mercoledì 20 aprile 2011

CRISTO RESUSCITATORE DI MORTI


CRISTO RISUSCITATORE DI CADAVERI



PRIMA PARTE


        Gesù, per sfuggire ai religiosi giudei, che volevano lapidarlo, perché ritenevano che fosse posseduto da un satanasso, si diresse oltre il fiume Giordano, verso il luogo dove il parente Giovanni aveva impartito il battesimo ai peccatori penitenti (Gv 10, 39 seg.).

        Vennero in molti a trovarlo per ascoltare la sua parola (solo le guardie giudaiche non lo trovavano). Queste persone sapevano che il profeta Giovanni non aveva realizzato alcun prodigio, però ritenevano che sul conto di Gesù avesse affermato il vero. Questi intanto bivaccava in quei paraggi in attesa degli eventi. Un giorno ricevette un’ambasciata per conto delle sorelle di Lazzaro, un caro amico di Betania, villaggio della Giudea (Gv 11, 1 seg.). Le due donne si chiamavano l'una Marta l'altra Maria, entrambe amate da Gesù (taluni studiosi ipotizzano che Gesù, essendo ebreo, fosse sposato con la Maria di Betania e che il cognato Lazzaro fosse quel discepolo che, secondo gli evangelisti, era amato da Gesù). I messaggeri riferirono che Lazzaro era gravemente ammalato. La dolorosa notizia non rattristò il Cristo più di tanto; anzi, pensando che non tutti i mali vengono per nuocere, commentò che la malattia del suo amico era capitata a proposito per la gloria di Dio e per la sua. Egli, portentoso Figlio d’onorato Padre, era deputato a dare un saggio della sua divina potenza. Non accorse subito a resuscitare l'amico, ma rimase a crogiolarsi nei dintorni per alcuni giorni; poi, finalmente, si risolse a partire per Betania, nonostante che i suoi discepoli cercassero di dissuaderlo. Essi temevano l’ira dei "sacerdoti" giudei, decisi a lapidare il Galileo, eretico impostore. Gesù, invece, non li temeva; anzi, impavido, li sfidava apertamente, predicando la "buona novella". La sua terrena missione doveva essere compiuta alla luce del sole. Così, in pieno giorno, s’incamminò verso Betania, seguito dal codazzo dei suoi discepoli, per andare a risvegliare l’amico Lazzaro, perché, a suo dire, s’era appisolato. La morte, secondo alcune correnti dell’ebraismo (cfr. Dn 12, 2; Is 26, 19; 2 Mc 7, 9. 14. 23. 29. 36), era considerata apparente, come un lungo sonno in attesa del ritorno alla vita (Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi - cfr. 15, 35-53 - spiega in che modo avverrà il "risveglio" dalla morte). I suoi discepoli, come sempre, fraintesero le sue parole (erano ancora nell'attesa di ricevere i lumi dello Spirito Santo). Intanto Gesù godeva per loro, perché la morte di Lazzaro era un’occasione buona per dimostrare di che calibro fossero le sue armi, vale a dire di quale potenza taumaturgica fosse egli capace nella scienza peonia. Novello Asclepio, Gesù ridonava la vita ai morti come il mitico medico greco, figlio di Apollo. I discepoli, che seguivano riluttanti Gesù, temevano che stessero andando a ficcarsi in guai seri, tanto che uno di loro, Tommaso, disse apertamente che andavano a morire con lui. Quando Gesù arrivò a Betania, Lazzaro era già morto e sepolto da ben quattro giorni. La sorella Marta, che era accorsa incontro a Gesù, appena lo scorse ne implorò l’aiuto, chiamando in soccorso anche l'Altissimo. Gesù la rasserenò, assicurandola che avrebbe fatto risuscitare il fratello, non alla fine dei tempi, ma lì per lì. Dichiarò solennemente d'avere lui, e lui solo, il potere di risuscitare i morti, donando loro la vita. Credere in lui significava vivere anche dopo la morte, per l’eternità. Marta protestò la sua fede in lui, il Cristo, Figlio di Dio, fattosi uomo. Poi corse ad avvertire la sorella del suo arrivo. Maria, impaziente di vederlo, si precipitò da lui, accompagnata da un codazzo di piagnoni, che si condolevano con lei della perdita di Lazzaro. Raggiuntolo, si prostrò ai suoi piedi, lamentandosi che a causa del suo tardivo arrivo non aveva potuto salvare Lazzaro dalla morte. Si struggeva di pianto, e con lei piangevano anche coloro che l’avevano seguita. Quel piagnisteo fece fremere e turbare il Cristo, il quale, immemore di ciò che dichiarava d’essere, cioè onniveggente, chiese agli astanti di indicare il luogo dove era stato sepolto Lazzaro. Appena vide il sepolcro, proruppe in lacrime. Perché piangere chi potrà resuscitare? Non poteva rianimare Lazzaro dal sonno della morte appena ricevette la triste notizia (ancora una volta Gesù non dà segni di chiaroveggenza), evitando la messa in scena del miracolo davanti al sepolcro dell'amico? In altre occasioni aveva già operato miracoli a distanza. Anche i giudei presenti si chiesero perché non si fosse adoperato in tempo per salvare il suo amico (avrebbe dovuto sapere che stava per morire). Perché poi avrebbe dovuto sottrarlo alla morte, se era certo che il suo Lazzaro aveva finalmente raggiunto il beato e agognato regno paradisiaco del celeste impero? Esauriti i funerei pianti, Gesù, fremente (forse per l’impazienza di prodigare il miracolo), si avvicinò al sepolcro. Comandò agli astanti di smuovere la pietra che occludeva l’ingresso della grotta (non poteva smuoverla lui, con la sua potente parola, mediante la quale aveva creato il mondo e poteva spostare montagne?). Intervenne Marta per impedire l'apertura del sepolcro, poiché il fratello giaceva morto da quattro giorni e il suo fetore sarebbe stato insopportabile. Gesù la rassicurò che non avrebbe sentito puzza di cadavere. Anzi, stava per ammirare la gloria di Dio. Rimossa che fu la pietra e aperto il sepolcro, Gesù rivolse i suoi occhi verso la volta del cielo (dove si presume che sia l’altolocata dimora di Dio), per ringraziare il Padre di aver ascoltato le sue preghiere a beneficio di Lazzaro. Ora poteva dimostrare ai presenti (e ai posteri credenti), che lui era un inviato speciale di Dio Padre, che lo aveva mandato in missione sulla terra ed era sempre disposto ad ascoltare le sue preghiere. Non sempre però il Padre sarà favorevole ad esaudire le sue suppliche. Nell’orto di Getsemani, infatti, non allontanerà da lui il calice amaro del calvario, che dovrà invece bere fino alla feccia (Mc 14, 36). Nell’ora della sua agonia sulla croce, lo abbandonerà al suo destino di morte (Mc 15, 34). In ogni caso, quella volta, l’autorizzò a portare a termine la sceneggiata miracolistica. Davanti al sepolcro, Gesù con voce possente ordinò al cadavere di Lazzaro, ancorché fosse mummificato, avvolto mani e piedi con bende, di venire fuori dalla tomba. Un macabro zombi cadaverico, legato come un salame, con il volto coperto dal sudario, apparve sull’uscio della tomba (dio sa come!). Gesù lo fece slegare, lasciandolo vivo e libero. Che cosa fece poi Lazzaro, non si sa. Quanto a Gesù, che lo amava e che tanto aveva pianto la sua morte, dopo che ebbe ridonato a lui la vita, non manifestò la gioia di rivederlo, né corse ad abbracciarlo, ma rimase impassibile e gelido nel suo divino amore. Al riguardo, va osservato che Dio, per quanto onnipotente, non può contraddirsi, annullando le leggi della natura che lui stesso – si racconta – ha creato. Insomma, non è possibile che possa vivificare un cadavere in stato di putrefazione. Sorprende inoltre il fatto che un simile, quanto inverosimile prodigio, sia stato menzionato solamente nel Vangelo secondo Giovanni, redatto molto tardi rispetto ai vangeli sinottici. Si tratta, verosimilmente, di un episodio di pura fantasia, avente significato simbolico, per insegnare ai neofiti il mistero del regno di Dio. Con tale significato si rappresenta un analogo episodio narrato nel “vangelo segreto di Marco”, della cui esistenza ha dato testimonianza il vescovo, padre della Chiesa, Clemente di Alessandria, in una lettera (della cui autenticità si discute) al discepolo Teodoro. Il brano in questione, dal quale risulta che Lazzaro nella tomba non era ancora morto, potrebbe quindi riferirsi alle cerimonie iniziatiche, in cui la morte rituale e la rinascita spirituale del neofito sono state appositamente travisate dall’evangelista Giovanni a fini apologetici. Del resto, il cristianesimo è debitore di riti, credenze e simbolismi d’altre antiche religioni, come il rito della discesa nella morte apparente e della successiva risuscitazione. Il neofita cristiano, infatti, deve rinascere a nuova vita, prima della morte fisica, mediante la morte figurativa dell’uomo vecchio.

        Alcuni dei piagnoni venuti a porgere le condoglianze alle sorelle di Lazzaro e che avevano assistito all’incredibile risuscitazione del cadavere in via di putrefazione, andarono a riferire ai farisei ciò che avevano visto compiere da Gesù (Gv 11, 45 seg.). Fu tosto convocato il Sinedrio, non per indagare l'attendibilità del prodigio compiuto dal santone, ma per discutere i provvedimenti da adottare nei suoi confronti. Bisognava toglierlo di mezzo, perché turbava con le sue bravate miracolistiche la quiete pubblica e fomentava disordini con le sue prediche blasfeme. Questo fu l'unanime verdetto pronunciato dai membri del Sinedrio, che temevano l’ira dei Romani dominatori, i quali avrebbero potuto allontanarli dalla loro patria e distruggere il sacro Tempio di Gerusalemme. Decisero quindi che non si potevano più tollerare le bizzarrie dell'eretico Cristo. L’accresciuto numero dei suoi seguaci e le folle che richiamava al suo passaggio, avrebbero potuto scatenare un incontrollabile putiferio tra il popolo. Tutto ciò non sarebbe sfuggito all’indagine dell'autorità romana, le cui risultanze avrebbero potuto dare adito a nefaste conseguenze per i privilegi goduti dai membri del sinedrio e dalla classe dirigente. Sarebbe stato meglio e più proficuo per i loro interessi decretare la condanna a morte del Nazareno, salvando così e la nazione e i loro scranni. Gesù, saputo del pericolo incombente su di lui, evitò di mostrarsi in pubblico. Si ritirò in una vicina regione desertica, accampandosi nel villaggio d'Efraim. Lì attese il corso degli eventi, intuendo l’imminenza dell’ora fatale, in cui le Moire avrebbero reciso lo stame della sua vita per volontà inappellabile del Padre extragalattico.


PARTE SECONDA


        All’evangelista Luca è stato attribuito l'omonimo vangelo, che si ritiene sia stato redatto successivamente ai vangeli attribuiti a Marco e a Matteo. Luca, a coronamento di storie inverosimili su Gesù, si cimenta in due racconti di risuscitamento (Lc 7, 11-17). Egli vuol apparire credibile al lettore, avendo accuratamente indagato tradizioni e testimonianze (Lc 1, 1). Nel vangelo descrive un miracolo avvenuto in Galilea, nei pressi del villaggio di Naim. Egli narra che Gesù, accompagnato dal codazzo dei discepoli e seguito da un folto gruppo di sventurati imploranti grazie, s’imbatté in un funerale nelle vicinanze della porta d’ingresso della cittadina. Accompagnavano il feretro molti abitanti del villaggio assieme alla madre, vedova, che piangeva la perdita del suo unico figlio. Gesù, preso da umana compassione per l’afflitta donna, le si avvicinò, confortandola. I portatori ne approfittarono per fare una sosta. Dopo aver consolato la vedova, Gesù s’accostò alla bara e, toccandola con la mano, comandò al cadavere di ritornare in vita. Manco a dirlo, lo zombi si animò e in quattro e quattr’otto si levò sulla bara, da dove improvvisò un’oratoria (n'aveva cose da dire, dopo l’esperienza del gelido aldilà!). Il giovinetto, per grazia ricevuta, ancorché non richiesta, fu restituito in vita alla madre dalla pietà di Gesù. L'incredibile miracolo si concluse, come i salmi, nel “gloria in excelsis Deo”. La storia della vedova e dello zombi resuscitato, balzò di città in città, di regione in regione, diffondendo e accrescendo la fama del santone taumaturgo, il figlio prediletto di Dio (cioè, secondo i Padri conciliari, di se stesso). Negli “Atti” attribuiti a Luca (20, 7-12), si accenna ad un altro miracoloso risuscitamento di un giovinetto per intercessione di Paolo, degno apostolo delle gesta del suo eroe, detto il Nazareno.

        Un altro risuscitamento, avvenuto in concomitanza con una miracolosa guarigione, è descritto nei tre vangeli sinottici (Mt 9, 18-26, Mc 5, 21-43, Lc 8, 40-56). Un giorno Gesù, mentre era attorniato dalla folla, fu avvicinato da un notabile di nome Giairo, capo della sinagoga. Questi, prono ai suoi piedi, supplicò Gesù a seguirlo presso la sua casa per guarire l’unica figlia moribonda. Gesù si diresse con lui, seguito dai discepoli, mentre una folla vociferante gli si pressava contro. Una donna, sofferente d'emorroissa, seguiva la scorribanda. Ella aveva già consumato tutto il suo patrimonio per curarsi ed erano già trascorsi dodici anni senza che riuscisse a guarire dalle perdite di sangue. Approfittando della confusione, riuscì ad avvicinarsi alle spalle di Gesù e a lambirgli la veste. Miracolo! La donna guarì all'istante in virtù della sua feticistica fede nel santone guaritore. Gesù, secondo i vangeli, avvertì che una potente forza usciva dal suo corpo. Fermatosi, domandò alla folla circostante chi aveva avuto l’ardire di toccare le sue vesti (aveva forse dimenticato che era Dio onniveggente?). Tutti negarono d’averlo toccato. I discepoli osservarono che nella calca chiunque avrebbe potuto accostarlo. Gesù, intanto, cercava con lo sguardo il molestatore tra la folla. I suoi occhi penetrarono taglienti in ogni persona che incrociava. Incisero anche quello della donna miracolata, la quale, timorosa e tremante, non potendo resistergli, crollò ai suoi piedi e svuotò il sacco. Gesù n’ebbe misericordia e, in virtù della fede attestata dalla donna, la lasciò andare. Quando finalmente arrivò alla casa della giovinetta, figlia di Giairo, apprese la funesta notizia della sua morte. Il padre precipitò nella più nera disperazione, non più sperando di rivederla in vita. Intervenne Gesù per esortarlo a non perdere la fede in lui, paladino di Dio. Questa era la condizione che richiedeva per la salvezza della giovinetta. Dall’interno della casa proveniva uno strepitar di pianti e lamenti di prefiche. Si vedevano inoltre i suonatori di flauto pronti per dar corso al rito funebre. Gesù fece allontanare la rumoreggiante folla dalla casa, entrò nella stanza dove giaceva defunta la giovinetta, zittì piagnistei e lamenti, tranquillizzò i famigliari. A suo dire la ragazza non era morta: stava solamente dormendo (come Lazzaro). Lo derisero, increduli, ma quando videro che prese la mano della defunta e le gridò di risorgere dal sonno della morte, rimasero stupefatti: il corpicino inerte della ragazza si rianimava. La giovinetta, rediviva, balzò dal suo giaciglio, camminando lungo la stanza, completamente guarita. Chiese persino di mangiare. Gesù raccomandò ai genitori, che erano senza fiato per l’emozione, di non divulgare la notizia del prodigio appena compiuto (forse non gradiva l’esuberanza di lodi e ringraziamenti, come continuano a innalzare al celeste Trono clero e fedeli). Figuriamoci se quel miracolo poteva passare inosservato! La notizia non soltanto trapelò, ma si diffuse rapidamente tra la gente delle vicine contrade, espandendosi a macchia d’olio. Per puro caso non raggiunse le sonnecchianti orecchie dei Romani. Fece scalpore solo tra gli zelanti redattori delle sacre gesta del Nazareno, che si cimentarono in fantastici voli pindarici sul fenomeno Gesù, mitizzandolo. Si dubita che le sue gesta siano attendibili e abbiano un qualche storico riscontro, giacché non documentate da fonti originarie, non di parte. I compilatori delle Sacre Scritture, librandosi tra i nembi della fertile ispirazione immaginifica, oltrepassarono i limiti dell'umana realtà. Liquefattosi il cerume sulle ali posticce della fantasia, per effetto dei cocenti raggi della critica razionale e della conoscenza scientifica, i cristiani sono precipitati, come il mitico Icaro, nel pelago del mistero insondabile della fede, in cui il dramma del Galileo si risolve in oscure verità mistico-teologiche.

        Confrontando i parallelismi presenti nella successione degli eventi descritti negli episodi di risuscitazione della figlia di Giairo, dell’amico Lazzaro e del figlio della vedova di Naim, possiamo ipotizzare che gli autori dei vangeli abbiano voluto contraffare una vicenda di stampo iniziatico, con morte rituale e resurrezione spirituale (tipico di molte comunità gnostiche della chiesa primitiva). Possiamo altresì ipotizzare che si abbia voluto attribuire a Gesù, come a Paolo (At 20, 7-12), le mitiche gesta di risuscitamento di giovinetti, posti in essere da Elia (1 Re 17, 17-24) ed Eliseo (2 Re 4, 8-37). Gli odierni discepoli di Gesù hanno perso il presunto carisma dei primi apostoli: di “guarire gli infermi, risuscitare i morti, mondare i lebbrosi” (Mt 10, 8), sia che svolgano la funzione a titolo gratuito sia mediante compenso. Si dubita quanto all’efficacia degli esorcismi. A “scacciar demoni”, cioè a curare epilettici e psicotici è preferibile ricorrere alla scienza medica specialistica.

        Se gli inverosimili miracoli descritti nei vangeli (amplificati e moltiplicati quanto più le redazioni dei medesimi si allontanano dal tempo degli avvenimenti) possono essere ritenuti fantasiosi racconti privi di fondamento storico, quelli incredibili di risuscitazione di cadaveri sono da considerare mere leggende teologiche, ossia enunciati di fede aventi lo scopo di avvalorare la mitica divinità del Cristo Gesù, onnipotente padrone, in cielo e in terra, della vita e della morte. Iniziato ai misteri divini, l'uomo Gesù si è voluto renderlo partecipe della natura e potenza di Dio (antropoteismo o divinazione dell’uomo). La divinità esclusiva che si è voluto attribuire a Gesù dai teologi, costruttori dell’istituzione politico-religiosa del cristianesimo, non fa testo in un’epoca in cui la “terra è così infestata dalle divinità che è più facile incontrare un dio che un uomo” (cfr. Satyricon di Petronio). Gesù, del resto, non aveva l’esclusività di compiere miracoli (Mc 38, 41; Mt 12, 27-28; Lc 11, 19-20; At 8, 9-11; Atti apocrifi di Pietro e Paolo). Il fenomeno della presunta risuscitazione dalla morte era di comune credenza nella mentalità superstiziosa dell’antichità. In Babilonia, sembra che operassero guaritori e risuscitatori di morti. Un documento (n. 45.2, sez. I), conservato presso l’archivio storico di Novi Ligure, attesta che nel Cinquecento, in una città della Mesopotamia, era nato un bambino che guariva gli ammalati e resuscitava i morti. Il mitico medico guaritore Asclepio, famoso risuscitatore di cadaveri, fu fulminato da Zeus, perché, facendo sfuggire alla morte gli uomini, violava le regole del Fato (cfr. la “Biblioteca” di Apollodoro, III). In compenso del bene fatto al genere umano, Asclepio riceverà l'apoteosi, ossia la divinazione. L’adorazione del dio Tammuz, che moriva d’inverno per risorgere in primavera, era stata introdotta in Israele dai dominatori babilonesi (Ez 8, 14). In Betlemme c’era un boschetto sacro dedicato al dio Adone, di cui si festeggiava il 25 dicembre la natività dalla vergine Mirra e, nel periodo pasquale, la sua risurrezione dopo tre giorni dalla morte, analogamente ad altre divinità cananee (Baal), deprecate dai profeti Elia ed Osea a causa delle abominevoli nefandezze degli atti di culto. Anche del dio Attis si festeggiavano sia la morte sia, in primavera, la resurrezione. Dionisio, venerato come dio liberatore, divenne immortale dopo essere risorto dalla morte e asceso al cielo per sedere alla destra di Zeus. I misteri dionisiaci contemplano la sua discesa agli Inferi e l’omofagia, ossia la consumazione della carne e del sangue di un animale, simboli del corpo e del sangue del dio. Krishna, dio indù salvatore del mondo, nato da una vergine fecondata da un lampo folgorante di luce divina, perseguitata da un tiranno che ordina l’uccisione di bambini, fa miracoli, risuscita cadaveri, muore e risorge per ascendere al cielo dove risiede come seconda persona della trinità indiana. Il taumaturgo e ascetico Apollonio di Tiana, vissuto all’epoca di Gesù, risuscita una giovane romana, opera numerosi miracoli e guarigioni spirituali, dà vaticini, produce potenti talismani, risorge dalla morte ed appare a due suoi discepoli. Di Apollonio parlano nei loro scritti Giustino Martire e san Gerolamo. Caracalla innalzò un tempio alla sua memoria (cfr. Dione Cassio, LXXVIII, 18,2). Altri analoghi miti sono quelli di Mithra, di Horus (risuscitatore di Osiride), di Zoroastro, di Orfeo, ecc. La Chiesa, non avendo prove incontrovertibili per dimostrare quanto afferma come verità di fede, si è avvalsa dell’anatema contro chi non crede o mette in dubbio tutti i racconti miracolosi contenuti nelle Sacre Scritture (cfr. la Costituzione dogmatica sulla fede cattolica del Concilio Vaticano I). La pretesa infallibilità dogmatica della Chiesa cattolica non è una prova per attestare la divinità del Cristo Gesù e la sua nascita da una sempre vergine Madonna, deificata come Regina del cielo, immacolata e Madre di Dio.


Lucio Apulo Daunio

sabato 16 aprile 2011


CRISTO ESORCISTA



L’eroico Cristo Gesù sostenne una lotta senza quartiere con le potenze demoniache. Satana, spirito del male, assieme ai suoi indiavolati accoliti, sono considerati nemici acerrimi di Dio. Appare incredibile che una supposta onnipotenza divina sopporti un concorrente tanto pernicioso quanto pericoloso per l’umana gente. La credenza negli spiriti malvagi pare che sia un fenomeno religioso universale, risalente a tempi atavici.

Il demonismo giustifica la presenza del male nel mondo, senza implicare direttamente Dio. Secondo una complicata teoria della tradizione ebraico-cristiana, i demoni sono angeli decaduti, espulsi dal Paradiso a causa della loro superbia e della loro pretesa di voler essere pari a Dio; perciò Dio li ha castigati, precipitandoli nel profondo Inferno (come fece Giove a danno dei Titani e dei Giganti, ruzzolati nel profondo Tartaro, avendo osato ascendere verso l’Olimpo per spodestarlo). Anche i nostri primi parenti furono scacciati dalle vette paradisiache e sprofondati sulla terra a patire la dura, mortale esistenza, avendo disobbedito a Dio su istigazione del Maligno tentatore. Dio, inoltre, non pago della punizione, ha consentito al Principe delle tenebre di lasciare gli Inferi per venire sulla terra, assieme alla ridda dei suoi manutengoli compagni, a fomentare il genere umano, inducendolo a peccare. A contrastare il malefico influsso di Satana, Dio, bontà sua, ha inviato a soccorrerci una schiera di spiriti benevoli. Sono gli angeli custodi, deputati a consigliare l’uomo nel perseguire i sani precetti morali, custoditi in sacri libri, impartiti da sedicenti vicari, che hanno la presunzione di parlare per ispirazione divina. Con l’aiuto dell’usbergo del celeste impero, l’uomo può evitare l’eterna perdizione e riguadagnarsi, dopo la morte, l’accesso al paradiso perduto. La potenza malefica degli spiriti infernali, che si oppone a quella benefica di Dio, riflette in realtà il contrasto tra la natura ferina dell’uomo e il suo impegno civile, volto ad emanciparsi dallo stato di natura. La mitica battaglia cosmica, tra le forze del bene e quelle del male, è piuttosto un riflesso della perpetua lotta dell’uomo con se stesso e con l’indole della sua natura.

In quei tempi, secondo la testimonianza degli evangelisti, si credeva che fossero gli spiriti malvagi la causa dei malesseri fisici e psichici, vuoi per effetto della possessione satanica, vuoi come conseguenza del peccato indotto dalla tentazione demoniaca. Satana, nei Vangeli sinottici, si rappresenta come strumento di Dio per punire i peccatori, dopo averli indotti a peccare. Le relative guarigioni, secondo gli evangelisti, sono la manifestazione dei poteri soprannaturali di Gesù, tramite i quali si accresce la sua fama. Il dono del miracolo richiama alla fede attraverso la meraviglia e l’ammirazione. La possessione demoniaca (fenomeno privo di fondamento nell’ambito della scienza medica) era allora confusa con le malattie, quali le convulsioni epilettiche o le patologie psichiche (stati di angoscia, nevrosi isterica, agitazioni psicomotorie, linguaggi privi di senso, forza straordinaria, vaneggiamenti blasfemi ed osceni, presunta avversione al sacro, ecc.). Nei primordi del cristianesimo, gli esorcisti erano chierici che, su conferimento del vescovo, svolgevano la funzione di scacciare i demoni dai nuovi convertiti e dai malati ritenuti posseduti. Durante il ministero salvifico, Gesù praticò l’attività di esorcista, scacciando i demoni con lo spirito (potenza) di Dio (Mt 12, 28; Lc 11, 20). I presunti indemoniati, verosimilmente, erano affetti da epilessia o isterismo o altre psicopatie. Queste pretese guarigioni dalle potenze malefiche non convinsero i dotti ebrei riguardo alla divinità del Cristo Gesù. I suoi poteri di esorcista guaritore non apparivano così straordinari per essere considerati veri e propri miracoli di natura divina.

Nei Vangeli secondo Luca (Lc 4, 31 seg.) e Marco (Mc 1, 23 seg.) si narrano gli esorcismi praticati da Gesù in Cafarnao, cittadina posta sulla riva del lago di Galilea. Qui egli aveva trovato ospitalità, dopo aver lasciato il suo villaggio natio per scampare al linciaggio dei suoi concittadini. Un sabato, mentre stava predicando nella locale sinagoga, improvvisamente un uomo succubo del demonio inveì contro di lui come un forsennato. Nel racconto dei due suddetti evangelisti lo spirito malvagio, che possedeva quel disgraziato, era ossessionato dall’idea che Gesù, il Santo di Dio, volesse scacciarlo. Fatto sta che Gesù, per nulla intimorito, lo rimproverò aspramente e gli comandò di liberare l’uomo che possedeva. Con la coda tra le gambe, mogio mogio, il demonio ubbidì e abbandonò la preda, non senza far sentire la sua rabbia, emettendo un diabolico urlo, tanto da spaventare gli astanti. Passata che fu la paura, tutti si chiesero chi fosse Gesù e con quale autorità e potenza comandasse ai demoni, costringendoli a liberare i malcapitati per non buscarle di santa ragione.

Un giorno Gesù, uscito dalla sinagoga di Cafarnao, si diresse in casa di Simon Pietro per guarire la suocera dell’apostolo afflitta da un febbrone (Mt 8, 14 seg., Mc 1, 29 seg., Lc 4, 38 seg.). Avvicinatosi al giaciglio dell’inferma, si chinò su di lei, minacciando la febbre. Virus e batteri, intimoriti al pari dei demoni, se la diedero a gambe, ligi alle divine minacce. Sfebbrata la donna, Gesù l'afferrò per mano e l’aiutò ad alzarsi. Ritornata subito in florida salute, la suocera di Pietro si mise a servire gli astanti, arzilla più che mai, ancorché fosse debilitata a causa della malattia, che avrebbe richiesto un periodo di convalescenza. Miracolo o no, quel sabato di segni n'aveva già fatti due, ma (poiché non c’è due senza tre) al tramonto si sbizzarrì in miracoli ed esorcismi vari. Guariva e sanava ogni sorta di malanni (era più efficiente di un moderno nosocomio) e liberava tutti gli assatanati che gli portavano. I demoni però (che probabilmente si divertivano a tormentare i malcapitati) non gradivano di essere scacciati. Protestarono, gridando improperi contro il Figlio di Dio. Vano sarebbe stato per loro lottare contro un raccomandato figlio d’un altolocato padre, che li sfidava slealmente con armi impari. A quegli esseri immondi Gesù comandò di non svelare la sua divina identità. Gli evangelisti Marco e Luca (Matteo non si pronuncia) riferiscono che i demoni sapevano chi egli fosse. Paolo, però, apostolo delle genti, in un’epistola indirizzata ai Corinzi (1 Co 2), afferma che le potenze sataniche, ostili a Cristo, ignoravano il suo mistero, che fu invece rivelato agli apostoli e per ultimo a lui. Ad avviso dell’evangelista Matteo, la liberazione degli ossessi rappresenta l’adempimento della profezia d’Isaia (Is 53, 3 seg.). Questa, in vero, fa riferimento al Servo di Jahvè, che assume su di sé i malanni che affliggono il genere umano (una specie di capro espiatorio) ed è trafitto a causa dei nostri peccati. Isaia, in verità, intendeva riferirsi al popolo d’Israele in esilio, quando parla del Servo di Jahvè. Da escludere è che abbia voluto estenderne il significato anche alla figura di Gesù. L’asserzione dell’evangelista, dunque, è priva di fondamento. Credere inoltre che la causa dei malanni, di cui soffre l’umana gente, sia da ricercare nei peccati commessi, e che vi sia correlazione tra la gravità della malattia e la gravità del peccato, è certamente inammissibile. Se ciò fosse vero, una vita non peccaminosa, conforme al vangelo di Cristo, non apporterebbe malanni. Le cose, però, stanno diversamente da come vorrebbero farci credere gli autori dei sacri testi. La causa delle infermità non è imputabile alle nostre colpe. Né l’assoluzione sacramentale dei peccatori potrà liberarci dagli acciacchi. I presunti miracoli attribuiti a Gesù, verosimilmente, richiedevano la partecipazione emotiva dell’infermo, la sua fede nella potenza taumaturgica del guaritore, perciò essi sarebbero una conseguenza della concomitante capacità d’autosuggestione ed esaltazione della psiche del malato, piuttosto che dei poteri occulti di una discutibile divinità. E’ comunque umiliante per chi soffre dover barattare la libertà di pensiero e l’autorità della ragione in cambio della liberazione dal dolore indotta da un’irrazionale credenza religiosa.

L’evangelista Matteo (Mt 9, 27-34) descrive l’episodio di due ciechi che seguivano Gesù invocando pietà (in sostanza, lo imploravano affinché li miracolasse). Arrivato che fu alla sua casa, Gesù domandò ai due disgraziati se credevano veramente nella sua potenza taumaturgica. I due protestarono la fede in lui, e Gesù, toccando i loro occhi, li guarì dalla cecità, ma proibì di divulgare l’accaduto. Figuriamoci se quei due, dopo che i loro occhi si aprirono, tennero la bocca chiusa. La notizia dell’avvenuto miracolo, manco a dirlo, si diffuse in tutta la regione. Grazia ottenuta, santo gabbato! Guariti i due ciechi, gli presentarono tosto un altro indemoniato, reso muto dal satanasso. La folla degli infelici non gli dava requie, neanche in casa sua. Gesù liberò il posseduto, che riacquistò immediatamente la favella. Le folle, stupite, esultavano nel constatare tali fenomeni: non si era mai visto nella storia del popolo eletto nulla di simile (di Mosè, che manifestò la potenza divina, e delle altre meraviglie descritte nelle antiche Sacre Scritture, dimenticarono in quella circostanza). I farisei, che avevano la puzza al naso, sospettarono Gesù di stregoneria e lo accusarono di scacciare i demoni con il favore del loro caporione, l’infero Lucifero. La pratica della stregoneria era un crimine punibile con la morte. Dalle accuse dei farisei, Gesù si difese durante un esorcismo (Mt 12, 22 seg; Lc 11, 14 seg), quando fece riacquistare la parola e la vista (o solo la parola, nella versione lucana) ad un indemoniato. I farisei, infatti, l'avevano incolpato d’intendersela con Belzebù (Mc 3, 20 seg), ma Gesù obiettò che, se così fosse, Satana si darebbe la zappa sui piedi, scacciando se stesso. Il suo infernale regno, inoltre, in quanto risulterebbe diviso al suo interno, sarebbe caduto in rovina. Peraltro, da che mondo è mondo, cane non mangia cane. Dunque, parola di Gesù, non in virtù del Principe dei demoni, ma in forza dello Spirito Santo egli guariva gli indemoniati. Assurda era quindi l’accusa dei farisei e, per giunta, una vera e propria bestemmia contro il terzo Dio: un peccato imperdonabile. Pazienza Gesù n’aveva da vendere, se si sparlava di lui (come uomo), ma inveiva contro chi osasse calunniare lo Spirito Santo (cioè se stesso, nella terza persona divina), imprecando peste e corna a danno dell’empio dileggiatore. Preso da furore divino, si scagliò con astio contro i farisei, vituperandoli e minacciandoli. Li avrebbe attesi “a Filippi”, cioè nel giorno del giudizio universale, per regolare i conti. Essendosi in quel frangente infervorato più del solito, farisei e scribi cercarono di rabbonirlo, solleticando la sua vanagloria. Gli chiesero di compiere un vero e proprio miracolo, non esorcismi, in modo da rendere credibile il suo preteso potere divino. La pratica dell’esorcismo non era una prerogativa esclusiva di Gesù. In Israele era abitualmente praticata, data la credenza di considerare quale causa dei malanni la presenza possessoria del maligno, ma le eventuali guarigioni non erano esaltate come miracolose. Guaritori erano anche gli esseni terapeuti. Gesù pare che fosse vicino alla setta degli esseni. Nel santuario di Epidauro e in quello di Pergamo, Asclepio, divinità salutare, guariva folle di pellegrini dai mali del corpo e dell’anima mediante prescrizioni trasmesse durante il sonno (cfr. Elio Aristide, “Discorsi sacri”). Guarigioni miracolose sono attribuite a contemporanei di Gesù, come l’imperatore Vespasiano (cfr. Tacito e Svetonio) e Apollonio di Tiana, taumaturgo e predicatore itinerante (cfr. Filostrato). Persino al profeta Maometto sono attribuiti prodigi dalla tradizione islamica, come il miracolo della divisione della luna, riportato dall’erudito Saheeh Al-Bukhari. Dunque, non comuni guarigioni chiedevano i farisei, né tantomeno magie, bensì un saggio della sua pretesa potenza divina. Gesù, però, non volle dare loro soddisfazione; continuò invece a lanciare improperi e a farneticare storielle ebraiche. I giudei lo lasciarono parlare, credendolo posseduto da uno spirito immondo. Affermava che sarebbe rimasto nel cuore della terra per tre giorni e tre notti e che, a condannare quella generazione cattiva, spergiura e incredula, sarebbero risorti gli uomini di Ninive (si narra che costoro non esitarono a convertirsi, ascoltando la predicazione del profeta Giona) e la regina di Saba (che venne, in tempi remoti, dall’estremità della terra, di quella allora conosciuta, per ascoltare la sapienza di Salomone, cui concesse le sue grazie). Mentre ancora pontificava, arrivarono sua madre e i suoi fratelli. Gesù, avvertito del loro arrivo, si volse verso i discepoli, dichiarando che i suoi parenti erano coloro i quali compivano la volontà del Padre. I suoi famigliari, come in altre occasioni, cercavano di scusarlo, dicendo che era fuori di testa (Mc 3, 21).   

Un giorno, mentre Gesù prediceva la sua imminente passione, l’apostolo Giovanni gli riferì che un tale andava in giro ad esorcizzare in nome suo e che loro glielo avevano proibito (Mc 9, 38-41; Lc 9, 49-50). Gesù rispose che non avrebbero dovuto farlo, perché chi esorcizzava nel nome di Cristo non poteva che essere a favore di lui. Chi non era contro di lui, quindi, era favorevole a lui. In verità, avercela o no contro di lui, non implica essergli contro o a suo favore. Tra i due estremi, a favore o contro, esistono altre posizioni intermedie: di terzietà, d’indifferenza, di disinteresse, di tolleranza.

Un altro episodio d’isterismo, spacciato per possessione demoniaca, è descritto fino all’inverosimile nei tre vangeli sinottici (Mt 8, 28-34, Mc 5, 1-20, Lc 8, 26-39). La scena si svolge nei pressi del lago di Galilea, nella regione, secondo Matteo, intorno a Gadara (che dista circa 12 Km dalla costa del lago di Galilea) o, secondo gli altri due evangelisti, intorno a Gerasa (che dista dal lago circa 60 Km). La regione, presumibilmente, era abitata da gente di religione non ebraica (allevavano maiali, carni considerate impure dagli ebrei; cfr. Lv 11, 1-8). Improvvisamente, uscendo dagli anfratti tombali, appaiono (secondo Matteo, che raddoppia sovente il numero dei miracolati) due ossessi. Questi vanno incontro a Gesù, urlando come forsennati. Erano considerati pericolosi, tanto che nessuno si avventurava per quei paraggi. Gesù non si fece intimorire dai demoni, che continuavano a tormentare i due infelici invasati. Gli spiriti immondi, avendo riconosciuto in lui il potente Figlio di Dio, gli chiesero perché veniva a tormentarli prima del tempo. Se fosse o non fosse il tempo giusto, poco premeva a Gesù, che non intendeva scendere a patti con i suoi acerrimi nemici, tanto più che non aveva assunto obblighi verso di loro. I demoni, vistisi perduti, belarono come pecore, supplicandolo di essere mandati (chissà perché) in una mandria di porci, che pascolava sulle alture nei dintorni. Gesù, bontà sua, li accontentò. I demoni, impossessatisi dell’intera mandria, in preda a furore satanico, la precipitarono nei flutti del sottostante lago. La vicenda appare poco credibile, stante peraltro la non breve distanza del lago dal luogo in cui si trovava Gesù. A farne le spese del risentimento luciferino fu il proprietario dei porci annegati nel lago. Intanto, i guardiani della mandria, terrorizzati, fuggirono in città, dove riferirono l’accaduto. In tanti, indignati, accorsero da Gesù, dannoso scacciadiavoli, scongiurandolo di allontanarsi al più presto dal loro territorio. Così, senza pagare i danni causati, Gesù, voltato i tacchi, cambiò aria, cavandosela a buon mercato, anzi gratis.

Secondo il Vangelo marciano e lucano, invece, un solo indemoniato (verosimilmente uno psicopatico) si avvicinò a Gesù nei pressi della città di Gerasa (che si trova in una zona diversa da quella della città di Gadara e distante dal Mar di Galilea circa 60 Km). Costui dimorava tra le tombe e vagava sui vicini monti, come un pazzo furioso, urlando e percotendosi con pietre. Non si riusciva a tenerlo legato neanche con le catene (insomma, non c’era modo per sedarlo). Prostratosi ai piedi di Gesù, l’indemoniato lo implorò di non tormentarlo, gridando a gran voce e chiamandolo “figlio di Dio”. Gesù non s’impietosì e chiese (chissà perché) il nome all’immondo spirito, che possedeva l’infelice. Gli rispose che il suo nome era Legione; infatti, ad impossessarsi dell’uomo, rendendolo pazzo furioso, erano molti demoni. Si trovavano a loro agio in quei luoghi, spassandosela a tormentare quel malcapitato, perciò non volevano che Gesù li scacciasse fuori della regione. Se proprio dovevano sloggiare, preferivano entrare in una mandria di porci. Furono accontentati. Così invasero i corpi di quelle povere bestie, che erano pur sempre creature di Dio (ma immonde per gli ebrei a motivo delle prescrizioni della Legge, imposta dal loro Domineddio). La mandria, terrorizzata dai demoni, prese a correre a rotta di collo, precipitando da un dirupo fin nel sottostante lago, dove, secondo Marco, affogarono circa duemila capi. Ciò appare improbabile, considerata la distanza del lago dal luogo degli avvenimenti. La gente del posto, appurati i fatti, esortò il forestiero, un po’ con le buone un po’ con le cattive, di andare altrove a compiere danni. Gesù non si fece pregare a lungo, voltò i tacchi e ritornò di buona lena sui suoi passi, prima che qualcuno gli ingiungesse di pagare il danno ingiustamente cagionato. Gli evangelisti se ne guardano bene dal riferire se il proprietario della mandria presentò a Gesù, oltre alle lamentele, il conto del danno relativo alla perdita della mandria. L’invasato, liberato dalla legione dei demoni, volle farsi legionario di Cristo. Gesù non gli consentì di arruolarsi (era un pagano), ma – contrariamente ad altri analoghi casi di guarigione miracolosa – lo autorizzò a divulgare tra la sua gente l’opera misericordiosa del Signore (cioè sua). Il miracolato s’avviò per le contrade circostanti a proclamare ai quattro venti la gloriosa vicenda del Cristo esorcista. Cresceva così la fama del santone Gesù, ancorché dannosa per taluni e letale per le bestie invise agli ebrei.

Anche nella versione lucana si racconta di questo esorcismo, in prosieguo della vicenda relativa alla tempesta sul lago di Galilea, sedata da Gesù, e all’approdo incolume degli apostoli sulla riva. Un uomo ignudo, proveniente da una viciniore città della regione dei Geraseni, si avvicinò a lui. Era un indemoniato (probabilmente si trattava di un folle, malato di mente), spesso legato con catene e custodito in ceppi, ma lo spirito immondo, che s’impossessava di lui, spezzava i legami e lo spingeva in luoghi deserti. Il demone rompiscatole non era solo: un’assatanata legione tormentava l’infelice. I diavoli, temendo l’intimazione di Gesù a sloggiare, non avendo alcuna intenzione di ritornarsene nell’orrido abisso infernale, lo scongiurarono di non scacciarli dalla loro amena dimora. Gesù, irresponsabilmente, accordò loro il permesso di andare a tormentare una pacifica mandria di porci, che presero a correre all’impazzata, precipitando e affogando nel vicino lago. Il Figlio di Dio non si dette pena, né di condannare a morte un’intera mandria (suo Padre, del resto, aveva compiuto più atroci misfatti, parola della Bibbia) né di risarcire il danno ingiusto che aveva causato ai mandriani. Poteva assolvere il suo debito, moltiplicando, con una benedizione e un paternoster, i talenti che la sua povera comunità possedeva. Del resto (cfr. Mt 17, 24 seg.), quando si trovò a Cafarnao ed ebbe bisogno di dramme per pagare il tributo al tempio, non mandò Pietro a pescarle in bocca ai pesci del vicino lago? Certamente, questo fu un miracolo laborioso. Avrebbe potuto pagare l’obolo, semplicemente moltiplicando con un benedìcite gli spiccioli che aveva in saccoccia.  Che i misteri di Dio (Padre, Figlio e Spirito Santo) siano insondabili per la mente umana, non si dubita.

Lebbra, infermità degli occhi, malattie isteriche: questi erano i malanni più frequenti in quei tempi. Gesù li curava con il sacro farmaco del miracolo. Gli isterismi erano considerate possessioni demoniache sanabili con esorcismi. La liberazione di un giovane ossesso (verosimilmente un epilettico) è un altro episodio miracoloso narrato nei vangeli sinottici. Matteo (17, 14-21) racconta di un uomo che, avvicinatosi e prostratosi ai piedi di Gesù, lo supplicò d’aver pietà del figlio invasato (cioè epilettico), che spesso cadeva nell’acqua o nel fuoco durante la crisi. I suoi discepoli, dai quali aveva già portato il ragazzo, non erano stati capaci di guarirlo. Pur essendo questi abilitati alla pratica dell’esorcismo, avevano fatto cilecca. La notizia del loro fallimento mise di pessimo umore il Maestro, che cominciò a lamentarsi della poca fede dei suoi adepti nell’esercizio della divina missione. Generazione incredula e perversa quella con cui il celeste Figlio di Dio (in realtà, figlio d’una terrestre Sacra Famiglia) doveva convivere! Fino a quando avrebbe dovuto sopportarla? Ad ogni modo, si fece portare l’epilettico e lo guarì all’istante, scacciando con parole minacciose il demone ossessionante. I discepoli, parlando in disparte con Gesù, gli chiesero chiarimenti per il buon esito nella pratica esorcistica. Lui rispose che avevano fallito a causa della pochezza di fede. Poi, contraddicendosi, aggiunse che sarebbe bastata una fede piccola come un chicco di senape per riuscire, non solo a scacciare i demoni, ma, addirittura, a spostare montagne. Insomma, quanto a fede i discepoli ne avevano, forse più grande di un chicco di senape, ancorché non fossero in grado di guarire gli epilettici. Quanto a spostare montagne, invece, non se ne parlava proprio. Gesù, comunque, dovette convenire che per scacciare quella demoniaca genia occorreva l’ausilio della preghiera e del digiuno. Non si sa se i discepoli ritentarono di sanare altri epilettici, seguendo le divine prescrizioni del Maestro, né se l’epilettico, dopo esser stato guarito da Gesù, ebbe altre crisi. Le autorità giudaiche, ad ogni modo, ritenevano che i supposti miracoli compiuti dall’indomito compatriota, al pari di altri presunti guaritori, fossero meri espedienti. Egli era, a giudizio dei dotti ebrei, un comune mortale, ancorché reclamasse di operare prodigi di marca divina, squalificando altri, dotati come lui di poteri occulti, accusandoli d’essere falsi cristi e falsi profeti, operatori d’iniquità, seduttori degli eletti (Mt 7, 22-23; Mc 13, 21-23).

Luca (9, 37-43) racconta di un uomo che gridava in mezzo alla folla intorno a Gesù, implorandolo di aiutare il figlio indemoniato (cioè epilettico). Si lamentava che uno spirito maligno scuoteva e straziava impietosamente il figlioletto, facendolo urlare con la bava sulla bocca. Nemmeno i discepoli, cui s’era rivolto, avevano avuto ragione di quello spirito testardo. Gesù, dopo aver imprecato contro la sua generazione per la poca fede, si fece portare l’epilettico. Lo spirito malvagio alla vista di Gesù cominciò a sbraitare, sbattendo per terra il disgraziato giovane, che si contorceva in preda a convulsioni. Gesù, dopo aver minacciato lo spirito malefico, guarì il ragazzo, consegnandolo a suo padre tra lo stupore della folla.

In Marco (9, 14-29), l’episodio sopra riportato è narrato con dovizia di particolari. A differenza degli altri due evangelisti, egli riferisce che il padre del giovane epilettico non pregò Gesù di guarirgli il figlio. Domandò, invece, se poteva fare qualcosa per aiutarlo, implorando pietà per la sua disgrazia. Gesù si risentì per la scarsa fiducia nella sua onnipotenza. Gli rispose che tutto era possibile a chi crede fermamente. L’altro replicò affermando di credere, ma per vincere l’incredulità aveva bisogno di essere aiutato. Intanto che i due si perdevano in chiacchiere, l’epilettico, trastullo del (presunto) satanasso, si contorceva e sbavava. Accorse della gente con tono minaccioso. Gesù, temendo il peggio, si decise finalmente ad esorcizzare l’infelice. Ingiunse allo spirito, muto e sordo, di cambiare aria immediatamente. L’infero briccone ubbidì e, riacquistata la favella e l’udito, se n’andò, urlando (per rabbia) e tramortendo con uno scossone il giovane posseduto (per far dispetto a Gesù). A tutti i presenti sembrò che il giovane avesse già pagato l’obolo a Caronte, ma Gesù, afferrandolo per mano, lo sollevò da terra, vivificandolo.


Non solamente il popolo di Dio, Israele, già ricolmo di divini privilegi, ma anche i pagani ottennero grazie da Gesù. Un giorno (Mt 15, 21-28; Mc 7, 24-30), mentre si trovava in territorio fenicio, ai confini della Galilea, dove la sua fama l’aveva preceduto, venne a cercarlo una Cananea (che, verosimilmente, non parlava aramaico).  Appena lo vide, quella si mise a gridare e implorare pietà per lei e per la figlia, vessata duramente da un manigoldo diavolaccio. Gesù rimase freddo al “miserere” della donna né si degnò di rivolgerle la parola (i “gentili” non andavano a genio agli ebrei, Gesù compreso). L’altra, presa dalla disperazione, urlava a squarciagola, tanto da infastidire i discepoli, che andarono da Gesù a intercedere per lei, affinché la smettesse di fare il diavolo a quattro. Il Maestro fu irremovibile, persino di fronte al gratuito patrocinio dei “suoi”, quantunque d’avvocati in causa propria. La sua missione pastorale si limitava al salvataggio delle pecore disperse d’Israele e non anche a pascere i caproni degli altri ovili. La Cananea, però, era tosta, non smetteva d’implorarlo, prostrata ai suoi piedi. Gesù (che parlava aramaico) finalmente le rivolse la parola (non sappiamo in quale lingua si espresse per farsi comprendere dalla Cananea), negandole il suo aiuto, perché non voleva togliere il pane della misericordia dalla bocca dei suoi diletti connazionali, per sfamare dei cani bastardi pagani (Gesù razzista?). L’abile Cananea, che non demordeva, ribatté prontamente (forse con l’aiuto di un interprete) che anche i bastardi mangiavano le briciole che cadevano dalla mensa dei loro padroni. La donna, similmente ad un molosso che non molla la presa, urlando peggio d’una canatteria, non desisteva dal suo proposito. A Gesù non restò che arrendersi alla Cananea, disarmato dall’arguzia e dalla pervicacia della sua fede. La congedò, dopo averla assicurata che, ritornando a casa, avrebbe trovato la figlia liberata dall’ossessione diabolica. Non abbiamo notizia dell’avvenuto miracolo.
            Lucio Apulo Daunio

lunedì 11 aprile 2011


MIRABILIA DOMINI

"Rari e felici i tempi in cui è permesso di pensare ciò che si vuole, e di dire ciò che si pensa" (Tacito, Historiae, I,1)

LA CRITICA NON CONOSCE TESTI INFALLIBILI (Ernest Renan)


           Il miracolo è il desiderio di rendere concreto e possibile, per intervento diretto della divinità, implorata con fede dal credente, ciò che appare impossibile, giacché esso si mostra come fenomeno non spiegabile né per via naturale né mediante i lumi della scienza (sempreché questa, nei limiti delle conoscenze acquisite, possa indagare e controllare il fenomeno con imparzialità e metodo).

Miracolo, secondo Agostino, è tutto ciò che avviene “contra quam est nota natura” (cioè contro quella natura che a noi si manifesta). Questo fenomeno, che accomuna tutte le religioni e le culture di tutti i tempi, appare contraddire le leggi della natura e l’esperienza razionale. In verità, ogni fenomeno che non si vuole o non si può ancora spiegare con l’imparzialità della metodologia scientifica, si tende ad attribuirlo ad un misterioso intervento soprannaturale, ad un’epifania del sacro (ierofania) come modalità di perpetuazione della rivelazione di un dio inaccessibile, avvolto in una luce accecante e impenetrabile (1 Tm 6, 16). Per ottenere il miracolo s’intercede la divinità con l’uso delle tecniche della magia (preghiere, aspersioni con acqua benedetta, unzioni con oli, voti, ecc.). Spesso, il preteso miracolo può spiegarsi come effetto di una contraffazione, indotta o dall’ignoranza o dalla superstizione o dalla suggestione causata dal fanatismo religioso. Quanto ai miracoli raccontati nei vangeli, data l’inattendibilità storica di tali testimonianze, sono da ritenere invenzioni degli autori a fini allegorici o simbolici.

Abramo e Sara erano vecchi, avanzati negli anni, non potevano più avere figli. Dio, però, cui nulla è impossibile (salvo annichilire se stesso), compì un miracolo. Sara partorì un figlio, assicurando una legittima discendenza ad Abramo (Gn 18, 9-14). Cristo stesso, eletta divinità dell’Olimpo cristiano, nuovo mago capace di infondere rinnovata fiducia agli uomini, annunciando un destino di salvezza, compiva a iosa prodigi, esorcismi, guarigioni e risuscitazioni con la potenza della parola e con la fede illimitata nel Padre celeste. In verità, anche scribi e loro discepoli praticavano esorcismi (cfr. Mt 12, 27). Gli esseni erano noti come guaritori miracolosi. Il samaritano Simon Mago era esperto in magie (At 8, 9). I cristiani hanno esaltato la figura umana del Cristo Gesù quale Salvatore atteso dalla notte dei tempi per redimere l’umanità dal peccato originale, divinizzandolo come Dio, Figlio di Dio, consustanziale al Padre. La magica potenza soprannaturale del divo Gesù poteva fare a meno di faticosi studi per acquisire conoscenze medico-scientifiche e formazione culturale. Egli, in quanto Dio incarnatosi nella natura umana, affrontava le avversità con animo invitto, vincendo persino l’inesorabile morte. Poté persino riprendersi la vita, dopo essere morto e sepolto. Risorse come uomo ad esclusivo beneficio degli increduli discepoli, prima di assurgere alla dignità divina e divenire simbolo della vita oltre la morte. Discese fino agli inferi, come l’avventuroso figlio di Laerte, prima di ascendere verso la celeste dimora. Egli, generato dal Padre celeste in modo soprannaturale, senza fecondazione, è un mistero inestricabile per l’umana comprensione. Persino la Madonna ha dell’incredibile. Fu concepita immacolata (senza peccato originale), rimase vergine, quantunque resa gravida dallo Spirito Santo, che la fecondò in modo asessuale. Conservò la verginità anche dopo il parto (secondo il protovangelo di Giacomo, una donna di nome Salome volle mettere il dito nella vagina di Maria, dopo che la stessa ebbe partorito, per credere al suo stato verginale). Maria la conservò anche nel prosieguo della vita matrimoniale con il casto Giuseppe (ciò appare inconcepibile per la cultura religiosa ebraica di quei tempi, essendo doveroso per gli sposi consumare il matrimonio ai fini della procreazione). Fu assunta infine in cielo in corpo e spirito prima che l’infausta morte (“dormizione”) disfacesse il sacro corpo. Plurimo miracolo della fede dogmatica del cattolicesimo romano, sancito dagli infallibili successori di Pietro! Per essere Madre di Dio e per accogliere nel suo seno il frutto dello Spirito Santo, all’eletta donna furono attribuiti due requisiti, l’uno, con riguardo alla purezza verginale (ancorché una madre non possa conservare lo stato verginale), l’altro, con riguardo alla purezza dal peccato originale (Maria, però, al pari di tutti i discendenti di Caino, non poteva essere immacolata). Nemmeno Cristo si riteneva immacolato, dato che decise di sottoporsi al rito del battesimo, anche se, durante il suo ministero, non battezzò nemmeno i suoi apostoli e tanto meno la sua famiglia. Questa, peraltro, non credeva in lui, nonostante i tanti segni divini testimoniati sin dalla sua nascita. Niente è impossibile alla fantasia della Chiesa! L’inspiegabile e l’incomprensibile, secondo l’umana ragione, sono materia di speculazione teologica, che sopperisce alle lacune della conoscenza umana con la fede nell’intelligenza di una causa prima, in forza della quale tutto giustifica e da cui tutto fa derivare, direttamente o indirettamente. Del resto, la storiografia cristiana sin dalle origini si è preoccupata non tanto di documentare l’obiettività storica quanto soprattutto di dimostrare, anche manipolando le informazioni, la sua verità teologica per legittimare la nuova fede ed il potere ideologico che ad essa fa capo.

Il potere taumaturgico del terapeuta Gesù è considerato un segno divino della sua missione salvifica tra gli uomini. Egli lo trasmette ai suoi apostoli ed ai santi (ma non anche il potere di sottrarsi al martirio). Il miracolismo di Gesù è praticato secondo un rituale magico e richiede la partecipazione emotiva del miracolato. Egli guarisce gli infermi utilizzando facoltà psicoterapiche, rimedi anodini, fenomeni paranormali come: telepatia, ipnosi, formule magiche, sospiri lamentosi, invocazioni di potenze divine, impasti di fango e saliva, imposizioni di mani, furori emozionali o semplici contatti. Insomma, eccitazione psichica e autosuggestione sono gli ingredienti che fanno lievitare i pretesi miracoli attribuitigli. Scaccia (verosimilmente mediante ipnoterapia) gli spiriti maligni dagli psicopatici e dagli epilettici, trasferendoli persino su animali incolpevoli, noncurante della loro sorte e del danno economico arrecato ai legittimi proprietari. Redime con sacre misteriose parole i peccati degli uomini. Li predispone, suggestionandoli, ad un’incondizionata fiducia psicologica nei suoi confronti. Suscita in loro l’entusiasmo necessario al compimento del presunto miracolo (“La tua fede ti ha guarito”). Non meno scalpore sollevava il miracolismo degli apostoli (At 2,43; 3, 1-10; 5,12). Persone malate o tormentate da spiriti immondi erano portate lungo la strada, dove passava Pietro, affinché fossero guariti dall’ombra del suo corpo (At 5,15-16). Paolo, colpito dalla grazia divina sulla via per Damasco (fu rapito fino al terzo cielo, dimora di Dio e dei beati, dove udì parole misteriose, ineffabili; cfr. 2 Co 12, 1-4), compiva prodigi e guarigioni con il tocco delle sue mani. Le religioni celesti (come quelle monoteistiche) collocano la sede delle superne divinità nella più elevata sfera celeste (la terza o la settima, a seconda della concezione cosmografica); quella degli spiriti maligni, invece, è posta nelle sottostanti regioni (Ef 2, 1-2; 6, 12). A Listra, in Licaonia (Asia Minore), Paolo guarì un paralitico (At 14, 8-18). Le turbe pagane, nel constatare il prodigio, scambiarono Paolo con il dio Ermete, apparso in forma umana (teofania). Le vesti di Paolo erano considerate miracolose, come pure qualsiasi oggetto da lui toccato (At 19,11-12). In verità, l’unico miracolo di cui Paolo andava predicando era quello della resurrezione di Cristo, senza la quale vana sarebbe stata la fede cristiana con o senza miracoli. La garanzia della resurrezione di Cristo la si fonda sulla fiducia dei tanti segni (miracoli, apparizioni, prodigi, ecc.) fatti da Gesù (cfr. Gv 20, 30-31), tramandati oralmente dai suoi discepoli e trascritti nei vangeli canonici e apocrifi in tempi successivi. I segni aumentano di quantità o di straordinarietà, a seconda che la redazione del vangelo sia più prossima o più lontana dall’epoca degli eventi. Di questi segni non ne parlano gli storici contemporanei, come Giusto da Tiberiade, Filone di Alessandria, Giuseppe Flavio, Plinio il Vecchio, ecc.; né vi è traccia nei Manoscritti ritrovati a Qumran. Gli anziani delle prime comunità cristiane erano adibiti sia all’unzione degli infermi, nella speranza di guarirli dalle afflizioni fisiche, sia alla rimessione dei loro peccati, previo ravvedimento (Gc 5,13-16). Anziani (presbiteri) e diaconi (preposti a servizi minori) erano abilitati dagli apostoli mediante il rito dell’imposizione delle mani (At 6,1-6). Anche i rivali di Gesù compivano miracoli (Mc 9, 38; Mt 12, 27; At 8, 9-25). Un certo Simone, che praticava l’arte magica, volle comprare da Pietro il potere di trasmettere i doni dello Spirito Santo, ma fu mandato in malora. Nel medioevo i re cristiani, presunti taumaturghi, guarivano i sudditi con il tocco delle loro mani, manifestando così di possedere divini poteri. Ai giorni nostri il miracolo è merce rara. Le preghiere (sacra medicina) per intercedere guarigioni miracolose per sé o per altri sono state surclassate dai rimedi terapeutici apportati dalla ricerca medico-scientifica. Quanto alle presunte apparizioni della Madonna, esse sono ad esclusivo privilegio di credenti analfabeti. Quanto alle presunte stimmate, non si hanno notizie prima delle rappresentazioni pittoriche della crocifissione (il primo stimmatizzato della storia fu Francesco di Assisi nel 1220). Quanto ai miracoli delle ostie sanguinanti, la scienza ha già spiegato l’arcano. Quanto al leggendario san Gennaro e al relativo miracolo dello scioglimento del sangue (o altra sostanza contenuta nella reliquia), per la prima volta documentato nel 1389, la Chiesa ne conserva il culto per tradizione (o divina ispirazione) e ad esclusivo beneficio della credulità popolare napoletana. Del resto, soprattutto nel medioevo, s’iniziò a trafficare su presunte, miracolose reliquie a beneficio dei santuari e della religiosità popolare.

Oltre a Simon Mago, ad Apollonio di Tiana ed agli esseni terapeuti, un personaggio con identiche capacità di Gesù, vissuto in Galilea nel I secolo, è Hanina Ben Dosa, rabbino taumaturgo, che operò guarigioni e miracoli simili a quelli di Gesù (come la moltiplicazione di pani e la guarigione a distanza), ma non ebbe proseliti. Guarigioni miracolose (certamente di carattere psico-somatico) avvenivano in Grecia nel santuario di Epidauro dedicato al dio Asclepio e a Roma nel santuario del dio Esculapio sull’isola Tiberina. Il filosofo neoplatonico Giamblico racconta che Pitagora realizzò nel corso della sua vita stupefacenti magie. Parlò con un fiume, che gli rispose salutandolo, come testimoniarono tutti i presenti. Parlò con un bue che provocava scompiglio nella popolazione, convincendolo a non mangiare le fave verdi. Traeva auspici e profezie dai segni provenienti dal cielo. Prevedeva terremoti, stornava pestilenze, sedava tempeste di vento e grandinate, placava le acque marine. Aveva il dono dell’ubiquità. Affermava di udire la musica delle sfere celesti e si serviva dell’incantesimo della musica e di una specifica alimentazione vegetariana per curare le malattie. Il filosofo Empedocle, profeta e taumaturgo, ritenendo di essere un dio incarnato, fermava i venti che distruggevano i raccolti e resuscitava i morti. Insegnava ai suoi discepoli l’arte magica e determinati rituali per eliminare i peccati. Da lui affluivano folle in cerca di guarigioni e di sapienza occulta. Buddha e i suoi missionari facevano sfoggio di poteri miracolosi. Maometto, secondo la tradizione islamica, operò miracoli. I cattolici implorano santi e madonne, affinché intercedano presso Dio a favore dei loro devoti. Dio, però, concede la grazia secondo il suo arbitrio. Triste spettacolo offrono presunti miracolosi santuari cristiani, affollati da masse di pellegrini curiosi e d’infermi disperati, che sperano di ottenere guarigioni. La loro fede, probabilmente, è ancora piccola come un chicco di senape.


Lucio Apulo Daunio



giovedì 7 aprile 2011

  1.          IL PRODIGIO DELLA PENTECOSTE




Sette settimane dopo la Pasqua ebraica, in una casa di Gerusalemme, sul finire del giorno della Pentecoste (non la festa cristiana, ma quella ebraica, che iniziava al calar del sole del giorno precedente e in cui si commemorava la teofania di Jahvè sul monte Sinai, dove fu incisa la legge mosaica su tavole di pietra), un improvviso rumore sconvolse i discepoli di Cristo, che stavano là riuniti (At 2, 1 seg.).

Apparvero lingue come di fuoco, che andavano a posarsi sulla testa degli astanti. Era lo Spirito Santo, altra ipostasi del Dio trino, invenzione del cristianesimo, che si faceva in quattro (anzi, in dodici) per elargire agli apostoli la divina sapienza (terzo mistero glorioso). Proveniva dal sommo dei cieli, da una dimensione a noi ignota, offrendo un saggio della sua infervorante potenza. Terminato lo spettacolo pirotecnico, tutti i presenti, acquisiti i santi lumi, potettero esprimersi in diverse lingue (xenoglossia o glossolalia che fosse, ogni invasato pronunciava parole che altri non capivano). Il frastuono, conseguente al prodigio, radunò nei pressi della casa una gran folla. Molti dei giudei provenienti da tutte le nazioni del mondo li udirono parlare nella propria lingua. Grande fu la meraviglia di tutti, impressionati dall’inusuale evento. Alcuni scettici beffeggiarono gli apostoli, supponendo di trovarsi di fronte a balordi ubriachi. Pietro, irritato dai ghigni di costoro, si alzò, assumendo un atteggiamento solenne, papale, levando alta la propria voce. Egli respinse il sospetto dell’ubriacatura, spiegando che erano le nove del mattino (l’antica ora terza). Giustificò il prodigio, citando passi delle Scritture, tratte dal libro del profeta Gioele, che profetizzò l’effusione dei doni dello Spirito agli eletti d’Israele all’epoca dell’avvento messianico. Proseguì la sua arringa alla folla, che si era radunata nei pressi, annunciando la “buona novella” di Gesù, il Nazareno: uomo accreditato da Dio presso il popolo eletto, con licenza di compiere prodigi, portenti e miracoli. Egli, uomo benemerito (essendosi prodigato a fare del bene e a sanare tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo, cfr. At 10, 38), è stato ucciso da empi senza legge. Dio, però, lo ha risuscitato, liberandolo dalle doglie della morte. Dal discorso di Pietro si evince che l’uomo Gesù, ancorché consacrato con la potenza di fuoco dello Spirito Santo, giunse alla dignità divina solamente dopo esser risorto dalla morte (ossia, in seguito all’invenzione dell’apoteosi cristiana). Tutti gli apostoli furono testimoni della sua risurrezione. Anche Stefano, (At 7, 55-56), altro suo pio discepolo, ricolmo di Spirito Santo, prima di essere lapidato dai giudei, lo vide risorto (cioè, ebbe un’allucinazione) alla destra dell’Altissimo, invisibile ai comuni mortali.

L’uomo Gesù, come appare nelle parole espresse da Pietro, è più confacente ad un uomo deificato, dunque differente da Dio, da cui ha ricevuto poteri divini. Quanto al supposto miracolo della resurrezione di Gesù, posto a fondamento del cristianesimo, resta comunque da dimostrare sia la storicità di un evento incredibile (che un organismo morto possa ritornare in vita) sia l’effettività della morte (la cessazione irreversibile delle funzioni vitali). Gesù, crocifisso nella mattinata di venerdì verso le ore nove, lo si dichiara morto verso le ore tre pomeridiane. Il che appare un’anomalia, posto che la pena della crocifissione durava diversi giorni prima che sopraggiungesse la morte. Tant’è che Pilato si meravigliò che Gesù fosse già morto (Mc 15,44). Non essendo tuttavia possibile in quei tempi accertare l’effettività della morte, Gesù sarebbe potuto essere in stato di sincope o di morte apparente, dalla quale sarebbe potuto ritornare in vita ed essere trafugato dalla tomba nelle notti di venerdì o di sabato. In tal caso, si dovrebbe parlare di risveglio, non di resurrezione, e le pretese apparizioni del Risorto (esclusivamente ai suoi fedeli) e la seguente ascensione nel regno dei cieli, in assenza di prove attendibili, sarebbero da considerare mere elaborazioni fideistiche. Quanto al dogma della divina Trinità, successivamente sancito con decreto conciliare dalla trionfante Chiesa, è da considerare quale epilogo di un laborioso e litigioso tentativo teso a conciliare il monoteismo ebraico con la presunta triplicità delle persone divine: Padre, Figlio e Spirito Santo, aventi unica natura divina (il triteismo, che sosteneva non l’unità, ma la triplicità delle nature divine, fu condannato come eresia). Quanto alla pericope relativa alla celebrazione del battesimo nel nome della Trinità (come riportato in Mt 28, 19), si ritiene che sia un’interpolazione posteriore all’originaria stesura del vangelo. Ebrei e musulmani, a differenza dei cristiani, non hanno deificato, gli uni Mosè, gli altri Maometto, né tanto meno hanno concepito un Dio trino, sebbene si ostinano a credere, come i cristiani, che i loro sacri testi siano stati scritti su divina ispirazione o, addirittura, siano la diretta parola (incartata) di Dio trasmessa a Maometto tramite l'arcangelo Gabriele.

Paolo, accecato dalla fede sulla via di Damasco, dove fu permeato di astruserie soprannaturali, nelle epistole a lui (o alla sua “scuola”) attribuite, attesta (senza dimostrare) che Dio è unico e che unico è l’uomo messianico Gesù, mediatore tra Dio e gli uomini (1 Tm 2, 5). Dichiara inoltre che se empi giudei, senza legge, hanno fatto uccidere Gesù, ciò è accaduto per volere di Dio (non si muove foglia, che Dio non voglia!). Sempre per volere divino, Gesù poté risorgere dopo tre giorni dalle doglie della morte. Pietro e gli altri apostoli ne sono stati testimoni. Al profeta Davide, Dio aveva solennemente giurato che il suo trono non sarebbe rimasto vacante. Un nuovo re dei giudei (l’atteso Messia) avrebbe perpetrato la sua regale discendenza. L’eredità davidica, infatti, parola di Paolo, l’ha ereditata il Messia Gesù, che Dio ha risuscitato. Anche Paolo, quindi, attribuisce a Dio, non a Gesù, il potere di risorgere dalla morte. Di contrario avviso è l’evangelista Giovanni, secondo il quale Gesù aveva dichiarato che era in suo potere, in forza del comando ricevuto dal Padre, di rimetterci la vita e di riprendersela di nuovo (Gv 10, 17-18; 11. 25). Il Padre lo amava, perché il Figlio ubbidiva in tutto e per tutto e agiva all’unisono con lui (Gv 10, 30). Ed è stato santificato dal Padre in considerazione del sacrificio da lui onorato, essendo figlio suo ubbidiente, invasato di Spirito Santo. Tale onore Gesù ha poi voluto effondere anche ai suoi fedelissimi, divinizzandoli, sia pure ad un grado inferiore al suo.

Le parole pronunciate da Pietro in quel giorno di Pentecoste, dopo il prodigio dell’effusione dello Spirito Santo, resero i giudei sbalorditi e perplessi. Pietro ne approfittò per incitarli alla conversione, esortandoli al pentimento, invitandoli a ricevere il battesimo purificatore nel nome di Gesù (non della Trinità prossima ventura). Questi, parola di Pietro, è stato costituito Signore e Messia da Dio stesso. Del resto, secondo Pietro, chi se non Gesù, Signore e Messia, li avrebbe potuti salvare dalla generazione perversa in mezzo alla quale vivevano? Molti giudei credettero alle parole di Pietro e si sottoposero al sacro rito battesimale, illudendosi di ricevere i lumi dello Spirito Santo e diventare “ipso facto” simili a Dio. In quel giorno di Pentecoste, quasi tremila persone furono accolte nello sparuto gruppo (appena centoventi fedeli) dei credenti nel Signore, il Messia Gesù. In un’altra occasione, il discorso predicatorio di Pietro fruttò alla comunità più di cinquemila proseliti, contando solo gli uomini. Tutti gli apostoli, pregni di Spirito Santo, manifestavano segni della potenza divina, profetando e prodigando a iosa miracoli, guarigioni d’infermi e altri prodigi (rari ai giorni nostri). In quei tempi fecondi per lo spirito acritico, folle di fedeli si convertivano alla nuova fede, secondo gli evangelisti.

Lo schiamazzo provocato dalla discesa dello Spirito Santo sugli apostoli non fu una novità. Questa terza manifestazione del dio cristiano aveva già irrorato di lumi il feto di Giovanni Battista, che sobbalzò nel seno di sua madre, appena questa vide Maria, prossima ad essere divinizzata quale Madonna, sempre vergine, Madre di Dio (Lc 1, 15. 41). Il padre del Battista, Zaccaria, fu anch’egli ricolmo di Spirito, tanto che gli si sciolse la lingua e profetò a suon di rime (Lc 1, 67). L’illetterato Pietro poté affrontare con coraggio il Sinedrio in virtù del carisma della parola, dono dello Spirito (At 4, 8. 13). Durante la preghiera degli apostoli, lo Spirito era sempre con loro e manifestava la sua presenza mediante scosse telluriche (At 4, 31). Chi sa se anche gli attuali sussulti terrestri attestino la presenza dello Spirito sul colle Vaticano. Persino sui pagani convertiti, con gran meraviglia dei giudei, si effuse lo Spirito, ed essi parlavano in diverse lingue, magnificando Dio (At 10, 44-48). Paolo anche, abbagliato dalla divina apparizione sulla via di Damasco, cambiò opinione sui nazareni in forza dei lumi effusi dallo Spirito (At 9, 18), di cui fu poi sempre ricolmo (At 13, 9) ed a causa dei quali se le prese di santa ragione durante le sue peregrinazioni missionarie, nonostante si vantasse di aver ricevuto da Gesù la facoltà di operare miracoli (Rm 15, 17-19; 1 Co 12, 7-11.28). Paolo, senza bisogno di consultare gli apostoli (Ga 1, 15-17), elaborò un suo “vangelo”, allontanandosi dal giudaismo. In Antiochia si prodigò assieme a Barnaba nell’evangelizzazione dei “greci”, fondando la prima chiesa di neofiti pagani, che assunsero per la prima volta il nome di “cristiani” (At 2, 41. 47 e 4, 4 e 5, 14 e 11, 19-26). Ad Antiochia ebbe inizio, per opera di Paolo, il cristianesimo ellenizzato (adattato ai costumi dei “gentili”), distinto da quello prettamente ebraico della Chiesa di Gerusalemme, la comunità dei nazareni guidata prima da Pietro e poi da Giacomo, il Giusto, fratello del Signore, martirizzato nel 62.

Di diverso avviso (manco a dirlo!) è l’evangelista Giovanni (Gv 20, 19-23), che fa risalire l’effusione dello Spirito sugli apostoli il giorno stesso della risurrezione di Gesù. Egli, dopo la sua glorificazione, apparve alla presenza dei discepoli mentre stavano riuniti nel cenacolo, effondendo su di loro lo Spirito Santo (cioè i lumi per comprendere i misteri divini), senza scatenare quel putiferio di cui parlano gli Atti, donando loro nuova vita allo stesso modo in cui Jahvè, soffiando il suo vivificante e potente alito, donò la vita al primo uomo (cfr. Gn 2, 7). In verità, Gesù aveva promesso agli apostoli che avrebbe pregato il Padre affinché nel giorno della sua dipartita lo sostituisse con un altro Paraclito: lo Spirito di verità (Gv 14, 16- 17). L’evangelista Matteo, invece, sostiene che Gesù risorto asserì agli apostoli che sarebbe restato con loro tutti i giorni, sino alla fine del mondo. Nulla dice circa la sostituzione di Gesù con un altro Paraclito (Mt 28, 20). Non c’è da stupirsi se tra paracliti, uomini deificati e ipostasi divine, il mistero cristiano si infittisca sempre più.

Gesù, quando era un uomo vivo e vegeto, avvertì i “suoi” che non l’avrebbero avuto per sempre, come avevano i poveri continuamente tra i piedi (Mt 26, 11). Costoro, parola di Dio, non mancheranno mai sulla faccia della terra (Dt 15, 11). Per lui, invece, era arrivato il momento di tornare dal Padre. Dopo la sua dipartita, non l’avrebbero più rivisto (Gv 16,10). In verità, apparve loro risorto, prima d’involarsi nei cieli. Al suo posto, il Padre avrebbe mandato un “alter ego”, il Paraclito, lo Spirito di verità (Gv 14, 16-17, 16, 5-7), che li avrebbe soccorsi nell’aspra lotta contro il Maligno, il Falso, satanico caprone degli inferi, principe di questo mondo (Gv 12, 31), Male assoluto, contrapposto a colui che è il Vero, Bene assoluto (1 Gv 5, 19-20). Il Paraclito, Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio, secondo la professione di fede niceno-costantinopolitana, ha il compito di rendere testimonianza a Cristo (Gv 15, 26), venuto nel mondo a purificarci con l’acqua benedetta e a riscattarci col suo prezioso sangue (1 Gv 5, 5-12). E’ questa un’antica mitica idea, secondo la quale una divinità redentrice discende dall’alto dei cieli, riconciliandosi con gli uomini, purificandoli dai peccati, versando per loro il proprio sangue tramite un sacrificio. Tre sono, secondo la dottrina ecclesiastica, le persone divine, che si rendono testimonianza tra loro: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (omne trinum est perfectum). Il dogma trinitario, formulato nel IV secolo in due Concili della Chiesa (ma ignoto agli autori dei Vangeli e allo stesso Paolo), è stato imposto ai credenti come verità di fede. In seguito alla vittoria della tesi trinitaria, pretesa ortodossa, sono state espunte le altre dottrine trinitarie, giudicate eretiche (come il modalismo, secondo il quale il Figlio è una forma apparente del Padre, o la dottrina monarchiana, secondo la quale Padre e Figlio sono una sola persona). Secondo la tesi trinitaria ortodossa delle Chiese occidentali, la natura di Dio è unica e nell’unità del suo essere sono comprese tre persone (affermazione della “homousìa”, in altre parole, della consustanzialità delle tre divine ipostasi). Ogni divina persona procede dall’altra (lo Spirito Santo dal Figlio e questi dal Padre). E’ un mistero, questo, che l’umana ragione non può comprendere, ma solo accettare in base alla fede e alla “auctoritas” della Chiesa, per mezzo della quale si rivelerebbero i lumi di Dio, essere trascendente. Secondo l’incomprensibile dottrina giovannea (Gv 10, 30.38 e 12, 45 e 14, 10.28), il Figlio è identico al Padre, ma il Padre (Gv 3, 16. 18)  è più grande del Figlio che ha generato (forse un “primus inter pares”) e che ha inviato sulla terra come uomo (Gv 1, 14), per rivelarci un dio che nessuno ha mai visto (Gv 1,18). In verità, lo vide Isaia con i suoi occhi (Is 6, 5) e Giacobbe faccia a faccia, al quale Elohim mutò il nome in Israele (Gn 32, 31; 35, 9). Jahvè parlava faccia a faccia anche con Mosè (Es 33, 11). Rivelò al popolo eletto che lui era l’unico Dio e che all’infuori di lui non ce n’erano altri, né in cielo né sulla terra (Dt 4, 35) né assieme con lui (Dt 32, 39). Uno solo egli era, da temere, da servire e giurare nel suo nome; tradire mai, perché non sopportava l’infedeltà (Dt 6, 4. 13. 14). Egli, dunque, non ha generato figli né spiriti da inviare in missione tra gli uomini: né l’Unigenito né il Paraclito. Più chiaro di così non poteva esser detto. I cristiani, invece, dopo aver divinizzato il loro Maestro (evemerismo), hanno concepito il Dio trino, rompendosi la testa in discussioni “de lana caprina”, allo scopo di poter conciliare la loro dottrina trinitaria con il monoteismo mosaico. Il mistero della Trinità, generato dalla speculazione teologica cristiana, adultera in ogni caso l’unicità di Dio. Il cielo ci liberi dalla protervia di presuntuosi spacciatori di paranoiche mistificazioni atte ad alluzzare i polli!

La religione, in quanto si risolve nella credenza in una verità di fede, assunta indipendentemente dalla riflessione critica e per di più in assenza di prove certe, è un surrogato di conoscenza, non vera e propria conoscenza, essendo questa conseguibile mediante la scoperta di una verità di ragione o mediante un'empirica constatazione di esistenza. E’ contraddittorio assumere come verità storica una verità di fede, relativa alla divinità di un uomo di nome Gesù, morto, risorto e assunto in cielo, preteso figlio incarnato di Dio (ed egli stesso Dio), avente in sé due opposte nature, umana e divina. Un’affermazione di fede, che non sia un’assurdità, ancorché sia contenuta nei limiti del ragionevole, non potrà mai essere di assoluta evidenza. La Fede, in quanto dettata dal sentimento, ha una verità esclusivamente soggettiva. La supposta relazione tra una divinità e l’umana gente non è verità storica, ma assunto di fede indimostrabile. Il dono della fede non è il dono dell’evidenza storica. La fede, del resto, implica il dubbio, non l’assoluta certezza, perciò non può rendere evidente ciò che non è tale, né può rendere visibile ciò che non lo è, né può rendere manifesto ciò che non è oggetto di esperienza. La fede non è garanzia delle cose che si sperano, ma non si vedono, né dimostrazione della loro presunta reale esistenza (contrariamente a Eb 11, 1). Credere fermamente, senza esitare né dubitare, che esistano entità spirituali soprannaturali, rivelate dall’autorevolezza di Sacre Scritture, redatte da autori sconosciuti, sprovviste di prove certe e dimostrazioni razionali, proclamate veritiere da istituzioni religiose in base alla convinzione che siano ispirate da Dio, è un modo circolare di ragionare tipico della petizione di principio (errore logico in un discorso, che consiste nell’includere nelle premesse l’affermazione che la conclusione sia vera). Le convinzioni fideistiche, in quanto desunte da una realtà immaginifica, se spinte fino al parossismo, sconfinano irrimediabilmente nel fondamentalismo e possono degenerare nel fanatismo. L’oggettività della conoscenza ha il suo massimo grado di affidabilità nella conoscenza scientifica. Le dotte elaborazioni teologiche del cristianesimo, ancorché siano travestite di razionalità, in quanto fondate sulla credenza della (presunta e insondabile) Rivelazione misterica, hanno quasi nulla in comune con la rigorosa metodica della ricerca scientifica.

              Lucio Apulo Daunio


martedì 5 aprile 2011


IL CALENDARIO E LE FESTIVITA’
NELL’ANTICA ROMA


PARTE PRIMA


IL CALENDARIO DI ROMA ANTICA


Il termine “Fasti” indicava il calendario romano. Era predisposto dal Pontefice Massimo e serviva a regolare la vita dei cittadini durante l’anno. Il conteggio degli anni partiva dalla fondazione di Roma (ab Urbe condita, anno 753 a.C.). Il calendario trae origine dalla parola latina “kalendae”, primo giorno di ogni mese, nel quale si bandivano al popolo romano convocato in assemblea le feste, i giuochi, i giorni fasti (leciti per svolgere attività pubblica e amministrare la giustizia, non essendoci impedimenti di carattere religioso) e nefasti (quelli a carattere espiatorio, dedicati alla religione), che ricorrevano durante il mese.

Il libro calendario conteneva tutte le notizie astronomiche, agrarie e religiose di ciascun mese e anche la deità sotto la cui protezione era posto il mese. In origine, il calendario era lunare (il mese lunare è il periodo di tempo che inizia dalla Luna nuova, periodo di invisibilità, e termina con il ritorno della Luna nuova). In ciascun mese si indicavano le None (primo quarto) e le Idi (luna piena). Le None e le Idi cadevano, nei mesi di 30 giorni, il 5 e il 13; mentre, nei mesi di 31 giorni (marzo, maggio, luglio e ottobre), cadevano nei giorni 9 e 15. Le None erano il giorno del mese che cadeva nove giorni prima delle Idi (i Romani contavano sia il giorno in cui si cominciava a contare sia quello in cui finiva il conto). Le Calende e le Idi erano sempre dies festi (consacrati a una divinità). Le Idi erano dedicate a Giove, le Calende (primo giorno del mese) a Giunone. Le None a nessun dio erano sacre. Il giorno successivo alle Calende, alle None e alle Idi era considerato giorno sfortunato (dies ater, cioè nero, che era il colore con cui si rappresentavano i giorni infausti). Maledetti erano anche i dies religiosi o vitiosi (giorni ritenuti superstiziosi in ricordo di gravi calamità). Il giorno a Roma era diviso in due parti: dodici ore prima e dodici ore dopo mezzogiorno. Il passaggio del sole al mezzogiorno era segnalato da un addetto e annunciato al popolo nel foro. Il giorno si misurava dalla mezzanotte alla mezzanotte successiva. Nell’uso militare, la notte (dal calar del sole all’alba) era divisa in quattro vigilie (turno di guardia), ciascuna di tre ore. Nundinum era il periodo di tempo di nove giorni. Ogni nove giorni a Roma si teneva il mercato. La settimana di sette giorni, con i nomi dei pianeti allora noti (Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno, Sole), entrò in uso a Roma soltanto molto tardi, sotto l’influsso del Cristianesimo (ufficialmente nel IV sec. d.C.). Il giorno del Sole (dies Solis) divenne la domenica, giorno dedicato al Signore (dies Dominicus).

L’anno romano, diviso da Romolo in dieci mesi, iniziava con Martius (dedicato a Marte, dio della guerra) e proseguiva con Aprilis (dall’aprirsi dei germogli delle piante, era il mese dedicato a Venere), Maius (dedicato a Maia, madre di Mercurio; o ai maggiori, i romani adulti), Junius (dedicato a Giunone; o ai minori, i giovani atti alle armi), Quintilis (quinto mese, poi mutato in Julius, in onore di Giulio Cesare, nel 44 a.C.), Sextilis (sesto, poi mutato in Augustus, in onore di Ottaviano Augusto, nell’8 a.C.), September (settimo mese), October (ottavo mese), November (nono mese), December (decimo mese). I mesi di Jannuarius (dedicato a Janus, Giano) e Februarius (riservato al sacrificio di espiazione, Februa, per le anime dei morti) furono aggiunti da Numa Pompilio, come undicesimo e dodicesimo mese. Per conciliare l’anno lunare di dodici mesi con quello solare, si procedeva a intercalare ogni due anni un mese, c.d. Mercedonius. Con la riforma del calendario giuliano, si adottò l’anno solare di 365 giorni, aggiungendo, ogni quattro anni, un giorno nel mese di febbraio per recuperare le sei ore mancanti. Gennaio, consacrato ai lavori agricoli, divenne il primo mese dell’anno che iniziava a crescere con il crescere delle ore solari dopo il solstizio d’inverno. Alle Calende di gennaio i Romani si scambiavano auguri e doni (strenne).

La religione politeista romana consisteva nel culto degli dei, in onore dei quali si celebravano feste religiose pubbliche (feriae) in date fisse (feriae statae) o mobili (feriae conceptivae). Queste ultime erano fissate di anno in anno dai pontefici o dai magistrati. Le feriae (tempo sacro riservato al culto degli dei) si dividevano in publicae e privatae. Queste ultime riguardavano le grandi famiglie patrizie. Fas indicava la manifestazione della volontà divina, che rendeva lecito o non lecito (cioè nefas) un determinato comportamento. Ius era il diritto umano, profano, distinto dal diritto divino, sacro. Feriae erano i dies festi, consacrati per l’intero giorno al culto di una divinità e all’ozio (detti “nefasti”, perché connessi, per un verso, al divieto di compiere attività umane, per un alto verso, al dovere di compiere atti prescritti dalla religione per non incorrere nell’ira delle divinità), distinti dai dies profesti, cioè i giorni concessi agli uomini per trattare gli affari pubblici e privati (perciò detti “fasti”, cioè leciti, non vietati da impedimenti religiosi). I flamines erano quindici sacerdoti addetti al culto di una divinità, suddivisi in maiores, tratti dalle famiglie patrizie, e minores, tratti dalla plebe. I maiores erano il flamen Dialis, il più insigne, (sacerdote di Giove), il flamen Martialis (sacerdote di Marte) e il flamen Quirinalis (sacerdote di Quirino). Questi massimi sacerdoti erano obbligati a seguire determinate regole e comportamenti e avevano come segni distintivi: un littore (che lo precedeva portando un fascio); la sella curulis (sedile pieghevole, ornato d’avorio, simbolo di potere); la toga praetexta (veste bordata di rosso). La gestione dei riti religiosi era affidata al collegio dei pontefici con a capo il Pontefice massimo. I sacerdoti sacris faciundis erano adibiti alla divinazione e all’interpretazione dei Libri Sibillini. All’interpretazione degli auspici provvedeva il collegio degli Auguri. I sacrifici rituali di esseri animati (hostiae o victimae) della religione politeista romana erano finalizzati a preservare la pax deorum (intesa come pace con gli dei). Il rito del sacrificio, eseguito scrupolosamente secondo regole minuziose, rafforzava la potenza divina, predisponendola alla benevolenza verso le vicende umane. L’offerta del sangue delle vittime sacrificali era ritenuta sommamente gradita agli dei.

I Ludi pubblici, consistenti in giochi e spettacoli, erano feste di ringraziamento celebrate in onore di singoli dei, secondo date predisposte o stabilite di volta in volta per adempiere un voto o in occasione di straordinarie circostanze. I Ludi pubblici si distinguevano in circensi (che si tenevano nel circo), gladiatori (nell’anfiteatro), scenici (nel teatro). Erano preceduti da una solenne processione e da offerte rituali agli dei. Tra i più importanti: i Ludi Apollinari, i Ludi Capitolini (consistenti in spettacoli ginnici e musicali in onore di Giove), i Ludi Floreali (festa di primavera in onore di Flora), i Ludi Magni, poi Romani (erano feste patrizie), i Ludi Plebei, i Ludi Megalesi (in onore della Magna Mater), i Ludi Secolari, ecc.



PARTE SECONDA


I GIORNI FESTIVI DELL’ANNO ROMANO
(Si riportano, mese per mese, le principali festività romane)

GENNAIO (Ianuarius) prende il nome da Giano (Janus), antico dio italico, re del Lazio, vissuto nell’età dell’oro e collegato a una funzione iniziale, cioè agli inizi del tempo e di ogni cosa. Gli si offrivano farro e focaccia mischiata con il sale.

Alle Calende era la festa di Esculapio, dio della salute. Alle None, la festa di Vica Pota, dea della vittoria.

AGONALIA: erano feste celebrate più volte nel corso dell’anno per propiziarsi Giano, sposo della ninfa Giuturna, da cui ebbe il figlio Fons, dio delle sorgenti. Dio dell’inizio di ogni cosa, Giano imponeva il nome al primo mese dell’anno. Dio del passaggio, custodiva le porte di casa (ianua), in entrata e in uscita, perciò fu immaginato con una doppia faccia (Giano bifronte). In tempo di guerra la duplice porta del suo tempio era sempre aperta per accogliere il soccorso del dio e il ritorno del popolo andato alla guerra; si chiudeva soltanto in tempo di pace, affinché essa non ne uscisse. La festa iniziava con l’offerta al dio del sacrificio di un ariete. Il sacerdote (rex sacrorum), prima di sgozzare la vittima, diceva “Agone”, cioè “Uccido” (da cui deriva il termine agonalia). La festa proseguiva con le competizioni sportive in suo onore. Si celebrava più volte nel corso dell’anno: al 9 gennaio, al 17 marzo, al 21 maggio, all’11 dicembre. In quella di marzo, in cui si preparavano le campagne militari, la festa era dedicata al dio della guerra Marte.

CARMENTALIA: si celebravano l’11 e il 15 gennaio in onore della ninfa Carmenta, divinità delle fonti (era una delle Camene, ninfe delle sorgenti), avente facoltà profetica (da carmen, canto magico-rituale; o da carere = essere privo e mentem = mente, quindi priva di senno a causa dei deliri provocati dall’invasamento divino). A lei si attribuivano gli epiteti cultuali di Antevorta (che conosce il passato) e Postvorta (che conosce il futuro). Era protettrice dalle partorienti (perché connessa con il passaggio a una nuova condizione), quindi connessa con Giano (essendo ogni nascita un inizio), il cui tempio era posto di fronte alla porta Carmentalis.

FESTUM CONCORDIA: festa della dea Concordia il 16 gennaio e il 30 marzo

LUDI PALATINI: festa mobile in onore di Giove Laziale. Si celebrava tra il 22 e il 24 gennaio, mediante corse di cavalli, giochi vari (ludi circensi) e rappresentazioni teatrali (ludi scenici). Caligola – racconta Flavio Giuseppe in “Antichità giudaiche” IXX - fu assassinato durante lo svolgimento dei Ludi Palatini.

PAGANALIA: festa plebea, prima mobile, poi fissa, si celebrava il 24 gennaio, consistente in riti di purificazione eseguiti nei singoli villaggi (pagi) in onore della dea dei contadini Empanda.

SEMENTIVAE: festa mobile, poi fissata il 25 gennaio, celebrava la fine della stagione delle semine e l’inizio di ciò che nasceva dalla terra. Dedicata a Cerere, dea dell’agricoltura, e a Tellus, la Madre Terra, cui si chiedeva di avere abbondante raccolto.

DEDICATIO AEDIS CASTORUM: il 27 gennaio si rievocava la “dedicatio” del tempio ai Dioscuri, i gemelli Castore e Polluce.

ARA PACIS AUGUSTAE: festa della dedicazione dell’Ara Pacis di Augusto.


FEBBRAIO (Februarius) mese dedicato al dio Februus e alla dea Febris, venerati perché allontanassero la malattia. Februum era tutto ciò che servisse a placare e purificare. Februare significava purgare, rendere puro, depurare. Februalia era il sacrificio di espiazione che si faceva alla fine di ogni anno (che iniziava a marzo). Le cose che si adoperavano nelle cerimonie espiatorie atte a purificare erano dette februa.

Alle Calende si festeggiava la dedicazione del tempio a Iuno Sospita, Mater Regina (Giunone Salvatrice, Madre e Regina). Alle None era la festa di Augustus, Pater Patriae.

FORNACALIA: era una festa mobile, istituita da Numa e dedicata alla dea Fornace, custode del buon andamento del forno per cuocere il pane di farro. L’antica cerimonia nuziale della confarreatio prendeva il nome dal farro, poiché era caratterizzata dalla spartizione tra gli sposi di una focaccia di farro. Con questa farina e sale si preparava la mola salsa, indispensabile per i sacrifici (da cui la parola “immolare”). I cittadini romani, che per negligenza non avevano offerto il sacrificio durante la festa, erano tenuti a compierlo durante la festa dei Quirinalia, il 17 febbraio, che perciò veniva anche chiamata festa degli smemorati (feriae stultorum).

PARENTALIA o FERALIA: cerimonie di nove giorni (13-21 febbraio) in onore dei parenti defunti. L’ultimo giorno si festeggiavano i Feralia: pubblica cerimonia con offerte e sacrifici ai Mani (anime dei defunti). Vigeva l’usanza di portare (lat. ferre) offerte rituali ai parenti morti (inferi) per onorarli o per placare i loro spiriti. Si credeva, infatti, che in quel giorno le anime cattive dei morti (larve) vagassero tra i vivi come spettri.  Il giorno seguente i Feralia, i parenti dei defunti si radunavano per celebrare con un banchetto la festa dei Caristia, cioè dei cari parenti. Lemuri erano le ombre dei morti, distinte in buone (Lari o Mani) e cattive (larve).

LUPERCALIA: festa del 15 febbraio in onore di Luperco (nome del dio Fano, difensore delle greggi contro il lupo, confuso poi con il dio Pan dei Greci). Dalle capre sacrificate i sacerdoti (Luperci) tagliavano strisce di pelle (februa) con cui purificavano tutto ciò che toccavano, mentre correvano nudi intorno al colle Palatino, sferzando il suolo per favorirne la fertilità e le donne maritate per propiziarne la fecondità.

QUIRINALIA: festa del 17 febbraio dedicata al dio Quirino, che aveva un tempio sul colle Quirinale. Quirino era un soprannome di Marte, che fu associato a Romolo, divinizzato dopo la sua morte, avvenuta in circostanze misteriose (scomparve improvvisamente durante una rassegna militare, perciò si volle assunto fra gli dei, denominandolo Quirino, figlio di Marte). Il flamen Quirinalis era il sacerdote addetto al culto di Quirino, cui offriva sacrifici e ungeva le sue armi.

TERMINALIA: festa del 23 febbraio, termine dell’antico anno, che iniziava a marzo. La festa era dedicata al dio Terminus, custode dei confini delle proprietà delimitate da pietre terminali e dell’inviolabilità del territorio romano. I limiti dei campi erano sacri e le pietre terminali si piantavano con particolari cerimonie religiose. Durante la festa i proprietari dei campi confinanti si radunavano intorno alla pietra terminale, incoronandola e presentando offerte rituali; dopo si banchettava allegramente assieme.

MERCEDONIUS: festa dei lavoratori liberi, celebrata negli anni bisestili. Ogni due anni, tra il 23 e il 24 febbraio s’intercalava un tredicesimo mese “mercedonius mensis” per conciliare l’annualità lunare con quella solare. “Mercedonius” o “mese della retribuzione” era la parte dell’anno in cui si pagavano i lavoratori liberi.

REGIFUGIUM: cerimonia del 24 febbraio in ricordo della mitica cacciata del re Tarquinio il Superbo e dell’inizio della repubblica (24 febbraio dell'anno 509 ante era volgare). La cerimonia si svolgeva nella pubblica assemblea, dove il rex sacrorum, compiuto il sacrificio, prestamente fuggiva, sospendendo la sua carica fino alle calende di marzo.

EQUIRIA: feste dedicate a Marte Gradivo (che entra in battaglia). Si celebrava il 27 febbraio e nei primi giorni di marzo. Consisteva in gare di corse di cavalli da guerra (equi) nel Campo Marzio.


MARZO (Mars) prende il nome dal dio della guerra Marte. I giorni 9 e 17 la confraternita dei Salii (sacerdoti guerrieri di Marte) portavano in processione per la città dodici scudi (ancilia), intonando il carmen saliare ed eseguendo una danza a tre tempi (tripudium).

MATRONALIA: si celebrava il primo marzo in onore di Giunone Lucina (dea dei parti), tutrice del genere femminile e del matrimonio. Le matrone si recavano al tempio della dea sul colle Esquilino per fare voti per la felicità dei matrimoni e offerte di mazzi di fiori.

FESTUM VESTAE: il primo marzo di ogni anno si rinnovava il fuoco nel santuario della dea vergine Vesta, protettrice del focolare domestico e del fuoco. Era venerata in ogni casa insieme ai Lari (spiriti protettori degli antenati defunti) e ai Penati (spiriti protettori della famiglia e della casa), raffigurati in statuette (sigilla) collocate in una nicchia (larario) nell’atrio della casa. Durante l’anno le vestali, sacerdotesse consacrate al culto di Vesta, mantenevano sempre vivo il fuoco nel suo tempio.

EQUIRIA (seconda): festa in onore di Marte, celebrata il giorno 14 nel Campo di Marte.

FESTA DI ANNA PERENNA alle idi (15) di marzo, in onore della dea che presiedeva al corso dell’anno. La celebrazione avveniva nel Campo Marzio con banchetti, allegri giochi, ubriacature. Alla dea si chiedevano vita lunga, felicità, salute, abbondanti raccolti.

BACCANALIA: si celebrava il 17 marzo, in onore di Bacco. Era un culto misterico che si svolgeva di notte, improntato a libertà sessuale e sfrenatezza. Furono in parte sostituiti dai Liberalia.

LIBERALIA: festa in onore di Libero (antico dio della fertilità e del vino) e di Libera (sua paredra). Si celebrava la maturità virile dei ragazzi, cui era consegnata la toga virile.

QUINQUATRIE MAIORES: festeggiamenti, dal 19 al 23, in onore di Minerva, dea saggia, protettrice di tutte le professioni e di tutte le arti. Erano giorni di vacanza scolastica. Gli studenti consegnavano ai loro maestri la retribuzione (minerval) per la scuola.

TUBILUSTRIUM: il 23 si consacravano le trombe, strumenti musicali sacri a Minerva.

FESTUM MAGNAE MATRIS ET ATTIS: dal 22 al 27 si festeggiava la dea frigia Cibele, detta Grande Madre, e il suo compagno Attis, morto di morte violenta. Il culto, di natura misterica, fu importato a Roma insieme ai sacerdoti della dea (c.d. Galli) durante le guerre puniche per allontanare il pericolo costituito da Annibale. Il culto frigio, originariamente cruento e orgiastico, consisteva in una corsa dei sacerdoti per le vie di Roma, accompagnati da una strepitosa musica, e nella raccolta di offerte in denaro per il servizio religioso.


APRILE (Aprilis) mese dedicato a Venere (Afrodite), dea della primavera e della natura fiorente.

VENERALIA: festa delle Calende in onore di Venere Verticordia (che apre i cuori) e della Fortuna Virile (apportatrice di felicità per gli uomini).

MEGALESIA: dal 4 al 10 era la festa delle donne patrizie, dedicata alla dea Cibele. Si svolgevano ludi circensi e scenici.

CEREALIA: dal 12 al 19 aprile era la festa delle donne plebee, dedicata a Cerere (Demetra), dea dell’agricoltura e dei frutti che la terra produce. Si svolgevano ludi circensi, ai quali gli spettatori assistevano vestiti di bianco. Le donne, biancovestite, reggendo una torcia, vagavano per la città in ricordo di Cerere, che andava in ricerca della figlia Proserpina rapita da Plutone.

FESTA DELLA FORTUNA PRIMIGENIA: il giorno 11 si festeggiava a Preneste la Fors Fortuna (Tyche), la dea del caso, del destino, della prosperità, della felicità. Era detta Primigenia, perché a ognuno determinava il destino fin dalla nascita. A Roma si festeggiava il 25 maggio (Fortuna pubblica), il 24 giugno (For Fortuna), il 7 luglio (Fortuna muliebre), il 27 settembre (Fortuna reduce).

FORDICIDIA: il giorno 15, festa in onore della dea Tellus (Gea, la Terra), cui si sacrificavano trenta vacche gravide sulla rocca capitolina per propiziare la fertilità della terra.

PALILIA: il giorno 21 (data della fondazione di Roma), festa campestre dei pastori per invocare alla dea Pale la protezione delle greggi. I pastori purificavano se stessi e il loro gregge accendendo fuochi di paglia sui quali passavano, saltando, con gli animali. Si festeggiava anche il giorno anniversario della fondazione di Roma sul colle Palatino.

VINALIA: il 23 si festeggiavano i Vinalia urbana o priora (i Vinalia rustica si celebravano il 19 agosto, giorno in cui sì iniziava la vendemmia). In questa occasione si aprivano i recipienti di vino e si assaggiava il vino nuovo. Prima dell’assaggio si offrivano libagioni a Giove.

ROBIGALIA: il 25 aprile s’invocava Robigus, il dio della ruggine, perché proteggesse le coltivazioni dal flagello detto “ruggine del grano”. Le offerte al dio erano fatte dal flamen Quirinalis.

FLORALIA: feste dal 28 aprile al 3 maggio in onore della dea Flora, simbolo della primavera. Al suo culto era consacrato il flamen floralis. Il popolo si abbandonava ai tripudi e ai piaceri più licenziosi e sfrenati. Si allestivano giochi circensi e si eseguivano ludi scenici, dove le attrici di mimo si denudavano tra gli schiamazzi del pubblico.


MAGGIO (Maius) mese dedicato al culto della dea Maia, madre di Mercurio (o dedicato ai majores, i Romani adulti).

CALENDE DI MAGGIO: si festeggiava Maia, antica dea italica, moglie di Vulcano, confusa con la dea Maia greca, con Bona Dea e con altre deità femminili. Il primo maggio il flamen Vulvanis le sacrificava una porca gravida.

LARALIA: alle Calende, festa di carattere familiare in onore dei Lari, spiriti benigni degli antenati, protettori della casa, spesso confusi con i Penati, divinità protettrici della famiglia e dello Stato. Le immagini di Lari e Penati erano custodite in un Lararium (tabernacolo) presso il focolare domestico. I Lari erano strettamente legati alla casa e non la abbandonavano mai. Se la famiglia si trasferiva, si portava appresso i Penati, non i Lari.

LEMURIA: festa celebrata nei giorni 9, 11 e 13 in onore degli spiriti dei defunti. I Lemuri erano identificati con le Larvae o Maniae, spiriti maligni dei morti, che furono in vita uomini malvagi. Le Larve o Mani erano l’opposto dei Lari ed erano immaginati come spettri spaventosi, che vagavano alla ricerca delle loro antiche dimore. Per tenerli lontani dalla casa i padri di famiglia svolgevano riti superstiziosi con espiazioni e lustrazioni. Februa erano le cose che si offrivano ai Mani per la purificazione.

DIES MERCURII ET MAIAE: il 15 era il giorno sacro a Mercurio e a Maia. Il Mercurio romano era il dio del commercio e del guadagno, venerato specialmente dai mercanti. Nel medesimo giorno si celebrava il rito pubblico degli ARGEI, fantocci di vimini gettati nel Tevere dal ponte Sublicio. Si trattava di un sacrificio simbolico finalizzato alla purificazione dei Romani.

AGONALIA (terza) il giorno 21 festa in onore di Veiovis, divinità giovanile (identificato con il giovane Giove o con Fauno).

TUBILUSTRIUM: il 23 era la festa della consacrazione delle trombe, che si usavano nei sacrifici, sotto l’auspicio del dio Vulcano, fabbro divino.

FESTA DELLA FORTUNA PUBBLICA: il giorno 25 era dedicato alla dea Fortuna pubblica, protettrice del popolo e dello stato romano.

LUDI HONORIS ET VIRTUTE: il giorno 29 si compivano giochi dedicati a Honor, personificazione dell’onore, e a Virtus, personificazione del valore militare.

AMBARVALIA: il 30 si celebrava la purificazione (lustratio) dei campi. Ogni proprietario terriero sacrificava tre animali (maiale, pecora, toro). Le vittime, prima del sacrificio in onore di Cerere, erano condotte dai contadini attorno (amba) ai confini dei campi (arvalia). La cerimonia pubblica per ottenere la fertilità dei campi era celebrata dai Fratres Arvales (fratelli dei campi), un collegio composto di 12 sacerdoti.


GIUGNO (Iunius) mese dedicato alla dea Juno (Giunone), divinità tutrice del sesso femminile e del matrimonio (o dedicato ai minores, i giovani atti alle armi).

DIES JUNONIS MONETAE: le Calende erano sacre a Giunone Moneta, che presiedeva al denaro conservato nel suo tempio sul Campidoglio. DIUS FIDIUS: il giorno 5 (None di giugno) era dedicato alla divinità del giuramento e del matrimonio.

FESTA DELLA MENTIS ET INTELLECTUS: il giorno 8 si festeggiavano sul Campidoglio le divinità della mente e dell’intelletto.

FESTA DI JOVIS PISTORIS: il 9 era la festa di Giove Pistor (fornaio), che aveva suggerito ai Romani, assediati dai Galli, di buttare loro del pane per ostentarne falsa abbondanza.

VESTALIA: dal 9 al 15 era la festa delle Vestali, sacerdotesse della dea Vesta (Hestia), divinità del focolare domestico.

MATRALIA: il giorno 11 era la festa in onore della Madre Matuta (la madre del mattino, che scaccia le tenebre della notte e porta il sole), identificata con la dea greca Ino (o Leucotea), sorella di Semele. Il rito era riservato alle matrone di elevato rango sociale, sposate una sola volta. Durante la festa, le bonae matres prendevano in braccio i loro nipoti in luogo dei figli, in ricordo di Ino, che aveva allevato Dioniso, figlio della sorella Semele. Le cerimonie avevano relazione con i dolori di Ino.

FESTA DI JOVIS INVICTI: il giorno 13, in onore di Giove Invincibile.

FESTA IN ONORE DI MINERVA (QUINQUATRUS MINUSCULAE): il giorno 13, era una festa minore rispetto alla maggiore celebrata nei giorni dal 19 al 23 marzo. I suonatori di flauto, mascherati e travestiti da donna, correvano per la città, cantando e suonando, fino al tempio di Minerva Capta (l’ingegnosa), loro protettrice.

SUMMANALIA: il 20 giugno, festa in onore di Summanus, divinità infernale della folgore notturna (in origine era uno degli attributi di Giove).

FESTA DELLA FORS FORTUNA: il 24 era la festa della plebe in onore della dea del destino. Fors, il caso, era il principio maschile, Fortuna quello femminile.

GIORNO SACRO A JOVIS STATORIS: il 27, dedicato a Giove Statore, cioè fermante, perché fermò i Romani che stavano fuggendo di fronte ai Sabini.

GIORNO SACRO A QUIRINO: il 29.


LUGLIO (Quinctilis) cioè quinto mese del calendario antico, fu in seguito chiamato Iulius in onore di Giulio Cesare.

Alle Calende, festa in onore della dea Giunone, personificazione della felicità.

POBLIFUGIUM: il giorno 5, festa per commemorare la fuga dei Romani, spaventati dalla misteriosa scomparsa di Romolo. Due giorni dopo si tenevano le None caprotinae in onore di Giunone, cui le donne, libere e serve, sacrificavano sotto un albero di caprifico.

FESTA DELLA FORTUNAE MULIEBRIS: il giorno 6, festa della Fortuna Femminile, cui partecipavano solamente le donne sposate una sola volta.

LUDI APOLLINARES: si svolgevano dal 5 al 13 nel Circo Massimo. Erano tra i più importanti ludi pubblici. Furono istituiti durante la seconda guerra punica in onore di Apollo per scongiurare nuove sventure. Si allestivano contemporaneamente anche ludi scenici.

CONSUALIA: il giorno 7, festa in onore di Conso, dio del Consiglio.

PALILIA: il 7, festa in onore di Pale, protettrice degli allevatori e del bestiame.

FESTA DI VITULA: il giorno 8, festa in onore della dea della letizia, che prolungava la vita agli uomini.

LUDI CASTORUM: si celebravano il 15, in onore dei Dioscuri, i gemelli Castore e Polluce, che avevano aiutato i Romani contro i Latini nella battaglia presso il lago Regillo.

LUCARIA: giorni 19 e 21, festa dedicata ai boschi sacri, celebrata in un lucus tra la Salaria e il Tevere, dove i Romani avevano trovato rifugio dopo la battaglia di Allia.

LUDI VICTORIAE CAESARIS: giochi in onore della vittoria di Cesare, si celebravano dal giorno 20 al 30.

NEPTUNALIA: il 23, festa in onore del dio Nettuno, dio del mare e delle acque.

FURINALIA: il 25, festa in onore della dea Furina, personificazione delle Furie (Erinni), divinità della vendetta.


AGOSTO, (Sextillis) sesto mese del calendario, fu in seguito chiamato Augustus in onore dell’imperatore Ottaviano Augusto.

FESTUM SPEI ET MARTIS: alle Calende, festa della speranza (Spes) e della guerra (Mars Ultor, cioè Marte Vendicatore).

FESTUM SALUTIS: festa della salute (l’Igea greca), della prosperità e del benessere del popolo romano (Salus publica), ricorrente il giorno 5 (alle None).

FESTUM DIANAE: il giorno 13 festa della dea Diana, divinità lunare (simile a Ecate), ma anche della caccia (simile a Artemide) e della nascita (simile a Lucina, dea della luce e dei parti). Fu introdotta in Roma dai plebei latini. Aveva un tempio sul colle Aventino, sede principale della plebe romana.

FESTUM ASTRAEAE: il giorno 15, festa della dea della giustizia (Dice), ultima dea ad abbandonare la terra, quando all’età dell’oro succedette l’età del bronzo.

PORTUNALIA: il 17, feste in onore del dio Portuno, protettore dei porti.

VINALIA RUSTICA: il giorno 19, in occasione dell’inizio della vendemmia, il flamen Dialis offriva a Giove sacrifici per scongiurare che il cattivo tempo rovinasse il raccolto. Era il giorno sacro a Giove e a Venere.

CONSUALIA: festa del giorno 21 in onore di Conso, dio della terra e dei seminati.

VULCANALIA: festa del giorno 23 in onore di Vulcano (Hefesto), dio fabbro, del fuoco e del focolare. La festa si celebrava nel circo Flaminio mediante giochi pubblici.

OPICONSIVIA: festa del 25 in onore di Ops, dea dell’abbondanza delle messi, sposa di Saturno. Era associata a Conso, dio della terra.

VERTUMNALIA: festa del 27 in onore di Vortumnus (o Vertumnus), dio della mutazione delle stagioni e della maturazione dei frutti. Sua sposa era Pomona.

FESTUM VICTORIAE: il giorno 28, festa in onore della dea Vittoria (Nice).


SETTEMBRE (September) settimo mese.

NATALIS TELLURIS: alle Calende si festeggiava la nascita della dea Tellus (Gea, Madre Terra), protettrice dai terremoti. Fu assimilata a Cerere, madre delle messi

LUDI ROMANI: si svolgevano dal 4 al 19 (duravano 15 giorni). Erano sacri a Giove, Giunone, Minerva. Comprendevano anche ludi scenici (spettacoli teatrali).

EPULUM IOVIS: alle Idi, festa della triade capitolina: Giove, Giunone, Minerva.

NATALIS ROMULI: il giorno 20 si festeggiava la nascita di Romolo.

NATALIS AUGUSTI: il giorno 23 si festeggiava la nascita di Augusto.

FESTUM FORTUNAE REDUCIS: il giorno 27, era la festa della dea Fortuna, che assicurava il ritorno in patria dei reduci.


OTTOBRE (October) ottavo mese.

MUNDUS CERERIS: era la fossa posta nel santuario di Cerere, consacrata agli dei Mani. Restava chiusa tutto l’anno ad eccezione di tre giorni (in agosto, ottobre e novembre, quando si apriva la porta di accesso sotterraneo ai tristi dei inferi: mundus patet).

AUGUSTALIA: dal 5 al 12, erano festeggiamenti dedicati ad Augusto. Si offrivano sacrifici alla Fortuna Reduce, eretta dal Senato per il ritorno vittorioso di Ottaviano Augusto dalle campagne militari d’Oriente.

MEDITRINALIA: il giorno 11, festa rituale dedicata alla lavorazione del vino nuovo

FONTINALIA: il giorno 13, festa in onore delle divinità delle fonti

LUDI CAPITOLINI: si svolgevano il giorno 15 e consistevano in spettacoli ginnici e musicali.

EQUUS OCTOBER: il giorno 15 era la festa in onore di Marte. Si organizzavano corse di cavalli e si compiva un sacrificio espiatorio per il sangue versato nelle campagne militari dell’estate.

ARMILUSTRIUM: il 19 ottobre si celebrava una festa militare sull’Aventino (rassegna e purificazione delle armi) al termine delle campagne militari dell’estate. Si facevano sacrifici solenni a Marte e una processione con gli scudi ancili.

FESTUM LIBERI PATRIS ET LIBERAE: giorno 23, festa in onore di Libero e Libera (culto bacchico).


NOVEMBRE (november) nono mese.

EPULUM JOVIS: il primo o il 13 del mese si festeggiava un convito rituale offerto a Giove, in cui s’invitavano simbolicamente gli dei a partecipare.

HILARIA: il giorno 3, festa in onore di Cibele, la Grande Madre, dea della natura.

LUDI PLEBEI: dal giorno 4 al 17, si celebravano nel circo Flaminio.

LECTISTERNIA CYBELES: il giorno 19, sontuoso banchetto rituale offerto a Cibele.

FESTUM PLUTONIS ET PROSERPINAE, il giorno 22, festa in onore di Plutone, dio degli inferi (il triste regno delle ombre) e di Proserpina, da lui rapita a Cerere, la Madre terra.


DICEMBRE (december) decimo mese. Alle Calende, festa della dea Pietas, personificazione del dovere religioso verso gli dei.

FESTUM BONA DEA: il giorno 3, si festeggiava un’antica divinità romana, associata al dio Fauno.

FAUNALIA: il giorno 5 (alle None), festa campagnola in onore di Fauno, protettore delle campagne e della prolificità degli animali.

FESTUM JUNONIS IUGALIS: il giorno 9, festa in onore di Giunone sposa.

SEPTIMONIUM AGONALIA: festa dei colli romani.

AGONALIA: il giorno 11 era festeggiato il dio Giano.

CONSUALIA: il giorno 15 si festeggiava il dio Conso, associato alla fine dei lavori agricoli, e si svolgevano giochi solenni.

SATURNALIA ET OPALIA: feste celebrate dal 17 al 23, in onore di Saturno (Crono) e della dea dell’abbondanza dei frutti della terra, Ops, sua sposa. Secondo il mito, Saturno fu da Giove cacciato dal cielo e accolto da Giano in Italia, che prese il nome di Saturnia, dove regnò durante l’età dell’oro, insegnando agli uomini la coltivazione della terra e stabilendo le prime leggi. In suo onore per sette giorni si commemoravano i giorni aurei del suo regno con divertimenti, scambio di doni e banchetti, cui si convitavano gli schiavi per significare che non c’era differenza di condizioni sotto la signoria del dio durante l’età aurea.

ANGERONALIA (DIVALIA): il giorno 21 si festeggiava la dea tutelare di Roma, Angerona (personificazione della sofferenza), cui i pontefici offrivano un sacrificio nel sacello della dea Volupia (personificazione della voluttà), divinità a lei opposta.

LARENTINALIA: il giorno 23 il flamine di Quirino celebrava il sacrificio funebre per Acca Larenzia, madre dei Lari, nutrice di Romolo e Remo, moglie di Faustolo (cioè di Fano-Luperco). Acca Larenzia era quindi una Luperca, cioè una Lupa.

DIES NATALIS SOLIS INVICTI: il giorno 25 si celebrava la festa del natale del Sole Invincibile.

COMPITALIA: festa dedicata ai Lares Compitales, divinità venerate nei sacrari posti nei crocicchi (compita) delle principali strade. Era una festa mobile, indetta dal pretore tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio per festeggiare la fine dell’anno agricolo. Durante la festa religiosa si offrivano sacrifici ai Lari, in onore dei quali si celebravano anche giochi pubblici (Ludi Compitales), organizzati dagli abitanti del luogo, rappresentati nei collegia compitalia, che costituirono nel tempo una massa di manovra politica. L’usanza sopravvisse con l’avvento del cristianesimo, che sostituì i Lari con immagini di Santi o Madonne nelle edicole poste nei crocicchi.


Lucio Apulo Daunio




Per approfondimenti:


FONTI ANTICHE

Varrone, “De lingua latina”; Macrobio, “Saturnalia”; Dionigi di Alicarnasso, “Antichità romane”; Plinio il Vecchio, “Storia naturale”; Aulo Gellio, “Notti attiche”; Ovidio, “Fasti”; Festo, “De verborum significatu”; Tibullo, “Elegie”; Censorino, “De die natali”; Ausonio, “Ecloga n. 23”



BIBLIOGRAFIA

DUMEZIL G., La religione arcaica di Roma; FERGUSON J., Le religioni dell’impero romano; FILORAMO G., Storia delle religioni; LUBKER F., Il lessico classico