita e venerata nella chiesa di san
Francesco ad Arquata del Tronto, in Provincia di Ascoli Piceno.
Il sepolcro
di Gesù, per richiesta dei sommi sacerdoti e dei farisei, dopo esser stato
sigillato con una pesante pietra tombale, fu vigilato da un corpo di guardia. I
capi giudei temevano che il corpo del seduttore fosse trafugato di notte dai
suoi seguaci, i quali avrebbero potuto così far credere al popolo che Gesù era
risorto dai morti dopo tre giorni di sepoltura (come l’araba fenice sorgeva
dalle proprie ceneri), avverandosi ciò che aveva predetto in vita (post fata
resurgam). In verità, a detta degli evangelisti, i discepoli non erano
persuasi della resurrezione di Cristo. Del resto, loro preferirono dileguarsi,
salvando la pelle, piuttosto che seguire il loro Maestro lungo la dolorosa “via
crucis”. E’ evidente che i racconti di risurrezione di Cristo, novello
Dioniso, e le apparizioni ai suoi intimi amici (e non anche ai nemici, che
avrebbero potuto, con testimonianza non di parte, attestarne la divinità)
appaiono delle grossolane imposture, imbastite con inverosimili episodi
(apparve a più di cinquecento fratelli in una volta, secondo Paolo; cfr. 1Co
15,6). La fede nella (presunta) resurrezione di Cristo Gesù è la pietra angolare
sulla quale si fonda il cristianesimo. Secondo la tradizione islamica, i Romani
crocifissero un simulacro, giacché Gesù fu assunto in cielo da Allah senza
morire. Secondo una tradizione gnostica, Gesù sarebbe fuggito verso l’India.
Tra le leggende medievali spicca quella del Santo Graal: il sangue reale di
Cristo, sedicente membro della dinastia dei figli di Davide, raccolto in una
coppa da Giuseppe d’Arimatea (cfr. il ciclo letterario del Graal e quello
arturiano, nonché la “Leggenda Aurea” di Jacopo da Varagine). Secondo il
revisionismo apportato dal recente catechismo della chiesa cattolica, la morte
di Gesù non deve più essere imputata agli ebrei (ancorché Paolo abbia
sentenziato che i Giudei non piacciono a Dio e sono nemici a tutti gli uomini
per aver ucciso il Signore Gesù; cfr. 1Ts 2,13-16), bensì al genere umano
peccatore.