lunedì 31 ottobre 2011


LETTERA DI PAOLO AI GALATI

              

          Questa lettera, ritenuta la più autentica delle epistole paoline, è databile all’anno 58. Ha per destinatarie le “chiese” di Antiochia, Iconio, Listra e Derba, appartenenti alla provincia romana della Galazia, in Asia Minore. In questa missiva (oltre che negli “Atti”) il fariseo Saulo, cittadino romano con il nome Paolo, ci fornisce la migliore, per quanto limitata, biografia che abbiamo di lui (cfr. Ga 1,11-2,14). Il tono della lettera è polemico. Rimprovera i Gàlati (definendoli sciocchi e poco intelligenti) per la superficialità della loro fede, esortandoli a una condotta di vita esemplare. Egli, che non ha mai conosciuto Gesù (benché porti marchiato nel suo corpo le stigmate della sua crocifissione), rivendica ai Gàlati la validità del suo apostolato, perché è stato costituito apostolo da Gesù stesso, che gli è apparso in visione, gli ha ispirato il “vangelo” e lo ha autorizzato ad annunciarlo alle genti. Non ha avuto bisogno di consultare gli altri apostoli, poiché il suo vangelo è autentico, giacché proveniente da Gesù. Perciò vota alla maledizione di Dio (anàtema!) chi predica un vangelo diverso dal suo. Non vi sono altri vangeli all’infuori del suo (che presume più autentico di quello annunciato dai dodici apostoli, testimoni oculari di Cristo). In verità, negli “Atti” (9,17 seg.) è scritto che dopo esser stato folgorato da una visione sulla via per Damasco, fu guarito da Anania, che lo istruì nella fede di Cristo. Attacca con virulenza, intimando anatemi (cioè scomuniche, dimenticandosi che in lui, come andava dicendo, viveva Cristo), le tesi di taluni missionari giudaizzanti (dissidenti legati alle pratiche cultuali giudaiche), che recavano scompiglio tra i cristiani provenienti dal paganesimo, inducendoli a seguire un altro vangelo (forse più autentico del suo, perché proveniente dalla testimonianza oculare degli apostoli). Costoro, infatti, insegnavano che l’osservanza della Legge non era stata abolita da Cristo, che il vecchio patto tra Dio e Israele era ancora valido, che la circoncisione era il segno d’appartenenza alla comunità, che la salvezza discendeva dal rispetto del patto suddetto, che Paolo stesso era un incompetente, un falso apostolo che predicava una dottrina non ortodossa, giacché non sottoposta all’approvazione da parte delle autorità apostoliche di Gerusalemme. Paolo si difende dalle calunnie, attaccando verbalmente i suoi avversari, ribattendo punto su punto le loro accuse. Egli vanta la sua indipendenza di apostolo, giacché la sua nomina proviene direttamente da Dio Padre, mediante la rivelazione in lui del figlio Gesù (insinuando in tal modo la credenza della figliolanza divina del Cristo). Egli difende a spada tratta il suo “vangelo”, appreso tramite rivelazione, senza aver consultato la comunità degli apostoli a Gerusalemme (solamente dopo tre anni dalla sua conversione andò a consultare Pietro). Lancia anatemi persino contro gli angeli, qualora questi predichino una dottrina differente dalla sua. Non per altro, egli è stato portato al terzo cielo, sede del Paradiso. Su questa base egli approfondisce alcuni temi riguardo alla giustificazione, alla salvezza, alla libertà dalle tentazioni della carne, esortando all’unità le comunità cristiane della Galazia. Ciò che sta più a cuore a Paolo, è l’identità dei cristiani distinta da quella giudaica. Egli annuncia la dottrina della salvezza per fede, anziché mediante le opere dalla Legge. La validità della promessa fatta da Dio ad Abramo e alla sua discendenza non può essere intaccata dalla Legge, a essa posteriore e avente funzione provvisoria. Secondo l’interpretazione di Paolo, la promessa di Dio ad Abramo riguarda la salvezza per mezzo della fede in Cristo. La Legge, invece, è servita per condurci a Cristo e alla giustificazione mediante la sola fede. L’osservanza della Legge, quindi, non giustifica; anzi, quanti si basano su di essa, sono soggetti a maledizione, se non ottemperano puntualmente alle prescrizioni. Proprio perché la Legge non giova per essere giustificati, appare superflua anche la maledizione, dalla quale Cristo ci ha liberato con il suo sacrificio espiatorio. Di contrario avviso è l’autore della “Lettera di Giacomo” (cfr. 2,14-26), secondo il quale l’uomo è giustificato in base alle opere compiute e non soltanto in base alla fede. Paolo insiste sul fatto che chi abbraccia il cristianesimo deve vivere secondo lo spirito, non secondo la carne, per non commettere i peccati indotti dalla carne (Ga, 5,16 seg.), precludendosi di entrare nel Regno di Dio (1 Co 6, 9). E poiché la carne, a differenza dello spirito, induce al peccato, il cristiano deve crocifiggerla, mortificarla, estinguendo i desideri cattivi, fino a non vivere più per il mondo.

            Nell’unione dei cristiani con Cristo - spiega Paolo - scompaiono le differenze etniche, sociali e fisiche (Ga 3, 28), fermo restando l’effettiva condizione in cui ognuno si trova nel mondo: libero o schiavo (cfr. 1 Tm 6,1-2; Gn 9,25-27; Lv 25,42-55), e fermo restando la subordinazione gerarchica secondo l’ordine che vede la donna inferiore all’uomo ed entrambi asserviti a Cristo, che a sua volta è subalterno al Padre (1 Co 11, 3). Dio è quindi di grado superiore a Cristo, che è il capo dell’uomo. Capo della donna è invece l’uomo. Dunque, se per un verso davanti a Dio si è tutti uguali, nella vita comunitaria, invece, si distingue secondo un ordine gerarchico, che vede la donna al grado infimo (per buona pace delle femministe), seguita dallo schiavo. Del resto, il biblico dio Elohim approvò la richiesta che Sara fece ad Abramo di scacciare la schiava Agar e il figlio Ismaele, perché il figlio della schiava non doveva aver parte all’eredità con il figlio della padrona libera (cfr. Ga 4,22 seg.; Gn 21,10 seg.). Che non fosse lecito andare oltre la propria condizione sociale, la Chiesa continuerà a sostenerlo anche in seguito, conformandosi alla disparità dell’amore del dio biblico. Ambrogio e Agostino considereranno la schiavitù “dono di Dio”. Sostenevano che lo schiavo è tale per il suo bene, perciò deve servire con zelo il padrone per rendersi meritevole davanti a Dio, dalla cui volontà dipende la condizione in cui ogni persona si trova nel mondo. Gregorio Magno e Tommaso d’Aquino giustificheranno la schiavitù, assimilandola alla condizione del servo della gleba (da sfruttare a beneficio di latifondisti clericali e laici, proprietari dei mezzi di produzione). Il papa vieterà che servi e schiavi possano accedere al sacerdozio. Gregorio IX, nel 1229, legittimerà la schiavitù. Nicolò V, nel 1454, la autorizzerà nei confronti dei Saraceni e dei prigionieri. Peraltro, anche i musulmani praticheranno la schiavitù, non essendo tale condizione proibita dal Corano. Pio IX continuerà a legittimarla, ritenendola non contraria alla legge naturale e divina. Leone XIII confermerà la non modificabilità dell’ordine delle cose, proponendo quella che sarà poi la concertazione tra le parti in conflitto. Ci si domanda se sia Dio o la Chiesa a volere lo “status quo” nella società. I teologi della liberazione contestano l’immobilismo della Chiesa, prospettando la teoria e la prassi dell’affrancamento dei poveri dall’oppressione e condannando il neoliberismo capitalistico.

La controversia di Paolo, nella lettera ai Gàlati, non risparmia nemmeno colui che diverrà “il Principe della Chiesa”. L’apostolo Pietro, infatti, è da lui biasimato per i suoi atteggiamenti ipocriti (dei quali, invero, anche Paolo non fu esente). Invettive e maledizioni (poco cristiane) scaglia anche contro chi reca scompiglio nella comunità, incitandola a giudaizzare (cioè a osservare le pratiche cultuali ebraiche, come l’obbligo della circoncisione). Numerose sono le discordanze che si riscontrano nell’epistola in questione, rispetto a quanto riportato negli “Atti”, soprattutto riguardo alla vocazione di Paolo e ai suoi rapporti con gli apostoli e con la comunità di Gerusalemme. Qui giunse per consultare Pietro solo dopo tre anni dal suo apostolato presso i pagani (Ga 1, 18-24). Fu introdotto nella comunità gerosolimitana, tramite la mediazione di Barnaba, e vi restò per quindici giorni (Paolo non godeva buona fama, essendo stato prima della conversione uno spietato giudeo, persecutore dei cristiani; cfr. At 9.26-31). Ritornò dopo 14 anni a Gerusalemme, in seguito ad una rivelazione, per esporre ai notabili il vangelo da lui predicato ai pagani. Fu dai notabili autorizzato a predicare il vangelo ai non giudei, senza ricevere altre disposizioni. A Pietro, invece, come precisa nella lettera, fu affidato il vangelo da predicare ai giudei (ma negli “Atti” non risulta tale ripartizione). Secondo la versione degli “Atti” (cfr. 15,2 seg.), invece, fu la “chiesa” di Antiochia a imporgli di andare a Gerusalemme per dirimere una controversia riguardo al suo rifiuto di circoncidere i pagani, ottenendo nel concilio presieduto da Giacomo, fratello del Signore, sia l’abrogazione della prescrizione mosaica ai pagani convertiti sia disposizioni in merito alla dieta alimentare. In realtà, Paolo, che si sentiva superiore persino a Mosè, si riteneva detentore di un mandato divino (cfr. le lettere agli Efesini e ai Corinzi), perciò si scagliò verbalmente contro taluni falsi fratelli, che s’intromisero come spie durante i colloqui con i notabili di Gerusalemme (forse perché non condividevano la sua opera di evangelizzazione). Non fu tenero neanche nei confronti di certi arci-apostoli, come lui li definiva, che dubitavano dell’autenticità del suo vangelo. Si può ritenere, invece, che questi arci-apostoli predicassero il vangelo appreso dai Dodici, diretti testimoni di Cristo, perciò diverso da quello di Paolo, che presume di averlo appreso per ispirazione da Cristo.


Lucio Apulo Daunio


venerdì 21 ottobre 2011


LETTERE DI PAOLO AI CORINZI



Riguardo al contenuto delle due lettere, databili intorno all’anno 57, che si ritengono inviate da Paolo alla “chiesa” cosmopolita di Corinto (dove più della metà della popolazione si trovava in condizione di schiavitù), per le fratture narrative che presentano, s’ipotizza che siano parti di più missive, che in occasione della loro pubblicazione sono state riunite in base all’affinità dell’argomento trattato. Paolo avrebbe scritto la prima lettera ai Corinzi mentre si trovava a Efeso nel corso del terzo viaggio missionario (1 Co 16,8). La seconda, invece, l’avrebbe trasmessa dalla Macedonia. Paolo cerca accoratamente di dirimere le contese tra le diverse fazioni in cui si è divisa la comunità a causa dell’appartenenza di ciascuno alla predicazione del vangelo dell’uno o dell’altro apostolo. Quantunque meritino di essere fustigati con la verga, egli rimbrotta i Corinzi con spirito di carità, suggerendo loro di imitarlo, esortandoli alla concordia (1 Co 4,21). Quanto alla diversità dei doni carismatici vantati dai singoli fedeli, Paolo, prendendo spunto dal famoso apologo di Menenio Agrippa (raccontava alla plebe di Roma che la lite fra le membra del corpo umano e il ventre portava nocumento all’intero organismo), spiega che tali carismi non dovevano infrangere l’unità della comunità, non essendo essi segno di privilegio ma mezzo per catturare gli infedeli alla causa di Cristo. Egli ricorda che si è dedicato con zelo all’evangelizzazione, fondando in quella città (intorno agli anni 51/52), nel corso del suo secondo viaggio missionario (At.18,1-11), una numerosa comunità, indottrinandola con l’insegnamento che gli è stato trasmesso (in fede sua) dal Signore. Non sono mancate le difficoltà, vuoi per la presenza nella comunità d’ebrei ligi ai costumi giudaici, vuoi per l'ambiente culturale e sociale pagano della città. Denuncia nell'epistola altri motivi di discordia, quali le gelosie e le liti concernenti pratiche religiose, gli atteggiamenti non consoni alla prassi giudaico-cristiana, le gravi sregolatezze nei costumi sessuali (le donne di Corinto avevano pessima reputazione per la loro libertà sessuale). Durante le assemblee, inoltre, accadevano fenomeni simili ai culti misterici (nevrastenie religiose) e si compivano sedute spiritiche evocate dal profeta di turno (medium), che entrava in contatto con lo Spirito Santo e da lui credeva di ricevere rivelazioni. Paolo, quindi, condanna tutto ciò che porta scompiglio nella comunità. Ammonisce i peccatori. Esorta a evitare scandali (dato che litigi e controversie tra i cristiani erano portati davanti ai tribunali pagani). Consiglia la condotta da osservare durante le assemblee e ordina alle donne, in ossequio alla tradizione, di tacere durante le adunanze, restando in perfetta sottomissione all’uomo. E’ disdicevole - spiega Paolo - che le donne parlino in assemblea, se non sono dotate di carismi profetici e non hanno, per riguardo agli angeli (!), il capo coperto con un velo (simbolo di subordinazione gerarchica, cfr. 1 Co 11,3 seg.).

La Bibbia racconta che gli angeli, invaghitisi delle donne, scesero sulla terra per accoppiarsi con loro, generando i giganti. Forse Paolo temeva che si ripetesse l’increscioso accoppiamento, scorgendo gli angeli la bellezza delle donne con la chioma scoperta (satanica tentazione). Il vescovo Ambrogio, vissuto nel IV secolo, obbligava le donne a coprirsi il capo in chiesa in onore del vescovo, incarnazione di Cristo, perché la donna, parola sacra della Bibbia, non è stata creata come l’uomo a immagine di Dio. Nella tradizione greco-romana, in verità, il velo era utilizzato per coprirsi il capo durante le cerimonie religiose o funebri. Il velo, come simbolo di purezza e castità (si spera), lo usano ai giorni nostri le suore e le spose cristiane (solo durante la sacra cerimonia del matrimonio), ma non più come segno di dipendenza gerarchica. La sottomissione delle donne (Col 3,18; Tt 2,5.9; 1 Tm 2,9-12; 1Pt 3,1-6) era costume di quei tempi (“capo della donna è l’uomo”: cfr. 1Co11,3.8; 14,34-35; Ef 5,22-24). San Tommaso sosteneva che la donna fosse un aborto della natura (Somma Teologica, prima parte, ques. 92, art.1). Il cattolicesimo, ancora ai giorni nostri, ignora il termine “uguaglianza” riguardo al conferimento alle donne degli ordini sacri. La donna non potrà mai aspirare al trono di Pietro, quale vicaria di Dio sulla terra, perché Gesù (eletto per decreto conciliare a seconda persona della divina Trinità) si è incarnato come uomo, non come donna. Mah!

Paolo, argomentando in materia sessuale (cfr. 1 Co 7 seg.), consiglia agli uomini di non avere contatti con donne, se non durante il matrimonio, per non peccare d’impudicizia. Tuttavia, è preferibile durante la vita matrimoniale astenersi dal copulare e dedicarsi proficuamente alla preghiera. Ai celibi e alle vedove consiglia di rimanere casti come lui per non avere tribolazioni nella carne. A chi avesse già un coniuge, consiglia di comportarsi come se non l’avesse. La vedova che si abbandona ai piaceri è già morta spiritualmente (1 Tm 5,6). Raccomanda inoltre di pregare e predicare nella lingua conosciuta dal popolo (Gregorio Magno nel VI secolo imporrà alla cristianità come lingua di culto il latino, ancorché divenuto incomprensibile alla massa dei fedeli). Invita a mettere al servizio della comunità il dono dei carismi, di cui predilige la profezia. Cita le tre virtù teologali che la grazia divina infonde ai cristiani: fede, speranza, carità, inneggiando quest’ultima.

In vero, riguardo alle virtù suddette, anziché la fede in entità invisibili e inesistenti, è più utile affidarsi alla ragione e alla conoscenza scientifica. Così, anziché la vana speranza oltre la morte di una vita eterna in un mondo irreale, è meglio vivere nella concretezza dell’unica realtà materiale conoscibile. E ancora, anziché la carità pelosa per meritarsi il Regno dei cieli, amando indistintamente tutti, basterebbe limitarsi alla stima reciproca e impegnarsi a minimizzare le sofferenze umane.

Paolo (che non ha mai conosciuto Gesù) sostiene di aver ricevuto dal Signore (non dagli apostoli) la disposizione a commemorare con una cena il suo sacrificio (1 Co 11,23 seg.), che la Chiesa ha poi ritualizzato mediante l’istituzione del sacramento dell’Eucaristia, avvalorandola con il dogma della transustanziazione (IV Concilio Lateranense del 1215 e Concilio di Trento nella sessione del 1551). Questa surreale dottrina teologica pretende che le sostanze del pane e del vino si trasformino, per effetto della consacrazione del sacerdote durante la Messa, nel corpo e nel sangue del Cristo Gesù. Ingerendo l’ostia consacrata, dunque, sia il sacerdote sia il fedele, che riceve la Comunione, mangerebbero, secondo la fede dogmatica cattolica, il corpo di Cristo e berrebbero il suo sangue. Che Gesù abbia detto “fate questo in memoria di me”, lo testimonia solamente l’evangelista Luca, discepolo di Paolo. Lo stesso Luca, invece, negli “Atti” a lui attribuiti, accenna per tre volte la sola espressione “spezzare il pane” durante la cena della comunità, senza aggiungere altro. L’evangelista Giovanni, invece, non fa alcun cenno all’episodio della “fractio panis”, cioè del gesto compiuto da Gesù spezzando il pane durante l’ultima cena, né tantomeno di ritualizzarlo in una sacramentale commemorazione. Ne consegue che, verosimilmente, sia stato Paolo, non Gesù, a inventarsi l’istituzione del rito della cena eucaristica e che la Chiesa poi l’abbia istituzionalizzata, elaborando la dottrina del sacramento della Comunione e quella della transustanziazione, cioè della presenza reale e sostanziale di Cristo nell’Eucarestia.

Paolo, che non rinnega la sua provenienza dalla setta dei Farisei, prosegue l’oratoria ai Corinzi disquisendo sulla risurrezione dei morti (dottrina sostenuta dai Farisei e dagli Esseni, ma rifiutata dai Sadducei). Paragona la risurrezione al principio rinnovatore dei semi, che il potere della terra libera dalla morte e fa risorgere a nuova vita. Allo stesso modo, dopo la morte di un corpo umano corruttibile, risorgerà un corpo spirituale, immortale. Gesù, in vero, risorse con un corpo materiale, non spirituale, tanto che ebbe fame e mangiò pesce arrosto (Lc 24, 41-43). Anche la Madonna, come ha proclamato l’infallibile Pio XII con la Costituzione Apostolica del 1950, è risorta dalla morte prima della corruzione del corpo per essere assunta in cielo. Secondo gli Ortodossi, invece, Maria non è morta ma caduta in un sonno profondo (c.d. “dormizione”) prima di ascendere alla gloria celeste in anima e corpo naturale.

Paolo prosegue la sua missiva assumendo un tono apologetico oltre che polemico, difendendosi dagli strali lanciati da certi “arci-apostoli” (pseudo apostoli), stroncando le loro calunnie, accusandoli d’essere portatori di un vangelo che non è quello di Gesù (cioè uguale a quello che lui predica e che gli è stato ispirato da Gesù). Gli “arci-apostoli” - afferma Paolo - falsificano la parola di Dio e ne fanno commercio a proprio tornaconto. Tuttavia, da quelle loro false interpretazioni della fede di Cristo è possibile discernere l’eretico dal cristiano di provata virtù, che segue la (pretesa) vera dottrina predicata da Paolo, a lui direttamente ispirata da Gesù. Si vanta dei suoi titoli di merito e del suo rapimento estatico fino al terzo cielo, dimora di Dio e dei beati (paradiso), dove presume di aver appreso misteri ineffabili di fede (quindi inenarrabili). Un’analoga esperienza (visionaria) avrà la martire Perpetua, percorrendo l’irta scala che ascende al cielo per entrare nel giardino delle delizie, accolta dal Buon Pastore. Secondo la tradizione islamica (Libro della Scala), anche Maometto ascese al cielo, dove ricevette rivelazioni sull’aldilà, contemplando il giardino delle delizie (dimora paradisiaca e afrodisiaca popolata dalle Huri, splendide fanciulle perennemente giovani e vergini, premio ambito dagli ossequianti credenti maschi islamici).

Con tono pastorale, Paolo seguita a istruire la comunità corinzia riguardo al matrimonio, alla verginità, alla liceità di cibarsi delle carni immolate agli idoli (purché tale atto non sia di scandalo agli altri confratelli), al comportamento sobrio da osservare durante l’adunanza per mangiare la cena eucaristica in memoria di Gesù (di cui attendevano l’imminente ritorno e la gloriosa trasformazione dei cristiani, sia morti sia ancora viventi, in esseri immortali). In materia sessuale, egli batte il solito chiodo: consiglia di consacrarsi vergini al Signore, piuttosto che tribolare nella passione della carne e nelle preoccupazioni della vita. Essendo il mondo prossimo alla fine, è preferibile, a giudizio di Paolo, dedicarsi alle cose del Signore, piuttosto che alle distrazioni transeunti della vita (1 Co 7, 29-31). La ragione per cui Dio dovrebbe distruggere il mondo da lui creato, Paolo non la spiega. Egli, in nome del Signore, vieta ad ammogliati e maritate di ripudiare il proprio coniuge. Il Signore, invece, in quanto svolgeva la missione esclusivamente tra i giudei, non poteva aver esteso anche alle maritate il divieto del ripudio del marito (cfr. Vangelo secondo Marco 10, 12). Paolo avverte i fedeli di Corinto (1 Co 5, 11; 6, 9-10) che non potranno ereditare il regno di Dio le seguenti categorie di peccatori: gli adulteri, gli impuri, gli effeminati (Gesù, invece - cfr. Mt 5, 22 - li difende, condannando chi, insultandoli, li offendeva con il termine “raca” = sciocco, molle, sdolcinato, effeminato), i depravati (omosessuali e lesbiche), i lussuriosi, i maledicenti, gli ubriaconi, i ladri, i rapaci, gli ingiusti (e chi più ne ha più ne metta). L’omosessualità maschile (la pederastia tra un adulto e un adolescente era tollerata nel mondo greco-ellenistico) e femminile sono fermamente condannate come depravazioni, perché vanno contro le leggi naturali stabilite da Dio (cfr. Rm 1, 26-27 e 1 Tm 1, 10). Per difendersi da chi a Corinto non riconosce la sua autorità, Paolo adduce la sua correttezza nello svolgere la sua missione apostolica, senza pretendere una rimunerazione, pur avendone diritto (cfr. Lc 10,7). Dichiara, infatti, di aver rinunciato ai diritti che competono agli apostoli, come l’essere mantenuto a spese della comunità, assieme ai suoi stretti collaboratori, tra cui figura anche una “donna sorella”. Egli offre il Vangelo “gratis et amore Dei”, facendosi servo di tutti, cedendo se stesso a tutti pur di guadagnarli alla causa di Cristo.

Elemento fondamentale del cristianesimo paolino è il Cristo risorto, apparso (in fede di Paolo) a Pietro, ai Dodici, a più di cinquecento fratelli in una volta, di cui molti ancora viventi (apparizione di massa non documentata nei Vangeli canonici), a Giacomo (il fratello di Gesù, che assunse importanza solo dopo la morte dell’altro), a tutti gli apostoli e, infine, allo stesso Paolo (autodefinitosi un “aborto”). Omette (o non ricorda o non sa) che apparve anche alle pie donne e ad altri discepoli, come documentano i Vangeli (la cui redazione, però, si ritiene avvenuta in un tempo posteriore a quello della stesura delle lettere paoline). Vana sarebbe la fede, sentenzia Paolo, se il Cristo non fosse risorto. E in questa fede di Gesù Risorto la comunità dei cristiani si esalta, consapevole della salvezza da lui operata per tutti (solo per molti, invece, in Marco 10, 45 e in Matteo 20, 28). Alla sapienza umana, Paolo oppone la follia della croce. Egli sostiene che ciò che appare come stoltezza e debolezza di Dio è invece vera sapienza e vera fortezza, e che la conoscenza vantata dagli uomini è solo presunzione. L’insegnamento esoterico del credo cristiano, avvolto nel mistero a lungo nascosto, Paolo lo rivela solo agli iniziati, ai perfetti nella fede, i quali non devono vivere più per sé, ma per Cristo, che si è sacrificato per la loro salvezza. Gli increduli, poiché hanno la mente ottenebrata dall’umana sapienza, hanno bisogno dell’illuminazione dello Spirito Santo per ricevere e credere alle verità di fede (così come lui le intende e le predica). Dei santi misteri, tuttavia, Paolo dice che non si può presumere una totale comprensione, essendo noti solamente in parte agli iniziati (mistagoghi) amministratori (propagatori) dei misteri della fede. Fondando la verità cristiana sulla solidità della pura fede, piuttosto che su argomentazioni razionali dimostrative, Paolo, denigrando la ragione, si appella alla credulità dei semplici e meno colti ma perfetti nello spirito. La fede, infatti, non ha fondamenti sulla sapienza umana, bensì sulla supposta potenza illuminate della grazia divina. Paolo predica Cristo crocefisso che è scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani. Aggiunge che, chi si crede sapiente in questo mondo, deve farsi stolto per diventare sapiente (in senso cristiano), perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. La missione che egli compie con zelo (o per un proprio tornaconto?) tra le genti consiste nel predicare il Vangelo (di sua invenzione) con semplicità, senza sapienza di parola. Nel discorso che tenne in mezzo all’Areopago di Atene (At 17, 22-34), invece, parlò con sapienza di parola, tentando di concordare la sua teologia con la filosofia pagana, al fine di catturare (invano) l’attenzione e il consenso (captatio benevolentiae) dei dotti filosofi che stavano pazientemente ad ascoltarlo. Quando però i filosofi ateniesi lo sentirono parlare di resurrezione dei morti, alcuni lo derisero, altri dissero bonariamente che lo avrebbero ascoltato un’altra volta. Il fallimento della predicazione ai dotti filosofi e la conseguente umiliazione subita da Paolo sono consoni alla logica della “croce”: una sofferenza che sarà retribuita con l’agognato dono della vita eterna nel fantomatico regno ultramondano di Dio, invenzione dell’uomo.

Nella seconda lettera ai Corinzi, Paolo continua la sua autodifesa dalle accuse d’insincerità. Egli vanta i suoi titoli di apostolo, si appella alla sua coscienza, alla sua lealtà, alla sua franchezza nel parlare (virtù greca della parrhesia). Dice di esser stato rapito fino al terzo cielo, in Paradiso, dove fu iniziato a ineffabili misteri. Per non insuperbire della rivelazione del Signore, gli è stato conficcato un pungiglione nella carne, un emissario di Satana che lo schiaffeggia (non si sa a cosa effettivamente alludesse). Rammenta che tutti devono comparire davanti al tribunale di Cristo per ricevere ciascuno la propria giusta mercede per le azioni compiute nel bene e nel male. Cristo, sacrificando se stesso, ha voluto la salvezza di tutti (di contrario avviso, come già detto, sono gli evangelisti Marco e Matteo, secondo i quali Cristo ha immolato la sua vita in riscatto di molti). Paolo, che non si sente per nulla inferiore agli arci-apostoli, mette in guardia la comunità da costoro, giudicandoli operatori d’inganni, giacché predicano un altro Gesù, diverso da quello che lui ha loro annunciato. Termina la lettera, informando la comunità di una sua imminente visita per processare, senza indulgenza, alla presenza di due o tre testimoni, i peccatori impenitenti.

Anàtema a chi non ama il Signore, cioè il dio Gesù! (1 Co 16,22)

Qualche tempo dopo, anche il papa Clemente Romano (primo “Padre Apostolico”) scrisse (verso gli anni 95/98) una lettera alla Chiesa di Corinto per dirimere la lite accesa dai membri più giovani della comunità contro gli anziani. Sull’esempio di Paolo, egli riporta un analogo racconto allegorico, tratto dalla “paideia” della cultura greco-ellenistica (cioè relativa al modo di vivere, pensare e parlare alla maniera greca, esprimendosi in una lingua comune universale, c.d. “koinè”). Papa Clemente, secondo una tradizione (riportata da Ireneo e da Eusebio), fu il terzo successore di Pietro, dopo Lino e Anacleto, ovvero, secondo un’altra tradizione, successe immediatamente a Pietro nella guida della comunità di Roma.

La fede religiosa è una credenza fondata su un sistema di relazioni linguistiche, un “gioco di parole” non suscettibile d’indagine con metodo scientifico, sperimentale e falsificabile, per accertarne la verità oggettiva. I metodi teologici di accesso alle verità di fede non producono certezze (verità di fatto), ma speranze, ancorché siano corroborate da argomentazioni razionali (verità di ragione).

 Lucio Apulo Daunio


giovedì 20 ottobre 2011



LETTERE DI PAOLO AI TESSALONICESI



Paolo invia due lettere alla “chiesa” di Tessalonica (l’odierna Salonicco, già capitale della provincia romana di Macedonia). E’ una minuscola comunità cristiana da lui evangelizzata, costituita prevalentemente da ex pagani. Si discute sull’autenticità della seconda, databile, se pseudo epigrafica, agli anni 80-90. Sospetta è in quest’ultima l’esortazione di Paolo ai Tessalonicesi di perseverare nelle “tradizioni” in cui sono stati istruiti (cfr. 2 Ts 2,15), dato che il termine “tradizioni” fu introdotto molto più tardi nella cultura cristiana. Si tende invece ad ammettere l’autenticità della prima missiva. Questa, scritta da Paolo mentre si trovava ad Atene (1 Ts 3, 1), è il più antico documento cristiano del Nuovo Testamento (databile agli anni 50/52, quando non c’era ancora una “tradizione” consolidata, bensì una varietà d’interpretazione del presunto messaggio di Cristo). Paolo difende se stesso e la “chiesa” dei Tessalonicesi, composta in prevalenza da greci del ceto popolare da lui convertiti, dalle accuse persecutorie perpetrate dalla comunità ebraica del luogo. Con tono severo egli polemizza contro i giudei (1 Ts 2, 14-16), accusandoli sia di aver ucciso Gesù sia di perseguitare profeti e predicatori del Vangelo. Essi non sono graditi né a Dio né agli uomini, presso i quali son tacciati di essere nemici del genere umano, perciò meritano un castigo pieno e definitivo, sino alla fine del mondo. L’ira di Dio si è già abbattuta su questa triste genìa. Questa constatazione potrebbe riferirsi alla distruzione di Gerusalemme del 70 e alla conseguente diaspora del popolo eletto; in tal caso si tratterebbe di una integrazione aggiunta nella lettera dopo l’evento tragico.

L’origine dell’antigiudaismo inizia con l’accusa dei cristiani al popolo ebraico per aver ucciso Gesù. L’odio per gli ebrei, generato dalla convinzione che siano collettivamente colpevoli, si è protratto nei secoli, causando loro discriminazioni, espulsioni, persecuzioni, fino al tragico evento dell’Olocausto. Il papa Paolo IV nel 1555 istituì a Roma il ghetto degli ebrei, imponendo loro di portare, quando ne uscivano, una coccarda gialla come segno distintivo razziale. Il papa san Pio V raccomandò l’istituzione dei ghetti anche agli stati limitrofi. Gli ebrei romani sono rimasti nel ghetto fino alla presa di Roma nel 1870, durante il papato del beato Pio IX. Durante il periodo del regime fascista, dopo l’adozione delle leggi razziali, gli ebrei saranno perseguitati e messi al bando della vita pubblica, costringendoli a emigrare o a nascondersi.

L’apostolo Paolo continua a difendere la validità del suo vangelo, sostenendo che metterebbe la mano sul fuoco per dimostrarne l’autenticità, che assicura di provenienza divina, avendo ricevuto da Dio l’incarico di annunciarlo alle genti. Rifiutare di accogliere la sua veritiera parola, significa rendersi colpevoli davanti a Dio. Nella foga del suo discorso, egli contrappone ai credenti, moralmente buoni, perché adorano il Dio vivente, i miscredenti, idolatri e peccatori, moralmente malvagi. Il Regno di Cristo è antitetico a quello di Satana (dualismo paolino). Egli esorta i Tessalonicesi a non contaminarsi con i vizi sessuali provenienti dal paganesimo, proteggendosi mediante ininterrotte preghiere. L’astinenza dal sesso, la cui pratica può essere tollerata solo se esplicata durante il matrimonio finalizzato alla procreazione, denota la santità di vita del cristiano. Questo chiodo fisso di Paolo riguardo al sesso, sarà battuto da altri autori cristiani, come Agostino, radicalizzandosi in una esasperata avversione contro la donna, cui sarà attribuita la responsabilità del peccato originale.

Assurdo credergli quando adula i Tessalonicesi, affermando che non solo in Macedonia e in Acaia ma addirittura in ogni luogo si è diffusa la fama della loro fede in Dio (1 Ts 6-8). In verità, Paolo dubita della loro fede, tanto che, non potendo recarsi personalmente a Tessalonica, essendo a suo dire impedito da Satana (2,18), invia il suo collaboratore Timoteo per accertarsene (3,1 seg.).

L’argomento che domina nelle due missive, però, è quello escatologico, relativo alla parusia di Gesù, al suo trionfale ritorno alla fine dei tempi, e al giudizio universale. Qui si scatena la fantasia di Paolo, che rasenta la vanagloria e la millanteria. Il tempo escatologico è rappresentato come imminente, con gli schematismi e il linguaggio dell’apocalittica ebraica. Alla venuta trionfale del Signore dal cielo, accompagnato dalla potenza di angeli e arcangeli, soffianti trombe rintronanti, i defunti risorgeranno (è assurdo immaginare uno sconvolgimento dell’ordine naturale) e assieme ai viventi - tra i quali si considera lui stesso - saranno tutti rapiti nell’aria per andare incontro al Salvatore (chimerica visione che si tramuterà in amara delusione!). Tremendo sarà il giudizio di Dio contro i malvagi, disubbidienti ai precetti del vangelo paolino, per i quali il fuoco ardente farà vendetta (legge divina del taglione, senza diritto di appello).

Paolo intravvede l’incombente fine dei tempi, desumendola dalla convinzione che siano già in atto i segni premonitori, cioè il “mistero dell’iniquità”, apportatore di grandi sofferenze. La credenza nell’imminente parusia (il ritorno glorioso di Cristo) si attenua nella seconda missiva (2 Ts 1-12), l’autore della quale (indotto dalla situazione d’indolenza e pigrizia dei fedeli per l’attesa dell’imminente fine dei tempi) sconfessa la prima missiva, in quanto non vede ancora i segni premonitori: l’apostasia, la corruzione, la rivelazione dell’Anticristo (l’uomo iniquo, mitica figura del profeta di Satana). Una misteriosa entità (katèchon) trattiene l'Anticristo dall'irrompere nel mondo, rallentando il disegno divino. Del resto, lo stesso Gesù ignorava sia il giorno sia l’ora della fine del mondo, perché questo mistero il Padre celeste non glielo aveva rivelato (Mt 24, 36). Gli annunci profetici di Gesù, infatti, hanno sempre la caratteristica dell’oscurità, del profondo mistero, e spesso sono riferiti a eventi già verificatisi (sono, in realtà, profezie “post factum”, aggiunte in una tardiva redazione dei Vangeli).

La profezia, secondo la dottrina della Chiesa, potrebbe verificarsi in due modi: assolutamente o a condizione che non muti l’ordine delle cause. In verità, le profezie che si riscontrano nei testi sacri riguardano eventi già accaduti (post eventum) o sono profezie consolatorie. Le profezie, in realtà, potrebbero accadere per mero caso; oppure sono il risultato di certe interpretazioni, mediante le quali l’evento profetizzato si fa coincidere con quello effettivamente verificatosi. Per essere attendibile, la profezia deve indicare inequivocabilmente il fatto che dovrà accadere e l’ordine delle cause che lo determinerà. Se, al contrario, è imprecisa e vaga, darà adito a interpretazioni arbitrarie. La profezia “post eventum”, invece, è una finzione (nel senso che gli eventi contemporanei sono attribuiti a precedenti oracoli).

 Lucio Apulo Daunio




CRITICA DELLA FILOSOFIA ORACOLARE MARXIANA

 

Il filosofo epistemologo Popper critica la teoria materialistica della storia, fondata sul metodo dialettico di Hegel, elaborata da Marx ed Engels, secondo la quale è possibile predire il futuro dell’umanità con certezza scientifica (storicismo profetico). Marx, come tutti i filosofi oracolari, si crede portatore di verità indefettibili, profetizzando processi di sviluppo desunti da fatti storici antecedenti. Contro questa metafisica storicistica, che teorizza lo sviluppo della società, considerata come un tutto unico, indipendentemente dagli individui, Popper oppone il metodo della scienza, consapevole dei propri limiti, che procede gradualmente per tentativi ed errori. Egli nega l’esistenza di leggi storiche di movimento della società, ossia la possibilità di inferire futuri eventi storici globali da avvenimenti storici particolari. Popper distingue vari tipi di storicismo, che si differenziano dal tipo di legge di sviluppo storico. Quello teistico è determinato dalla volontà divina; quello naturalistico, dalla legge di natura; quello spiritualistico, dalla legge spirituale; quello economicistico, dalla legge economica. Tutte queste teorie storicistiche sono, per Popper, anti-individualiste, perché privilegiano elementi di collettivismo. L’idealismo utopico dello stato totalitario, governato da un potere centralizzato, costituito da una classe minoritaria di saggi, implica per Popper l’instaurazione di una dittatura, che opprime le libertà individuali. Le presunte leggi sociologiche, teorizzate dallo storicismo profetico, non sono come le leggi fisiche, uniformi, invariabili nello spazio e nel tempo, valide sempre e ovunque e falsificabili se contraddette. Solo nelle scienze fisiche, che non possono essere violate né imposte, è possibile inferire eventi futuri per mezzo dell’osservazione empirica. Le leggi fatte dall’uomo per fissare criteri di comportamento sono invece modificabili e possono variare da un periodo storico all’altro, perciò non sono prevedibili i loro sviluppi futuri. Alla teorizzazione della società chiusa, rigida, totalitaria, fondata sull’irrazionalismo magico-religioso e sull’accettazione acritica delle decisioni della casta dominante, Popper oppone la società aperta, libera, democratica, in cui i singoli individui sono chiamati a prendere decisioni personali. Popper ritiene che solo mediante lo strumento della democrazia i governati possano proteggersi dall’abuso dei governanti e controllare il potere economico tramite il potere politico.

L’ipotesi della storia come processo in perpetuo mutamento, che si sviluppa verso una predeterminata direzione, fu teorizzato in Grecia, prima da Esiodo (che teorizzò la degenerazione del processo storico), poi da Eraclito (che vide nella contesa la forza propulsiva di ogni movimento). Platone idealizzò lo stato perfetto, governato da una casta di saggi, assimilandolo al comunismo tribale dell’originaria, primitiva forma di società. Lo sviluppo della storia, secondo Platone, ha inizio con lo sfaldamento della società primitiva, statica, causato dalla contesa tra gli individui, generata da interessi economici. Da quello stato perfetto, la società decade verso successivi stadi degenerativi di sviluppo. Per rifondare un equilibrio politico stabile, assimilabile a quello originario dello stato perfetto, Platone teorizza la costituzione di uno stato di casta, caratterizzato da una rigida distinzione e separazione delle classi. Per mantenere la coesione della classe dominante, Platone introduce in essa il comunismo (di beni, donne e bambini) come antidoto contro l’antagonismo individuale.

Sulle orme del suo maestro Platone, anche Aristotele teorizza lo stato ottimo, in cui tutti i cittadini devono avere il diritto di partecipare al governo. Dal diritto di cittadinanza, però, sono esclusi non solo gli schiavi ma tutti i membri delle classi produttive. Ne consegue che, per Aristotele, sono cittadini tutti coloro che non esercitano una professione o un lavoro manuale. A differenza di Platone, Aristotele ammette dei cambiamenti sociali che sono miglioramenti e forme di progresso. Se il fine verso il quale il movimento tende è quello desiderato, allora la causa finale è buona; quindi non solo può essere un bene lo stato iniziale da cui parte un movimento, ma anche il suo termine. La Forma o Idea, per Aristotele, non è esistente anteriormente e separatamente dalla cosa sensibile, perché essa è nella cosa medesima.

Hegel, il padre dello storicismo moderno, credeva, come Aristotele, che le Forme o Idee o Essenze siano nelle cose in divenire. Le cose non sono quello che mostrano immediatamente di essere. Ogni cosa ha in sé una Essenza, cioè uno Spirito. Le Essenze non sono statiche, ma possono svilupparsi e progredire nell’Idea assoluta. La legge generale di sviluppo, per Hegel, procede attraverso un progresso dialettico: la critica di una tesi determina un’antitesi; dal conflitto tra tesi e antitesi si genera una sintesi (unità degli opposti). Egli afferma la tesi che le Idee sono realtà; tutto ciò che è reale, è anche razionale, e tutto ciò che è razionale deve essere conforme alla realtà, perciò deve essere vero e buono. La storia è lo sviluppo di qualcosa di reale e quindi è razionale e procede con la logica dialettica. La legge storica di mutamento è, per Hegel, ottimistica, non pessimistica come in Platone. Al pari di Platone e delle sue idee olistiche e irrazionalistiche, Hegel concepisce lo stato come un organismo e, al pari di Rosseau, lo dota di una essenza cosciente e pensante: lo Spirito della Nazione. Egli propugna la superiorità dello stato collettivo sull’individuo. Uno stato può emergere solo combattendo gli altri stati fino a poter dominare il mondo (teoria della nazione eletta). Nello stato ideale di Hegel, la politica è autonoma dalla morale e la vita eroica è contrapposta a quella mediocre.

Marx ritiene che una teoria non debba limitarsi a interpretare la realtà, ma contribuire a cambiarla. Compito della scienza è di predire il futuro per mezzo dell’interpretazione delle cause passate (visione deterministica degli avvenimenti storici, fondata sull’evoluzione dei rapporti materiali conflittuali). I fenomeni sociali devono essere analizzati nel loro sviluppo storico, interpretato secondo il metodo dialettico hegeliano. Ogni periodo storico deve essere compreso facendo riferimento ai periodi storici precedenti. La predizione storica è possibile essendo la società determinata dal suo passato storico. Dallo studio delle cause e degli effetti storici è possibile desumere profezie sul futuro, perché ogni periodo storico è un prodotto di sviluppi storici precedenti (materialismo storico-dialettico). La filosofia e la scienza pragmatica non devono limitarsi a interpretare il mondo in cui viviamo, ma devono impegnarsi a trasformarlo. Come? Mediante la lotta della classe degli oppressi per attuare la socializzazione dei mezzi di produzione e la liberalizzazione dell’uomo da ogni forma di oppressione. Marx consiglia di sottomettersi alle leggi inesorabili dello sviluppo storico, che determinano la transazione da uno stato di necessità a quello di libertà. Lo sviluppo per stadi, definito da leggi storiche inderogabili, implica l’impossibilità di modificare i mutamenti in atto (fatalismo), e la necessità di adattare il proprio sistema di valori, conformandolo ai mutamenti attesi. La struttura di una società è dunque interpretabile con riferimento alle basi materiali, ossia alla proprietà dei mezzi di produzione e ai rapporti di produzione tra gli individui.

L’uomo è fatto di spirito e materia. Questa però è fondamentale, perché implica la necessità dei bisogni della vita materiale. Riducendo tali bisogni materiali all’essenziale, l’uomo può conseguire una maggiore libertà spirituale. Per Marx, l’essere materiale dell’uomo determina le istituzioni sociali e il loro sviluppo storico assieme al suo essere spirituale. La coscienza degli uomini non è autonoma, essendo determinata dal loro essere sociale, ossia dalla costruzione ideologica della realtà, attuata dalla borghesia per legittimare il proprio dominio. L’ideologia borghese, giacché influenza tutto il sistema sociale (valori e cultura) e, quindi, il modo in cui gli individui percepiscono la realtà, giustifica il dominio di classe, legittima le diseguaglianze, aliena la classe proletaria dalla propria umanità, dai propri interessi, determinando in essa una falsa coscienza. Marx riteneva impossibile un mutamento sociale con l’uso di mezzi politici democratici, essendo realizzabile unicamente tramite una rivoluzione sociale. Ciò accadrebbe quando le condizioni materiali di produzione entrano in conflitto con i rapporti sociali e legali. La contraddizione tra sistema legale (sovrastruttura) e sistema economico-sociale (struttura) si ha, secondo Marx, quando il primo garantisce formalmente la libertà e l’uguaglianza davanti alla legge indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, mentre il secondo non garantisce sostanzialmente tale libertà, perché gli operai, in cambio della loro totale giornata di lavoro, ricevono il salario minimo di sussistenza, necessario per riprodursi, anziché il valore di scambio della merce prodotta. Il capitalista, invece, dalla differenza tra il valore di scambio dei prodotti e il costo in termini di forza lavoro necessaria per produrli, ottiene un profitto (plusvalore). Questo tipo di sfruttamento non può essere eliminato, secondo Marx, con semplici mezzi legali, come se fosse un banale furto. La libertà nella sfera della struttura economica può realizzarsi solo con l’emancipazione dal processo produttivo e dal lavoro faticoso mediante la riduzione dell’orario di lavoro. Gli uomini diventano migliori se il sistema in cui vivono è migliore.

Il sistema giuridico e politico dello stato, nell’analisi marxiana, è una sovrastruttura del sistema economico, costituito dai rapporti di produzione tra i suoi componenti, che formano la coscienza sociale. Ogni governo è una dittatura della classe governante sui governati. In uno stato capitalistico (come quello a economia liberista del “lassez faire”, studiato da Marx) il governo è una dittatura della borghesia sul proletariato (la classe operaia). I proletari vivono solo fin quando trovano lavoro e trovano lavoro solo fin quando il loro lavoro accresce il capitale. Il riscatto della classe operaia, secondo Marx, può verificarsi solo mediante la rivoluzione sociale e l’instaurazione della dittatura del proletariato, che porterebbe alla costituzione dello stato socialista. Il socialismo realizza la società a classe unica, ossia una società senza classi. Uno stato senza classi, non avendo più alcuna funzione, si estingue.

Questa teoria filosofico-utopista marxiana dell’estinzione dello stato è, secondo Popper, irrealistica, giacché lo stato, e solo lo stato liberale e democratico, mediante l’interventismo politico, può difendere i cittadini dall’abuso del potere economico e salvaguardare la giustizia e le libertà di tutti nei limiti imposti dalle leggi. Il controllo istituzionale dei governanti si realizza bilanciando i loro poteri mediante la contrapposizione di altri poteri (teoria dei pesi e dei contrappesi). Il governo rappresentativo di uno stato democratico può essere sostituito mediante libere elezioni, mentre la dittatura può essere sostituita solo tramite una rivoluzione e il ricorso alla violenza. L’unico metodo efficace nelle scienze sociali non è quello di affidarsi a filosofie idealiste e oracolari, bensì quello di imparare dagli errori, appellandoci alla ragione critica.

Lo scopo di Marx, invece, è teso a scoprire la legge economica del movimento della società per profetizzarne il destino. Il metodo di produzione capitalistico è finalizzato all’aumento del profitto, mediante l’incremento della produttività del lavoro, realizzabile con la crescente accumulazione del capitale (uso delle macchine in sostituzione della forza lavoro). L’antagonismo che si determina tra la crescente ricchezza della borghesia e il contemporaneo aumento della miseria della classe operaia (bassi salari a fronte di manodopera in eccesso) genera la lotta di classe e la rivoluzione sociale. La vittoria dei proletari sulla borghesia realizza lo stato socialista, senza classi e senza sfruttamento.

La critica di Popper alla teoria oracolare marxiana è fondata sul dubbio che la rivoluzione sociale porti all’eliminazione del potere di una classe dominante, anzi, potrebbe invece costituirsi una nuova società governata da una casta di burocrati, artefici della rivoluzione. Né è possibile, secondo Popper, trarre conclusioni profetiche dall’osservazione delle tendenze economiche di una società. Non esiste una scienza in grado di svelare immutabili tendenze storiche. Il compito della scienza non è quello di scoprire la natura delle cose, ma di descrivere il comportamento delle cose medesime e accertare se vi siano in esse regolarità nei comportamenti. Lo scienziato non si occupa di cosa sia una cosa, ma come può essere utilizzata e come la medesima si comporta in determinate condizioni.

 Lucio Apulo Daunio

 
Per approfondimenti si rimanda a:

POPPER KARL R., La società aperta e i suoi nemici. Hegel e Marx falsi profeti

MARX - ENGELS, Manifesto del partito comunista

MARX K., Il Capitale

giovedì 6 ottobre 2011


LO STATO IDEALE SECONDO PLATONE

Credo che il fine di una società civile sia la libertà dei singoli cittadini, e che le norme che disciplinano la condotta dei medesimi siano fondate sui principi di umanità, di ragionevolezza, di uguaglianza. Tali norme, giacché stabilite dalla società civile mediante le regole della democrazia, che implicano la discussione critica e la vigilanza contro movimenti reazionari, sono modificabili perché possono essere fallibili.

Il futuro dipende dall’intelligenza e dalla responsabilità dell’uomo, dalla sua acquisizione del sapere scientifico, non da leggi universali e necessarie dedotte dalla metafisica dello storicismo o desunte dalla rivelazione di supposte entità divine (teologismo).

La storia non è il prodotto di un inesorabile destino né di una misteriosa volontà divina. La falsa credenza teistica di un popolo eletto, privilegiato dalla volontà di un ente divino a padroneggiare sugli altri popoli; o la falsa credenza in una razza biologicamente superiore o in una classe sociale eletta, destinate sia l’uno che le altre a dominare la terra e ad avere supremazia economica, rappresentano tutte un serio pericolo alle libertà democratiche.

Il mondo, come aveva intuito Eraclito, è un processo continuo in divenire tra forze in opposizione tra loro. Tutto si muove, nessuna cosa è stabile (se non in apparenza). Wittgenstein affermava che il mondo è la totalità dei fatti, cioè degli eventi, non delle cose. Il processo di cambiamento e di trasformazione nel mondo del diveniente storico non implica che esso sia necessariamente governato da una legge universale, immutabile, o che sia predeterminato da un inesorabile Fato. I mutamenti sociali nella storia umana non hanno alcun nesso con la pessimistica concezione esiodea della decadenza da un’Età dell’Oro e da una primitiva vita beata, verso successivi periodi storici regredenti. Falsa è la teoria, sostenuta da Platone, secondo la quale, arrestando ogni mutamento politico, s’interrompe il processo di corruzione politico. Insomma, non è vero, come pensava Platone, che lo stato perfetto, copia di quello originario, da lui idealizzato, sia quello governato da una casta di saggi filosofi, che sappiano preservarlo dal cambiamento e dalla corruzione. Platone assimilava il suo ideale di stato a quello mitico dell’Età dell’Oro, prima che il cambiamento (causato dalla discordia degli interessi economici individuali) lo corrompesse.

In verità, non sono mai esistite cose perfette e immutabili, come credeva Platone, teorizzando astratte Forme e Idee, esistenti nel cielo iperuranio e separate dalle cose sensibili, ponendole a fondamento della realtà diveniente, ossia delle cose sensibili che sempre più si allontanano dalle loro forme originarie. Dal mondo perfetto, vero, reale e buono delle immutabili Forme o Idee discenderebbero, quindi, le cose mutevoli nel tempo e nello spazio, che sono copie imperfette degli originari modelli, perciò imitazioni perverse della vera realtà. Tutte le cose viventi sarebbero, per Platone, soggette alla legge del declino, del decadimento storico, causa degenerante della società umana. Date queste premesse, l’obiettivo politico che si proponeva Platone era di riportare la società all’originaria perfezione dell’Età dell’Oro, sottraendola al corruttibile divenire eracliteo delle cose mutevoli. Arrestando il cambiamento sociale, secondo Platone, si può edificare lo stato ottimo, somigliante alla sua Forma o Idea originaria, divina, immutabile, perfetta.

Lo stato perfetto, dunque, è per Platone quello che più assomiglia alla Forma o Idea originaria di uno stato. Un cambiamento nello stato originario, primitivo, ha luogo quando i personali interessi economici fanno esplodere la lotta di classe. Il primo stadio di corruzione dello stato è, per Platone, la timocrazia, ossia il governo dei nobili che cercano onore e fama. A causa della loro contesa, lo stato timocratico degenera nell’oligarchia, ossia nel governo delle famiglie ricche, che escludono dal potere le classi con reddito inferiore al censo stabilito. Dalla guerra civile che ne consegue, si genera la democrazia, ossia il governo della libertà, identificata nell’arbitrio e nella licenza. L’antagonismo tra ricchi e poveri nello stato democratico degenera nella tirannide, ossia nella conquista del potere da parte di un capo carismatico, che lo conserva con l’uso della forza, asservendo tutto il popolo ai suoi dettami. La storia, quindi, per Platone, è storia della decadenza sociale, generata dalla lotta di classe, fomentata dagli interessi economici, ossia dalla discordia nell’ambito del potere.

Per risolvere il problema dell’eliminazione della lotta di classe e rifondare uno stato assomigliante a quello originario e perfetto, Platone propone lo stato di casta, totalitario e razzista, in cui la classe dominante, costituita da saggi filosofi e guerrieri, ha la supremazia assoluta sulla classe asservita dei lavoratori. Per preservare la classe dominante dalla discordia e dalla disunione, Platone propone il comunismo, ossia la proprietà comune di beni, donne e bambini. Per rafforzare la coesione e il sentimento di superiorità della classe dominante, Platone propone l’assoluto divieto della mescolanza tra le classi.

L’ambiente naturale, in cui vigono le leggi di natura, descrittive di fatti, non soggette al controllo umano, è diverso dall’ambiente sociale, caratterizzato da norme (convenzioni) imposte dall’uomo per disciplinare comportamenti umani e fatte rispettare mediante sanzioni. Le norme sociali (divieti e comandi) possono essere giuste o ingiuste e possono anche essere violate, a differenza delle leggi naturali, inviolabili, che sono o vere o false. Sono false quando è smentita l’ipotesi di regolarità di un fenomeno naturale. La concezione mitica secondo la quale le leggi di natura sono stabilite da entità divine, porta a credere che in particolari circostanze esse possano essere modificate da interventi divini o da pratiche magiche. Le convenzioni umane invece, a differenza delle leggi di natura, possono essere cambiate dall’uomo, essendo lui stesso moralmente responsabile delle sue azioni. La natura, invece, giacché consiste in fatti e regolarità, non è né morale né immorale. Tutti i fatti modificabili della vita sociale possono dar luogo a decisioni diverse (di modifica, di opposizione, d’indifferenza). E’ l’uomo che crea le istanze morali, i principi di etica umanitaria ed egualitaria, come il principio di tolleranza e di rispetto verso le altrui decisioni, purché esse non siano intolleranti; o come le politiche tese a minimizzare la sofferenza, prima che a massimizzare la felicità per tutti; o come le difese istituzionali per preservare la democrazia dalla tirannide. E’ l’uomo responsabile di approvare o respingere norme morali, mediante la sua libertà di coscienza (anche disobbedendo all’adempimento formale di una legge, ancorché essa sia imposta da un’autorità religiosa o da un ordinamento giuridico o da un tiranno). L’autonomia dell’etica è indipendente dalla religione e da qualsiasi ordinamento giuridico-politico, giacché dipende dalla coscienza individuale. L’uomo, dunque, è il legislatore delle norme sociali e, in particolare, di quelle morali, e da lui dipende il miglioramento o il peggioramento della vita sociale, da lui dipende la sua storia nel mondo. Non esistono un passato buono e un divenire pessimo: il futuro lo costruisce l’uomo, non l’inesorabile Fato o una misteriosa divinità.

Posto che naturale, secondo Platone, è tutto ciò che in una cosa è originario, divino, mentre convenzionale è tutto ciò che è stato cambiato o aggiunto o imposto dall’uomo, ne consegue che naturale è reale, vero e oggetto della conoscenza razionale, mentre convenzionale è apparenza, falso, opinabile. La natura di una cosa è determinata dalla sua origine. L’investigazione dell’origine delle cose, delle loro cause, è compito della scienza. La natura della società umana, la sua origine, è, secondo Platone, una convenzione, un contratto sociale, causa del quale è l’imperfezione della natura umana, la non autosufficienza dell’uomo. Solo lo stato, per Platone, è in grado di compensare le limitazioni naturali dell’uomo. Solo lo stato è autosufficiente e perfetto e quindi superiore all’individuo. L’autorità politica dello stato, sostiene Platone, si fonda sul principio naturale che chi è sapiente e intelligente comandi e governi e chi è ignorante ubbidisca. Dato che ciascun uomo nasce per natura completamente diverso dagli altri e con differente disposizione, Platone introduce il principio della divisione del lavoro in conformità alle singole disposizioni individuali determinate dall’ineguaglianza naturale degli uomini. Un’importante divisione è quella tra governanti e governati, fondata sulla naturale ineguaglianza tra padroni e schiavi, tra sapienti e ignoranti. Falsa è la teoria naturalistica della schiavitù e quella dell’ineguaglianza biologica e morale degli uomini, proposte da Platone e Aristotele (i Greci e i barbari sarebbero, secondo loro, diseguali: gli uni per natura sono liberi, gli altri schiavi). Ne consegue che, per i due filosofi aristocratici e razzisti, non solo gli schiavi, ma anche i lavoratori, essendo d’animo plebeo, non devono governare, riservando tale funzione alla casta dirigente dei nobili.

Come ogni cosa che nasce è soggetta a corruzione, così anche lo stato originario, quantunque perfetto, non può eludere la legge del decadimento, eccetto il caso in cui l’autorità dominante sia costituita da filosofi sapienti, capaci di bloccare ogni cambiamento politico. Il programma politico proposto da Platone, dunque, è totalitario e razzista, giacché si caratterizza per la netta divisione delle classi, quella dominante e quella dominata; per l’interesse esclusivo verso la classe dominante, fondata su rigide norme educative e sulla comunione di beni per garantire la coesione interna e rafforzare la coscienza di appartenenza a una classe superiore; per la propaganda diretta a modellare e unificare le menti. Lo stato idealizzato di Platone dovrebbe garantire la felicità dei cittadini e la giustizia. La felicità, però, secondo Platone, è quella che compete a ciascuna natura: a quella dell’uomo comune e a quella dell’uomo superiore. Il servo lavoratore, in sostanza, dovrebbe essere soddisfatto del posto che per natura gli compete nella società, senza aspirare ad altro. La giustizia, per Platone, è ciò che è nell’interesse dello stato, ossia il privilegio di una classe sulle altre. Ogni classe deve attendere alle attività che a ciascuna compete; ogni cambiamento e mescolanza tra le classi è ingiustizia. La giustizia, come la interpreta Platone, è diversa da quella democratica, essendo quest’ultima fondata sull’abolizione dei privilegi, sull’eguale trattamento dei vantaggi, sull’eguale limitazione delle libertà dei cittadini, sull’eguale trattamento degli stessi davanti alla legge (isonomia), sull’imparzialità dei tribunali.

La difesa di Platone del collettivismo e dello stato totalitario è la conseguenza della sua opposizione allo stato democratico, all’egualitarismo, all’individualismo (identificato, erroneamente, con l’egoismo e con la negazione dell’altruismo). Egli, giacché ritiene che sia un male la varietà del mutevole mondo delle cose, allo stesso modo considera che sia un male la libertà individuale dello stato democratico. Ciò spiega la sua difesa del collettivismo, in quanto negazione assoluta dell’interesse dei singoli a vantaggio dell’interesse collettivo, identificato (erroneamente) con l’altruismo (anziché, correttamente, con l’egoismo di classe). Buono e giusto, per Platone, è tutto ciò che è utile nell’interesse dello stato collettivo e che rafforza la classe dominante; male e ingiusto è, invece, ogni forza che minaccia lo stato e la sua classe superiore. Platone giustifica la disuguaglianza sociale del suo stato ideale con la differenza naturale delle disposizioni umane.

Gli ottimati che governano lo stato collettivo idealizzato da Platone devono avere il monopolio educativo della classe dirigente. Il fine educativo, però, non consiste nella stimolazione dell’autocritica e del pensiero critico; nell’affinare la ragione, la discussione argomentativa, la libera competizione del pensiero; nella ricerca della sapienza e nella comprensione dei limiti propri della natura umana. Esso, invece, consiste nell’indottrinamento, nel modellamento delle menti all’abitudine ad agire non separatamente dagli altri, nell’apprendimento della scienza eugenetica, nel controllo della purezza della razza eletta, nell’autoconsapevolezza di avere la conoscenza della verità, nell’aborrire ogni forma d’iniziativa dei singoli e ogni originalità d’idee, perché condurrebbero al cambiamento politico e al disordine. Gli ottimati, se necessario, devono purificare lo stato eliminando con la forza le persone indegne di appartenere alla loro classe e possono anche far ricorso alle menzogne della propaganda e agli inganni dei miti nell’interesse superiore dello stato.

Il metodo politico di Platone è rivoluzionario, non gradualistico. Egli non accetta compromessi ragionevoli o miglioramenti parziali, miranti a contrastare con metodi democratici i mali che affliggono la società, senza rimodellarla nella sua interezza, disponendosi a imparare dagli errori. L’approccio di Platone è mirato a conseguire un cambiamento globale, radicale, che coinvolge la società nella sua interezza. Il suo è il tentativo utopico di realizzare uno stato totalitario e razzista, governato dalla dittatura di pochi presunti saggi su una massa assoggettata di servi. E’ il desiderio estetico di costruire un mondo perfetto, un modello ideale, prescindendo dai principi egualitari e individualistici, negando il diritto di ogni uomo a modellarsi da sé la propria vita, senza impedire un’analoga libertà agli altri.
Lucio Apulo Daunio

 
Per approfondimenti si rimanda a:

POPPER K. R., La società aperta e i suoi nemici. Platone totalitario, vol. 1