domenica 16 febbraio 2014


CHE COSA E’ L’UOMO?


Che cosa è la specie uomo? L’uomo è il prodotto determinato dalla sua eredità naturale e dall’ambiente storico-culturale in cui è stato educato? E’ il protagonista della sua storia, personale e sociale, di emancipazione dai condizionamenti dello stato di natura e dell’ambiente culturale storicamente determinato in cui vive? C’è discontinuità tra il regno naturale e quello specifico dell’uomo? Ha una specifica particolarità naturale come ogni altro essere vivente, oppure ha qualcosa in più che gli consente di potersi svincolare dai condizionamenti naturali e storici? La sua mente è determinata dalla materia e dall’ambiente storico sociale in cui vive, oppure ha una sua autonomia, una sua libertà, una sua ragione critica, una specificità che le consente di trascendere, di oltrepassare i condizionamenti naturali e storici? Può evolversi dalla sua animalità, oppure tutto il suo modo di essere nel mondo è determinato alla nascita dalla sua innata eredità naturale e dall’ambiente culturale in cui è stato educato?

L’idea che l’uomo sia determinato dalla sua eredità naturale può degenerare nella credenza che, per natura, ci sarebbero dei buoni e dei cattivi, degli eletti e dei tarati, e che le capacità mentali dell’essere umano derivino prevalentemente da fattori ereditari, piuttosto che dall’influenza dell’ambiente in cui vive e dall’educazione culturale acquisita, sia individuale sia sociale.

La concezione meramente materialistica e deterministica, nel senso che tutto il modo di essere dell’uomo è programmato esclusivamente dalla natura e dall’ambiente storico-culturale, può degenerare nella negazione della libertà umana. Il libero arbitrio dell’uomo sarebbe quindi un’illusione. Io penso che sia proprio la libertà specifica dell’uomo, rispetto agli altri esseri viventi, che gli dia adito a riflettere con spirito critico su se stesso e sul mondo che lo ospita, rendendolo libero da condizionamenti imposti dalla natura e dall’educazione. Ed è proprio questa specificità dell’uomo, la sua umanità, a separarlo dalla sua animalità e a determinare una sua propria etica. L’animale, invece, è guidato dall’istinto specifico della sua specie, che lo obbliga a un codice di comportamento. La condizione di libertà dell’uomo gli consente di svincolarsi da ogni condizionamento. La sua libertà di scelta, determinata dal suo spirito critico, lo separa dai condizionamenti naturalistici e culturali e gli consente di esprimere giudizi di valore universali, come quelli indicati nella Dichiarazione dei diritti fondamentali dell’uomo, validi per ogni persona, indipendentemente dalla sua appartenenza a una comunità etnica, religiosa, linguistica, nazionale. L’umanità, dunque, si differenzia dall’animalità in base al criterio della libertà, cioè della capacità d’interrogarsi sulla sua natura e di giudicare moralmente la realtà.

L’uomo, quindi, ha una sua specificità etico-culturale, che consiste nella coscienza di sé, ossia nella libertà di pensare con spirito critico e di interrogarsi, condividendo la sua esperienza con altri uomini. Ed è proprio questa sua libertà che consente all’uomo di costruire la sua storia nel mondo e fondare i suoi valori etici o commettere azioni malvagie.

L’etica aristocratica, fondata sull’ineguaglianza naturale nella ripartizione dei talenti, è elitista e naturalistica; perciò avvantaggia i migliori, dotati più degli altri di talenti naturali. La virtù dell’etica aristocratica consiste nel conseguire l’eccellenza mediante il talento innato. L’eccellenza è intesa come giusta misura, come perfezione della propria natura, come medietà tra posizioni estreme. Ciascuno deve trovare la sua sistemazione nella società secondo la sua natura innata.

L’etica meritocratica, fondata sulla competizione individuale, avvantaggia il merito piuttosto che il talento; favorisce il percorso formativo della personalità, piuttosto che i risultati conseguiti. Il merito consiste nello sforzo effettuato per superare i propri limiti, piuttosto che nella realizzazione delle proprie capacità innate. Il talento, essendo un dono naturale, non ha alcun valore etico di per sé. La virtù ora consiste nella lotta della libertà contro i limiti della natura umana, contro ogni forma di egoismo e d’interesse particolare, contro ogni condizionamento. L’etica meritocratica è un’etica democratica e i suoi valori sono l’altruismo, la solidarietà, l’azione disinteressata, l’interesse generale, l’universalità. La virtù dell’etica democratica implica quella del dovere, ossia la capacità di resistere alla nostra natura egoistica, all’animalità. Dobbiamo trovare proprio in noi le ragioni per superare i nostri personali interessi. E’ la nostra soggettività che decide in ultima istanza a cosa dare o togliere valore.

L’etica utilitaristica, invece, mira non alla realizzazione delle doti innate né al superamento di sé, ma al benessere personale, mentale e fisico. Lo scopo dell’attività umana consiste nel conseguimento della massima felicità per il maggior numero di persone. L’etica utilitaristica è dunque universalistica e contraria all’edonismo egoistico.

Se l’esistenzialismo è la filosofia basata sulla convinzione che l’esistenza preceda l’essenza, la filosofia cristiana, invece, ritiene che sia l’essenza a precedere l’esistenza. In altri termini, l’ente divino concepisce prima l’idea dell’uomo, della donna e dell’universo, cioè l’essere; poi mette in atto la creazione che li fa esistere. Ciò presuppone una finalità dell’essere, creato dall’artefice divino. L’essere umano e il cosmo così concepiti devono risponde a un obiettivo, compiere una determinata missione (per esempio, l’uomo è stato creato per servire l’ente supremo e obbedire alle sue leggi). Se, al contrario, nessuna essenza precede la sua esistenza, se l’uomo non è stato progettato per uno scopo e, quindi, non è stato creato per realizzare tale scopo, allora ne consegue che l’uomo è libero, non condizionato dai comandamenti divini, bensì padrone del suo essere nel mondo. La sua dignità è nella sua libertà, nel suo non essere determinato da essenze preliminari alla sua esistenza. L’uomo che, negando la propria libertà, assume in malafede determinati ruoli psicologici o sociali, identificandosi completamente in essi, trasforma la sua umanità in un oggetto. In tal caso, sarà il ruolo assunto dall’uomo a determinare la sua esistenza. L’essere umano autentico, quindi, non è chi s’identifica in un ruolo, ma chi, distanziandosi da sé oggetto, si pone come soggetto che riflette e giudica se stesso e il mondo. In questa distanza della coscienza, che è solo soggetto, dall’oggettività delle cose del mondo, l’uomo dà un significato alle cose medesime e toglie loro l’essere in sé. E’ l’uomo responsabile del mondo, di se stesso e delle scelte che assume. Il conflitto tra gli uomini sorge dai differenti significati che ogni uomo dà alle cose del mondo.

Se l’essere umano non ha un senso determinato a priori, deve dare da sé e per se stesso un significato alla sua vita. L’esistenzialismo, dunque, si pone in antitesi alla teologia e a ogni genere di metafisica, che cercano sempre la causa dei comportamenti umani fuori di loro. La conoscenza deve fondarsi sulla concreta rappresentazione della realtà, che abbia una validità universale, non invece sulla contemplazione metafisica, che prescinde da ogni possibile esperienza. Un concetto astratto, di cui non sia possibile avere alcuna immagine sensibile, resta del tutto incomprensibile e non concretamente rappresentabile nella coscienza umana. Il linguaggio metafisico, dunque, è irrazionale, giacché fuori dalle esigenze di comprensione e di senso che sono quelle della coscienza reale degli uomini.

                  

Per approfondimenti, si rimanda a:

Che cos’è l’uomo – Sui fondamenti della Biologia e della Filosofia

di Luc Ferry e Jean-Didier Vincent.

Presentazione di Salvatore Veca.


sabato 15 febbraio 2014


FORME DI
MATERIALISMO E ATEISMO
NELL’ANTICHITA’



“Empio non è chi rinnega le divinità del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica alle divinità” (Epicuro)

“I soli possono tramontare e risorgere: noi, quando è tramontata la breve giornata della nostra vita, dobbiamo dormire un’unica notte perpetua” (Catullo, carme 5)

«La paura primamente creò nel mondo gli dei» (Stazio, Tebaide III, 661)


L’accettazione dell’ateismo (negazione-assenza del teismo) libera l’uomo dalla subordinazione a una supposta volontà divina e dalla credenza dell’ineluttabile fatalità del destino. La liberazione dalle credenze religiose e da qualsiasi altra superstizione (concezioni magiche, adorazioni astrali, ecc.) è una delle condizioni per l’uguaglianza tra gli uomini, giacché non più distinti con riguardo alle diverse fedi, che innalzano barriere immaginarie impedenti il raggiungimento di una comune etica sociale. Prometeo odia tutti gli dei, perché soffocano l’autocoscienza degli uomini asservendoli ai loro voleri.

Lo scetticismo verso le credenze religiose, si fonda sull’impossibilità di conoscere e dimostrare l’esistenza di supposte divinità. Ciò che non si conosce non può essere dimostrato. Dio o esiste o non esiste. Cercare una via di mezzo, affermando che l’esistenza o l'inesistenza di Dio siano ugualmente probabili, è un modo fallace di ragionare (argumentum ad temperantia), giacché la probabilità che esista l’inesistente non implica di per sé la verità di qualsiasi supposta esistenza. L’idea che esista qualcosa oltre la realtà materiale, non riconducibile a essa, è un concetto metafisico non supportato da una conoscenza oggettiva. Dio, trascendenza, sono termini concettuali, inconsistenti, irreali, astratti, accettabili solamente in un contesto personale di fede religiosa. Credere in qualcosa o in qualcuno non implica né verità né esistenza. Da ciò che non esiste nella realtà conoscibile, le religioni deducono molte assurdità, assunte dai credenti come sacre verità dogmatiche di fede, valide per tutti e ovunque. Dio, entità trascendente, è concepito come dispotico legislatore cui sottomettersi per non subire orribili pene eterne nell’aldilà. L’apocalittica presunta rivelazione di Gesù, supposto Figlio di Dio e Lui stesso Dio (assoluta assurdità teologica), riguardo all’imminente fine del mondo, non si è avverata. L’ostinata accettazione cieca della fede cristiana nell’escatologia ha prolungato in un futuro indeterminato il catastrofico accadimento. La fine dell’uomo e del mondo, in realtà, non dipenderà dall’economia della provvidenza divina, ma da cause naturali, fisiche.

Lo scetticismo riguardo alle credenze religiose si riscontra in quei reperti e scritti pervenuti fino a noi sin dalle più antiche civiltà. Ciò che possiamo apprendere da un antichissimo testo come l’Epopea di Gilgamesh è la rilevanza di un’esperienza di vita terrena piuttosto che la sopravvivenza dopo la morte. Il Canto dell’arpista, dedicato al faraone egiziano, invita a rallegrarsi dei beni della vita, essendo improbabile una seconda vita oltre la morte. Un’antica scuola di pensiero pre-induista, materialista e atea, negava l’esistenza di entità immateriali. L’etica confuciana non contempla l’aldilà.

La natura fisica nel pensiero greco è la struttura originaria, eterna, del mondo (Eraclito, fr. 37), le cui leggi sono governate dalla necessità (anànche). La necessità è ciò che deve essere nell’ordine naturale, che non può variare. La natura è armonia, calcolo matematico, regolarità, immutabilità. Dallo studio della natura ha origine il sapere scientifico. La natura è caratterizzata da una temporalità ciclica (kiklos), un ripetersi all’infinito. Tutto in natura ha un tempo, un ciclo di vita. Secondo Platone, l’uomo è libero perché non è condizionato dagli istinti come lo sono gli animali. L’uomo apprende la conoscenza dalla visione del mondo, dalla regolarità e ciclicità dell’ordine naturale. Egli, a differenza degli animali, ha consapevolezza (pre-visione) del suo destino, della ineluttabilità della morte. Dalla sua capacità di apprendere, l’uomo sviluppa la tecnica, con cui volge a suo vantaggio l’ordine della natura. In virtù della memoria, conserva il ricordo delle precedenti esperienze, progredendo nelle conoscenze. La sua previdenza lo rende consapevole dell’unicità e irripetibilità della sua vita. La speranza d’immortalità è una pia illusione, un inganno. La vita va vissuta pienamente, sviluppando al massimo l’eccellenza umana, fisica e psichica, espandendo la virtù (areté) nella giusta misura, senza travalicare i propri limiti, per non peccare di tracotanza (hybris). Dalla conoscenza della tragicità della sua vita, l’uomo apprende la necessità di dare un senso, uno scopo alla sua breve, corporale esistenza. Il dolore, per i greci, è parte costitutiva della vita, un’anticipazione della morte.

Nella concezione cristiana, invece, la natura è una creazione della volontà di Dio, posta sotto il dominio dell’uomo. Il dolore è l’espiazione per una colpa originaria. La sua cristiana accettazione apre la porta del paradiso, alla speranza della sopravvivenza oltre la morte. La storia nel cristianesimo è concepita come redenzione nel presente, per una colpa commessa nel passato, e come speranza di salvezza nel futuro. Il senso cristiano della storia svuota di senso la morte, depotenziano la vita presente a vantaggio della speranza di una vita futura.

Le comunità culturali dell’antica Grecia ebbero una visione della vita materialistica e edonistica, fondata sulla centralità dell’uomo e della natura (physis). Era la razionalità, quella dell’uomo e quella della natura, a occupare prevalentemente l’interesse dei greci. Tutti gli ideali erano terreni e con il sopraggiungere della morte terminava per sempre la vita. L’oltretomba era immaginato come il mondo del non essere. Primeggiavano le virtù eroiche (areté), l’impari lotta dell’eroe contro l’oscura e misteriosa forza del Fato. Il divino era un’idealizzazione scaturente della fragilità umana, un bisogno per vincere la paura dell’ignoto; perciò si rappresentava in forme e caratteristiche umane e si onorava ottemperando a norme cultuali prestabilite dalla tradizione, dalla cui osservanza si speravano protezioni per sé e per l’intera comunità-stato. Criticare il culto degli dei, o metterne in dubbio la loro esistenza, si rischiava d'incorrere nel delitto (religioso e politico) di empietà, passibile di condanna per abbandono della loro protezione (ateos). Ciò non ostacolò l’espressione del libero pensiero, la critica riguardo alla veridicità dei miti e la generale diffusione dell’incredulità dovuta alla disattesa manifestazione della giustizia divina e all’incapacità degli dei d’impedire il male nel mondo.

Euripide, nella tragedia “Bellerofonte”, mise in dubbio l’esistenza degli dei, rispecchiando un comune sentire del popolo. Attraverso i personaggi delle tragedie “Edipo a Colono” e “La Fenicie”, egli criticò l’ingiustizia degli dei, perché non perseguivano i malvagi e lasciavano soffrire i buoni. In “Oreste”, traspare la condizione umana asservita all’ineluttabile volontà degli dei e del Fato. In “Medea”, Euripide evidenziò l’impotenza umana di fronte alle trame e alla malevolenza degli dei. In “Elena”, dubitò dell’esistenza degli dei, concepiti come immagini create dal pensiero. L’irrazionalità umana, piuttosto che il volere del Fato, è per Euripide causa permanente di sofferenza. Aristofane, nella commedia “Le Rane”, taccia Euripide (già ridicolizzato in “Acarnesi”) di ateismo, amoralità, corruzione. Euripide, infatti, attraverso i personaggi delle tragedie, manifestava un atteggiamento scettico e razionalista, perciò fu accusato e processato per empietà.

Eschilo, in “Prometo”, e Sofocle, nelle tragedie “Filottete”, “Elettra” e “Le Trachinie”, rimproverano gli dei per la loro ingiustizia e crudeltà, che opprimono i giusti e causano sofferenze umane.

Melisso, secondo Diogene Laerzio (IX, 24), affermò che sugli dei non bisogna pronunciarsi, perché di essi non è possibile conoscenza. Democrito (e poi anche Epicuro) attribuì l’invenzione degli dei e della religione al terrore provato dagli uomini primitivi davanti a fenomeni celesti, malefici o benefici, di cui non sapevano spiegarne la ragione; perciò essi immaginarono che fossero causati da entità a loro superiori, dotate di straordinaria potenza. Dio (Theos) è, dunque, l’eccezionale manifestazione di un evento fisico; perciò soltanto attraverso lo studio della natura si possono comprendere i fenomeni naturali e superare il timore degli dei. La natura, secondo Lucrezio, non richiede un dio né tantomeno ha bisogno della sua provvidenza.

Pitagora, fondatore di una scuola etica a carattere religioso – dogmatico, derivante dalla dottrina salvifica orfica, credeva nell’armonia e nel misticismo dei numeri (concepiti come enti astratti rappresentabili in uno spazio ideale) e nella reincarnazione della natura umana in altra natura animata (metemsomatosi) per scontare le colpe commesse durante la vita. Riteneva altresì che solamente l’acquisizione della conoscenza scientifica potesse liberare l’uomo dal male dell’ignoranza.

Ecateo di Mileto fu il primo a criticare la tradizione mitologica dei Greci mediante un’interpretazione razionalistica. Egli si mostrava spregiudicato e noncurante per tutto ciò che allora era considerato sacro e inviolabile.

In Grecia, i filosofi fisici naturalisti spiegarono i fenomeni naturali mediante cause materiali, fisiche, non divine (dissacrazione della natura). La sostanza fondamentale eterna (arché), da cui ogni cosa si era formata, era stata di volta in volta individuata nell’acqua (Talete) o nell’aria (Anassimene) o nel fuoco (Eraclito) o nel mescolamento di queste sostanze (radici dell’essere) con la terra, in virtù di due forze cosmiche antagoniste, che determinano stati di aggregazione (solido liquido gassoso etereiforme) e progressive selezioni delle forme originarie (Empedocle). L’allievo di Talete, Anassimandro, pose il fondamento del tutto nell’infinita forza della natura, indefinita (àpeiron), di per sé ovunque generatrice delle cose. Egli sostenne la tesi della sfericità della Terra. Con Anassagora si affina la concezione materialistica. Egli concepì l’esistenza d’infinite sostanze primordiali (semi), aggregate da una forza materiale (nous o intelligenza cosmica, non creatrice, non finalistica). Per aver messo in dubbio la divinità degli astri fu accusato e processato per empietà. Diogene d’Apollonia passava per ateo, perché spiegava l’universo in termini fisici, ritenendo mere allegorie religioni e miti. Diceva che niente diviene dal non essere e nulla perisce nel non essere. Eraclito sostenne che l’unico fondamento della realtà è la materia (monismo materialistico) e il perenne fluire di tutte le cose (pànta rèi).

Con Leucippo e Democrito si pongono le basi scientifiche della casualità meccanica dei processi naturali (l’essere – l’esistente) concepiti come combinazioni di atomi: particelle invisibili dotate di movimento vorticoso, vaganti nel vuoto (il non-essere - lo spazio). La realtà, dunque, concepita in termini materialistici, consiste in un’infinità di atomi in continuo movimento e trasformazione, da cui trae origine la pluralità materiale del cosmo in forma di curva. In questa loro visione deterministica e meccanicistica, fisica e cosmologica, in cui l’esistenza della materia è determinata dal caso e dalla necessità, si escludono la creazione e la provvidenza divina nonché il finalismo dei fenomeni naturali. Tale sarà anche il pensiero di Lucrezio. La divinità, dirà Epicuro, se esiste, è ininfluente: non s’interessa degli uomini, non è creatrice di materia, perciò la conoscenza naturalistica può fare a meno della metafisica. Quanto alle regole comportamentali, individuali e sociali, esse vanno osservate per la loro utilità, non per timore di castighi divini o per meritare premi paradisiaci. Bene è godere sobriamente e gioiosamente i beni della vita e i frutti del proprio lavoro (Meslier).

Dopo gli esperimenti scientifici di Boyle, nel 1600, e le successive ricerche sperimentali da parte dei chimici, furono individuati i veri e propri elementi chimici (sostanze pure da cui non è possibile ottenere sostanze più semplici). Tutte le altre sostanze presenti sulla terra (come le quattro supposte dai filosofi naturalisti) sono scomponibili negli elementi che le formano.

Diagora di Melo, discepolo di Democrito, accusato di empietà (asebeia) e ateismo, fu bandito da Atene per aver criticato il culto degli dei, negata la divina provvidenza, profanato i Misteri Eleusini, distogliendo molti dalla loro celebrazione. Se gli dei, posto che esistano, non s’interessano degli affari umani, tanto valeva disinteressarsi di loro. Anche Ippone di Reggio fu considerato ateo perché negatore della religione. Affermava, infatti, che nulla esiste fuori della materia. Le opere sulla religione scritte da Protagora furono bruciate sulla pubblica piazza per manifesta incredulità. Egli negò la possibilità di determinare l’esistenza o l'inesistenza delle divinità. Crizia riteneva che le divinità fossero invenzioni umane allo scopo di rendere gli uomini timorosi del castigo divino, qualora avessero trasgredito le leggi (religio instrumentum regni). Ciò pensava anche Cicerone, cioè che la credenza degli dei fosse uno strumento etico per tenere il popolo sottomesso. Senofane di Colofone, che criticava l’antropomorfismo religioso di Omero e di Esiodo e concepiva il divino come proiezione del sentire umano, affermò che intorno all’esistenza degli dei possiamo avere soltanto opinioni, non certezze.

Aristippo di Cirene, che dette inizio al materialismo edonistico della scuola cirenaica, disprezzò convenzioni sociali e tradizioni. Fu cultore di uno stile di vita libero e autosufficiente (possiedo, non sono posseduto), volto alla moderata ricerca del piacere (hedonè), inteso come qualsiasi bene che dia godimento (il che implica come disvalore la sofferenza e come valore la felicità, ed esclude la ricerca metafisica e la contemplazione del divino). Egesia di Cirene riteneva che la conoscenza fosse incerta e che gli eventi fossero dominati dall’impersonale potenza del caso (tyche). Gli antichi, secondo Prodico di Ceo, considerarono divinità tutte le cose utili per la vita dell’uomo (così il fuoco divenne Efesto, l’acqua Poseidone, ecc.) e inventarono il timore degli dei come spauracchio per i malvagi che riuscivano a eludere la giustizia umana. Evemero affermò che gli dei erano stati uomini illustri, divinizzati per aver reso servizi all’umanità. Che gli dei fossero creazione degli uomini, è ciò che ritenne già Demade. Teodoro detto l’Ateo fu bandito dalla città di Atene perché criticava i valori tradizionali e negava l’esistenza di ogni divinità. Il fine della vita, secondo Teodoro, consisteva nel raggiungimento del piacere, mediante la saggezza pratica, al fine di conseguire un permanente stato d’animo gioioso. I filosofi cinici (Antistene, Diogene di Sinope, Bione di Boristene, ecc.) escludevano la possibilità di una qualche conoscenza e ponevano il raggiungimento della vita virtuosa nell’estrema autosufficienza (autàrcheia), cioè nella drastica riduzione dei bisogni. Con provocante libertà di parola (parresìa), disprezzavano le convenzioni sociali e negavano le credenze religiose, opponendo a queste la natura (physis). Enomao di Gadara criticava la credenza nei responsi degli oracoli e nelle profezie, ritenendo che non provenissero dalle divinità, poiché queste non si curavano minimante delle cose umane. Stilpone di Megara, pur non credendo nella religione politeistica popolare, evitò di criticarla pubblicamente. Nonostante questo suo prudente comportamento, fu condannato all’esilio per empietà verso gli dei. Anche Socrate fu condannato per ateismo e corruzione, perché accusato di non riconoscere le divinità tradizionali della polis e d’introdurre nuove divinità e nuove pratiche religiose. Aristodemo il Giovane irrise i credenti. Carneade, scettico radicale, svuotò di significato la disputa intorno a Dio, data la debolezza delle argomentazioni tendenti a provarne l’esistenza. Plinio il Vecchio denunciò l’imbecillità degli uomini nel voler deificare tutte le cose. Tacito (An. XVI, 33) affermò che gli dei erano indifferenti al bene e al male. Nelle sue Satire, Giovenale evidenzia il carattere sanguinario delle religioni. Lo scettico Luciano di Samosata, critico irriverente delle religioni e degli dei, che mette in ridicolo nei “Dialoghi”, irrideva la credenza dei cristiani nell’immortalità dell’anima e nella cieca obbedienza ai dogmi di un presunto dio crocefisso. La sua opera “Peregrino”, infatti, è una parodia del cristianesimo.

Durante l'età medievale, l’incredulità era diffusa tra il popolo e nelle corti dei sovrani (Federico II). Tra gli intellettuali l’incredulità si esprimeva in forme letterarie (come in Carmina Burana dei Goliardi). Il filosofo islamico Averroè (Ibn Rushd) affermerà l’eternità del mondo e negherà la provvidenza divina, l’immortalità dell’anima e la risurrezione dei corpi. Gli ebrei Maimonide e Isaac Albalag accoglieranno, l’uno, l’idea dell’eternità del mondo, l’altro, la dottrina della doppia verità: quella filosofica, contraria alla fede; quella di fede, contraria alla ragione. San Tommaso, invece, sosterrà che l'esistenza di Dio non è di per sé evidente, giacché la natura umana, tramite i sensi, può avere conoscenza certa soltanto di cose materiali. Egli perciò partirà dalla materia per dimostrare, attraverso cinque discutibili vie, l’esistenza dell’Assoluto. Sarà poi Guglielmo di Occam che confuterà le cinque prove di san Tommaso, tenendo separate e distinte la fede e la ragione.

Si fa risalire al XIII secolo l’esistenza dello scandaloso e anonimo trattato “de tribus impostoribus”, in cui sono qualificati come impostori Mosè, Gesù e Maometto, fondatori dette tre religioni monoteistiche.


Lucio Apulo Daunio