CRISTO
RISUSCITATORE DI CADAVERI
PRIMA PARTE
Gesù, per sfuggire ai religiosi giudei,
che volevano lapidarlo, perché ritenevano che fosse posseduto da un satanasso,
si diresse oltre il fiume Giordano, verso il luogo dove il parente Giovanni
aveva impartito il battesimo ai peccatori penitenti (Gv 10, 39 seg.).
Vennero in molti a trovarlo per
ascoltare la sua parola (solo le guardie giudaiche non lo trovavano). Queste
persone sapevano che il profeta Giovanni non aveva realizzato
alcun prodigio, però ritenevano che sul conto di Gesù avesse
affermato il vero. Questi intanto bivaccava in quei paraggi in attesa degli
eventi. Un giorno ricevette un’ambasciata per conto delle sorelle di
Lazzaro, un caro amico di Betania, villaggio della Giudea (Gv 11, 1
seg.). Le due donne si chiamavano l'una Marta l'altra Maria, entrambe
amate da Gesù (taluni studiosi ipotizzano che Gesù, essendo ebreo, fosse
sposato con la Maria di Betania e che il cognato Lazzaro fosse quel discepolo
che, secondo gli evangelisti, era amato da Gesù). I messaggeri riferirono
che Lazzaro era gravemente ammalato. La dolorosa notizia non rattristò il
Cristo più di tanto; anzi, pensando che non tutti i mali vengono per nuocere,
commentò che la malattia del suo amico era capitata a proposito per la gloria
di Dio e per la sua. Egli, portentoso Figlio d’onorato Padre, era deputato a
dare un saggio della sua divina potenza. Non accorse subito a resuscitare
l'amico, ma rimase a crogiolarsi nei dintorni per alcuni giorni; poi,
finalmente, si risolse a partire per Betania, nonostante che i suoi discepoli
cercassero di dissuaderlo. Essi temevano l’ira dei "sacerdoti" giudei,
decisi a lapidare il Galileo, eretico impostore. Gesù, invece, non li temeva;
anzi, impavido, li sfidava apertamente, predicando la "buona
novella". La sua terrena missione doveva essere compiuta alla luce del
sole. Così, in pieno giorno, s’incamminò verso Betania, seguito dal codazzo dei
suoi discepoli, per andare a risvegliare l’amico Lazzaro, perché, a suo
dire, s’era appisolato. La morte, secondo alcune correnti dell’ebraismo (cfr.
Dn 12, 2; Is 26, 19; 2 Mc 7, 9. 14. 23. 29. 36), era considerata
apparente, come un lungo sonno in attesa del ritorno alla vita (Paolo,
nella Prima Lettera ai Corinzi - cfr. 15, 35-53 - spiega in che modo
avverrà il "risveglio" dalla morte). I suoi discepoli, come
sempre, fraintesero le sue parole (erano ancora nell'attesa di
ricevere i lumi dello Spirito Santo). Intanto Gesù godeva per loro, perché la
morte di Lazzaro era un’occasione buona per dimostrare di che calibro fossero
le sue armi, vale a dire di quale potenza taumaturgica fosse egli capace nella
scienza peonia. Novello Asclepio, Gesù ridonava la vita ai morti come il
mitico medico greco, figlio di Apollo. I discepoli, che
seguivano riluttanti Gesù, temevano che stessero andando a ficcarsi in
guai seri, tanto che uno di loro, Tommaso, disse apertamente che andavano a
morire con lui. Quando Gesù arrivò a Betania, Lazzaro era già morto e sepolto
da ben quattro giorni. La sorella Marta, che era accorsa incontro a Gesù,
appena lo scorse ne implorò l’aiuto, chiamando in soccorso anche l'Altissimo.
Gesù la rasserenò, assicurandola che avrebbe fatto risuscitare il fratello, non
alla fine dei tempi, ma lì per lì. Dichiarò solennemente d'avere lui, e lui
solo, il potere di risuscitare i morti, donando loro la vita. Credere in lui
significava vivere anche dopo la morte, per l’eternità. Marta protestò la sua
fede in lui, il Cristo, Figlio di Dio, fattosi uomo. Poi corse ad avvertire la
sorella del suo arrivo. Maria, impaziente di vederlo, si precipitò da lui,
accompagnata da un codazzo di piagnoni, che si condolevano con lei della
perdita di Lazzaro. Raggiuntolo, si prostrò ai suoi piedi, lamentandosi che a
causa del suo tardivo arrivo non aveva potuto salvare Lazzaro dalla morte. Si
struggeva di pianto, e con lei piangevano anche coloro che l’avevano seguita.
Quel piagnisteo fece fremere e turbare il Cristo, il quale, immemore di ciò che
dichiarava d’essere, cioè onniveggente, chiese agli astanti di indicare il
luogo dove era stato sepolto Lazzaro. Appena vide il sepolcro, proruppe in
lacrime. Perché piangere chi potrà resuscitare? Non poteva rianimare
Lazzaro dal sonno della morte appena ricevette la triste notizia
(ancora una volta Gesù non dà segni di chiaroveggenza), evitando la
messa in scena del miracolo davanti al sepolcro dell'amico? In altre occasioni
aveva già operato miracoli a distanza. Anche i giudei presenti si
chiesero perché non si fosse adoperato in tempo per salvare il suo amico
(avrebbe dovuto sapere che stava per morire). Perché poi avrebbe dovuto
sottrarlo alla morte, se era certo che il suo Lazzaro aveva finalmente
raggiunto il beato e agognato regno paradisiaco del celeste impero? Esauriti i
funerei pianti, Gesù, fremente (forse per l’impazienza di prodigare il
miracolo), si avvicinò al sepolcro. Comandò agli astanti di smuovere la
pietra che occludeva l’ingresso della grotta (non poteva smuoverla lui, con la
sua potente parola, mediante la quale aveva creato il mondo e poteva spostare
montagne?). Intervenne Marta per impedire l'apertura del sepolcro, poiché
il fratello giaceva morto da quattro giorni e il suo fetore sarebbe stato
insopportabile. Gesù la rassicurò che non avrebbe sentito puzza di cadavere.
Anzi, stava per ammirare la gloria di Dio. Rimossa che fu la pietra e aperto il
sepolcro, Gesù rivolse i suoi occhi verso la volta del cielo (dove si presume
che sia l’altolocata dimora di Dio), per ringraziare il Padre di aver ascoltato
le sue preghiere a beneficio di Lazzaro. Ora poteva dimostrare ai
presenti (e ai posteri credenti), che lui era un inviato speciale di
Dio Padre, che lo aveva mandato in missione sulla terra ed
era sempre disposto ad ascoltare le sue preghiere. Non sempre però il
Padre sarà favorevole ad esaudire le sue suppliche. Nell’orto di
Getsemani, infatti, non allontanerà da lui il calice amaro del calvario, che
dovrà invece bere fino alla feccia (Mc 14, 36). Nell’ora della sua agonia sulla
croce, lo abbandonerà al suo destino di morte (Mc 15, 34). In ogni caso, quella
volta, l’autorizzò a portare a termine la sceneggiata miracolistica.
Davanti al sepolcro, Gesù con voce possente ordinò al cadavere di Lazzaro,
ancorché fosse mummificato, avvolto mani e piedi con bende, di venire
fuori dalla tomba. Un macabro zombi cadaverico, legato come un salame, con
il volto coperto dal sudario, apparve sull’uscio della tomba (dio sa come!). Gesù
lo fece slegare, lasciandolo vivo e libero. Che cosa fece poi Lazzaro, non
si sa. Quanto a Gesù, che lo amava e che tanto aveva pianto la sua morte,
dopo che ebbe ridonato a lui la vita, non manifestò la gioia di
rivederlo, né corse ad abbracciarlo, ma rimase impassibile e gelido nel suo
divino amore. Al riguardo, va osservato che Dio, per quanto onnipotente, non
può contraddirsi, annullando le leggi della natura che lui stesso – si racconta
– ha creato. Insomma, non è possibile che possa vivificare un cadavere in
stato di putrefazione. Sorprende inoltre il fatto che un simile, quanto
inverosimile prodigio, sia stato menzionato solamente nel Vangelo secondo
Giovanni, redatto molto tardi rispetto ai vangeli sinottici. Si
tratta, verosimilmente, di un episodio di pura fantasia, avente significato
simbolico, per insegnare ai neofiti il mistero del regno di Dio. Con tale
significato si rappresenta un analogo episodio narrato nel “vangelo
segreto di Marco”, della cui esistenza ha dato testimonianza il vescovo, padre
della Chiesa, Clemente di Alessandria, in una lettera (della cui autenticità si
discute) al discepolo Teodoro. Il brano in questione, dal quale risulta che
Lazzaro nella tomba non era ancora morto, potrebbe quindi riferirsi alle
cerimonie iniziatiche, in cui la morte rituale e la rinascita spirituale del
neofito sono state appositamente travisate dall’evangelista Giovanni a fini
apologetici. Del resto, il cristianesimo è debitore di riti, credenze e
simbolismi d’altre antiche religioni, come il rito della discesa nella morte
apparente e della successiva risuscitazione. Il neofita cristiano,
infatti, deve rinascere a nuova vita, prima della morte fisica, mediante
la morte figurativa dell’uomo vecchio.
Alcuni dei piagnoni venuti a porgere le
condoglianze alle sorelle di Lazzaro e che avevano assistito all’incredibile risuscitazione
del cadavere in via di putrefazione, andarono a riferire ai farisei ciò che
avevano visto compiere da Gesù (Gv 11, 45 seg.). Fu tosto convocato il
Sinedrio, non per indagare l'attendibilità del prodigio compiuto dal santone,
ma per discutere i provvedimenti da adottare nei suoi confronti. Bisognava
toglierlo di mezzo, perché turbava con le sue bravate miracolistiche la quiete
pubblica e fomentava disordini con le sue prediche blasfeme. Questo
fu l'unanime verdetto pronunciato dai membri del Sinedrio,
che temevano l’ira dei Romani dominatori, i quali avrebbero potuto
allontanarli dalla loro patria e distruggere il sacro Tempio di Gerusalemme.
Decisero quindi che non si potevano più tollerare le bizzarrie
dell'eretico Cristo. L’accresciuto numero dei suoi seguaci e le folle che
richiamava al suo passaggio, avrebbero potuto scatenare un incontrollabile
putiferio tra il popolo. Tutto ciò non sarebbe sfuggito all’indagine dell'autorità
romana, le cui risultanze avrebbero potuto dare adito a nefaste
conseguenze per i privilegi goduti dai membri del sinedrio e dalla classe
dirigente. Sarebbe stato meglio e più proficuo per i loro interessi decretare
la condanna a morte del Nazareno, salvando così e la nazione e i loro scranni.
Gesù, saputo del pericolo incombente su di lui, evitò di mostrarsi in pubblico.
Si ritirò in una vicina regione desertica, accampandosi nel villaggio d'Efraim.
Lì attese il corso degli eventi, intuendo l’imminenza dell’ora fatale, in
cui le Moire avrebbero reciso lo stame della sua vita per volontà inappellabile
del Padre extragalattico.
PARTE SECONDA
All’evangelista Luca è
stato attribuito l'omonimo vangelo, che si ritiene sia stato
redatto successivamente ai vangeli attribuiti a Marco e a Matteo. Luca, a
coronamento di storie inverosimili su Gesù, si cimenta in due racconti di
risuscitamento (Lc 7, 11-17). Egli vuol apparire credibile al lettore,
avendo accuratamente indagato tradizioni e testimonianze (Lc 1, 1).
Nel vangelo descrive un miracolo avvenuto in Galilea, nei pressi del villaggio
di Naim. Egli narra che Gesù, accompagnato dal codazzo dei discepoli e seguito
da un folto gruppo di sventurati imploranti grazie, s’imbatté in un funerale nelle
vicinanze della porta d’ingresso della cittadina. Accompagnavano il
feretro molti abitanti del villaggio assieme alla madre, vedova, che piangeva
la perdita del suo unico figlio. Gesù, preso da umana compassione per
l’afflitta donna, le si avvicinò, confortandola. I portatori ne approfittarono
per fare una sosta. Dopo aver consolato la vedova, Gesù s’accostò alla bara e,
toccandola con la mano, comandò al cadavere di ritornare in vita. Manco a
dirlo, lo zombi si animò e in quattro e quattr’otto si levò sulla bara, da dove
improvvisò un’oratoria (n'aveva cose da dire, dopo l’esperienza del gelido
aldilà!). Il giovinetto, per grazia ricevuta, ancorché non richiesta, fu
restituito in vita alla madre dalla pietà di Gesù. L'incredibile miracolo si
concluse, come i salmi, nel “gloria in excelsis Deo”. La storia della vedova e
dello zombi resuscitato, balzò di città in città, di regione in regione,
diffondendo e accrescendo la fama del santone taumaturgo, il figlio
prediletto di Dio (cioè, secondo i Padri conciliari, di se stesso). Negli
“Atti” attribuiti a Luca (20, 7-12), si accenna ad un altro miracoloso
risuscitamento di un giovinetto per intercessione di Paolo, degno apostolo
delle gesta del suo eroe, detto il Nazareno.
Un altro risuscitamento, avvenuto in
concomitanza con una miracolosa guarigione, è descritto nei tre vangeli
sinottici (Mt 9, 18-26, Mc 5, 21-43, Lc 8, 40-56). Un giorno Gesù, mentre era
attorniato dalla folla, fu avvicinato da un notabile di nome Giairo, capo della
sinagoga. Questi, prono ai suoi piedi, supplicò Gesù a seguirlo presso la sua
casa per guarire l’unica figlia moribonda. Gesù si diresse con lui, seguito dai
discepoli, mentre una folla vociferante gli si pressava contro. Una donna,
sofferente d'emorroissa, seguiva la scorribanda. Ella aveva già consumato tutto
il suo patrimonio per curarsi ed erano già trascorsi dodici anni senza che
riuscisse a guarire dalle perdite di sangue. Approfittando della confusione,
riuscì ad avvicinarsi alle spalle di Gesù e a lambirgli la veste. Miracolo! La
donna guarì all'istante in virtù della sua feticistica fede nel santone
guaritore. Gesù, secondo i vangeli, avvertì che una potente forza usciva dal
suo corpo. Fermatosi, domandò alla folla circostante chi aveva avuto l’ardire
di toccare le sue vesti (aveva forse dimenticato che era Dio onniveggente?).
Tutti negarono d’averlo toccato. I discepoli osservarono che nella calca
chiunque avrebbe potuto accostarlo. Gesù, intanto, cercava con lo sguardo il
molestatore tra la folla. I suoi occhi penetrarono taglienti in ogni persona
che incrociava. Incisero anche quello della donna miracolata, la quale,
timorosa e tremante, non potendo resistergli, crollò ai suoi piedi e svuotò il
sacco. Gesù n’ebbe misericordia e, in virtù della fede attestata dalla donna,
la lasciò andare. Quando finalmente arrivò alla casa della giovinetta, figlia
di Giairo, apprese la funesta notizia della sua morte. Il padre precipitò nella
più nera disperazione, non più sperando di rivederla in vita. Intervenne Gesù
per esortarlo a non perdere la fede in lui, paladino di Dio. Questa era la
condizione che richiedeva per la salvezza della giovinetta. Dall’interno della
casa proveniva uno strepitar di pianti e lamenti di prefiche. Si vedevano
inoltre i suonatori di flauto pronti per dar corso al rito funebre. Gesù fece
allontanare la rumoreggiante folla dalla casa, entrò nella stanza dove giaceva
defunta la giovinetta, zittì piagnistei e lamenti, tranquillizzò i famigliari.
A suo dire la ragazza non era morta: stava solamente dormendo (come Lazzaro).
Lo derisero, increduli, ma quando videro che prese la mano della defunta e le
gridò di risorgere dal sonno della morte, rimasero stupefatti: il corpicino
inerte della ragazza si rianimava. La giovinetta, rediviva, balzò dal suo
giaciglio, camminando lungo la stanza, completamente guarita. Chiese persino di
mangiare. Gesù raccomandò ai genitori, che erano senza fiato per l’emozione, di
non divulgare la notizia del prodigio appena compiuto (forse non gradiva
l’esuberanza di lodi e ringraziamenti, come continuano a innalzare al celeste Trono
clero e fedeli). Figuriamoci se quel miracolo poteva passare inosservato! La
notizia non soltanto trapelò, ma si diffuse rapidamente tra la gente delle
vicine contrade, espandendosi a macchia d’olio. Per puro caso non raggiunse le
sonnecchianti orecchie dei Romani. Fece scalpore solo tra gli zelanti redattori
delle sacre gesta del Nazareno, che si cimentarono in fantastici voli pindarici
sul fenomeno Gesù, mitizzandolo. Si dubita che le sue gesta siano attendibili e
abbiano un qualche storico riscontro, giacché non documentate da fonti
originarie, non di parte. I compilatori delle Sacre Scritture, librandosi tra i
nembi della fertile ispirazione immaginifica, oltrepassarono i limiti
dell'umana realtà. Liquefattosi il cerume sulle ali posticce della fantasia,
per effetto dei cocenti raggi della critica razionale e della conoscenza
scientifica, i cristiani sono precipitati, come il mitico Icaro, nel pelago del
mistero insondabile della fede, in cui il dramma del Galileo si risolve in
oscure verità mistico-teologiche.
Confrontando i parallelismi presenti
nella successione degli eventi descritti negli episodi di risuscitazione della
figlia di Giairo, dell’amico Lazzaro e del figlio della vedova di Naim, possiamo
ipotizzare che gli autori dei vangeli abbiano voluto contraffare una vicenda di
stampo iniziatico, con morte rituale e resurrezione spirituale (tipico di molte
comunità gnostiche della chiesa primitiva). Possiamo altresì ipotizzare che si
abbia voluto attribuire a Gesù, come a Paolo (At 20, 7-12), le mitiche gesta di
risuscitamento di giovinetti, posti in essere da Elia (1 Re 17, 17-24) ed
Eliseo (2 Re 4, 8-37). Gli odierni discepoli di Gesù hanno perso il presunto
carisma dei primi apostoli: di “guarire gli infermi, risuscitare i morti,
mondare i lebbrosi” (Mt 10, 8), sia che svolgano la funzione a titolo gratuito
sia mediante compenso. Si dubita quanto all’efficacia degli esorcismi. A
“scacciar demoni”, cioè a curare epilettici e psicotici è preferibile ricorrere
alla scienza medica specialistica.
Se gli inverosimili miracoli descritti
nei vangeli (amplificati e moltiplicati quanto più le redazioni dei medesimi si
allontanano dal tempo degli avvenimenti) possono essere ritenuti fantasiosi
racconti privi di fondamento storico, quelli incredibili di risuscitazione di
cadaveri sono da considerare mere leggende teologiche, ossia enunciati di fede
aventi lo scopo di avvalorare la mitica divinità del Cristo Gesù, onnipotente
padrone, in cielo e in terra, della vita e della morte. Iniziato ai misteri
divini, l'uomo Gesù si è voluto renderlo partecipe della natura e potenza di
Dio (antropoteismo o divinazione dell’uomo). La divinità esclusiva che si è
voluto attribuire a Gesù dai teologi, costruttori dell’istituzione
politico-religiosa del cristianesimo, non fa testo in un’epoca in cui la “terra
è così infestata dalle divinità che è più facile incontrare un dio che un uomo”
(cfr. Satyricon di Petronio). Gesù, del resto, non aveva l’esclusività di
compiere miracoli (Mc 38, 41; Mt 12, 27-28; Lc 11, 19-20; At 8, 9-11; Atti
apocrifi di Pietro e Paolo). Il fenomeno della presunta risuscitazione dalla
morte era di comune credenza nella mentalità superstiziosa dell’antichità. In
Babilonia, sembra che operassero guaritori e risuscitatori di morti. Un
documento (n. 45.2, sez. I), conservato presso l’archivio storico di Novi
Ligure, attesta che nel Cinquecento, in una città della Mesopotamia, era nato
un bambino che guariva gli ammalati e resuscitava i morti. Il mitico medico
guaritore Asclepio, famoso risuscitatore di cadaveri, fu fulminato da Zeus,
perché, facendo sfuggire alla morte gli uomini, violava le regole del Fato
(cfr. la “Biblioteca” di Apollodoro, III). In compenso del bene fatto al genere
umano, Asclepio riceverà l'apoteosi, ossia la divinazione. L’adorazione del dio
Tammuz, che moriva d’inverno per risorgere in primavera, era stata introdotta
in Israele dai dominatori babilonesi (Ez 8, 14). In Betlemme c’era un boschetto
sacro dedicato al dio Adone, di cui si festeggiava il 25 dicembre la
natività dalla vergine Mirra e, nel periodo pasquale, la sua
risurrezione dopo tre giorni dalla morte, analogamente ad altre divinità
cananee (Baal), deprecate dai profeti Elia ed Osea a causa delle abominevoli
nefandezze degli atti di culto. Anche del dio Attis si festeggiavano sia la
morte sia, in primavera, la resurrezione. Dionisio, venerato come dio
liberatore, divenne immortale dopo essere risorto dalla morte e asceso al
cielo per sedere alla destra di Zeus. I misteri dionisiaci contemplano la sua
discesa agli Inferi e l’omofagia, ossia la consumazione della carne e del
sangue di un animale, simboli del corpo e del sangue del dio. Krishna, dio
indù salvatore del mondo, nato da una vergine fecondata da un lampo folgorante
di luce divina, perseguitata da un tiranno che ordina l’uccisione di bambini,
fa miracoli, risuscita cadaveri, muore e risorge per ascendere al cielo dove
risiede come seconda persona della trinità indiana. Il taumaturgo e ascetico
Apollonio di Tiana, vissuto all’epoca di Gesù, risuscita una giovane romana,
opera numerosi miracoli e guarigioni spirituali, dà vaticini, produce potenti
talismani, risorge dalla morte ed appare a due suoi discepoli. Di Apollonio
parlano nei loro scritti Giustino Martire e san Gerolamo. Caracalla innalzò un
tempio alla sua memoria (cfr. Dione Cassio, LXXVIII, 18,2). Altri analoghi miti
sono quelli di Mithra, di Horus (risuscitatore di Osiride), di Zoroastro, di
Orfeo, ecc. La Chiesa, non avendo prove incontrovertibili per dimostrare
quanto afferma come verità di fede, si è avvalsa dell’anatema contro chi non
crede o mette in dubbio tutti i racconti miracolosi contenuti nelle Sacre
Scritture (cfr. la Costituzione dogmatica sulla fede cattolica del
Concilio Vaticano I). La pretesa infallibilità dogmatica della Chiesa cattolica
non è una prova per attestare la divinità del Cristo Gesù e la sua nascita
da una sempre vergine Madonna, deificata come Regina del cielo, immacolata e
Madre di Dio.