FORME DI
MATERIALISMO
E ATEISMO
NELL’ANTICHITA’
“Empio non è
chi rinnega le divinità del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica alle
divinità” (Epicuro)
“I soli
possono tramontare e risorgere: noi, quando è tramontata la breve giornata
della nostra vita, dobbiamo dormire un’unica notte perpetua” (Catullo, carme 5)
«La paura
primamente creò nel mondo gli dei» (Stazio, Tebaide III, 661)
L’accettazione
dell’ateismo (negazione-assenza del teismo) libera l’uomo dalla subordinazione
a una supposta volontà divina e dalla credenza dell’ineluttabile fatalità del
destino. La liberazione dalle credenze religiose e da qualsiasi altra
superstizione (concezioni magiche, adorazioni astrali, ecc.) è una delle
condizioni per l’uguaglianza tra gli uomini, giacché non più distinti con
riguardo alle diverse fedi, che innalzano barriere immaginarie impedenti il
raggiungimento di una comune etica sociale. Prometeo odia tutti gli dei, perché
soffocano l’autocoscienza degli uomini asservendoli ai loro voleri.
Lo scetticismo
verso le credenze religiose, si fonda sull’impossibilità di conoscere e
dimostrare l’esistenza di supposte divinità. Ciò che non si conosce non può
essere dimostrato. Dio o esiste o non esiste. Cercare una via di mezzo,
affermando che l’esistenza o l'inesistenza di Dio siano ugualmente probabili, è
un modo fallace di ragionare (argumentum ad temperantia), giacché la
probabilità che esista l’inesistente non implica di per sé la verità di
qualsiasi supposta esistenza. L’idea che esista qualcosa oltre la realtà
materiale, non riconducibile a essa, è un concetto metafisico non supportato da
una conoscenza oggettiva. Dio, trascendenza, sono termini concettuali,
inconsistenti, irreali, astratti, accettabili solamente in un contesto
personale di fede religiosa. Credere in qualcosa o in qualcuno non implica né
verità né esistenza. Da ciò che non esiste nella realtà conoscibile, le
religioni deducono molte assurdità, assunte dai credenti come sacre verità
dogmatiche di fede, valide per tutti e ovunque. Dio, entità trascendente, è
concepito come dispotico legislatore cui sottomettersi per non subire orribili
pene eterne nell’aldilà. L’apocalittica presunta rivelazione di Gesù, supposto
Figlio di Dio e Lui stesso Dio (assoluta assurdità teologica), riguardo all’imminente
fine del mondo, non si è avverata. L’ostinata accettazione cieca della fede
cristiana nell’escatologia ha prolungato in un futuro indeterminato il
catastrofico accadimento. La fine dell’uomo e del mondo, in realtà, non
dipenderà dall’economia della provvidenza divina, ma da cause naturali,
fisiche.
Lo
scetticismo riguardo alle credenze religiose si riscontra in quei reperti e
scritti pervenuti fino a noi sin dalle più antiche civiltà. Ciò che possiamo
apprendere da un antichissimo testo come l’Epopea di Gilgamesh è la rilevanza
di un’esperienza di vita terrena piuttosto che la sopravvivenza dopo la morte.
Il Canto dell’arpista, dedicato al faraone egiziano, invita a rallegrarsi dei
beni della vita, essendo improbabile una seconda vita oltre la morte. Un’antica
scuola di pensiero pre-induista, materialista e atea, negava l’esistenza di
entità immateriali. L’etica confuciana non contempla l’aldilà.
La natura
fisica nel pensiero greco è la struttura originaria, eterna, del mondo
(Eraclito, fr. 37), le cui leggi sono governate dalla necessità (anànche).
La necessità è ciò che deve essere nell’ordine naturale, che non può variare.
La natura è armonia, calcolo matematico, regolarità, immutabilità. Dallo studio
della natura ha origine il sapere scientifico. La natura è caratterizzata da
una temporalità ciclica (kiklos), un ripetersi all’infinito. Tutto in
natura ha un tempo, un ciclo di vita. Secondo Platone, l’uomo è libero perché
non è condizionato dagli istinti come lo sono gli animali. L’uomo apprende la
conoscenza dalla visione del mondo, dalla regolarità e ciclicità dell’ordine
naturale. Egli, a differenza degli animali, ha consapevolezza (pre-visione) del
suo destino, della ineluttabilità della morte. Dalla sua capacità di
apprendere, l’uomo sviluppa la tecnica, con cui volge a suo vantaggio l’ordine
della natura. In virtù della memoria, conserva il ricordo delle precedenti
esperienze, progredendo nelle conoscenze. La sua previdenza lo rende
consapevole dell’unicità e irripetibilità della sua vita. La speranza
d’immortalità è una pia illusione, un inganno. La vita va vissuta pienamente,
sviluppando al massimo l’eccellenza umana, fisica e psichica, espandendo la
virtù (areté) nella giusta misura, senza travalicare i propri limiti,
per non peccare di tracotanza (hybris). Dalla conoscenza della tragicità
della sua vita, l’uomo apprende la necessità di dare un senso, uno scopo alla
sua breve, corporale esistenza. Il dolore, per i greci, è parte costitutiva
della vita, un’anticipazione della morte.
Nella
concezione cristiana, invece, la natura è una creazione della volontà di Dio,
posta sotto il dominio dell’uomo. Il dolore è l’espiazione per una colpa
originaria. La sua cristiana accettazione apre la porta del paradiso, alla
speranza della sopravvivenza oltre la morte. La storia nel cristianesimo è
concepita come redenzione nel presente, per una colpa commessa nel passato, e
come speranza di salvezza nel futuro. Il senso cristiano della storia svuota di
senso la morte, depotenziano la vita presente a vantaggio della speranza di una
vita futura.
Le comunità
culturali dell’antica Grecia ebbero una visione della vita materialistica e
edonistica, fondata sulla centralità dell’uomo e della natura (physis).
Era la razionalità, quella dell’uomo e quella della natura, a occupare
prevalentemente l’interesse dei greci. Tutti gli ideali erano terreni e con il
sopraggiungere della morte terminava per sempre la vita. L’oltretomba era
immaginato come il mondo del non essere. Primeggiavano le virtù eroiche (areté),
l’impari lotta dell’eroe contro l’oscura e misteriosa forza del Fato. Il divino
era un’idealizzazione scaturente della fragilità umana, un bisogno per vincere
la paura dell’ignoto; perciò si rappresentava in forme e caratteristiche umane
e si onorava ottemperando a norme cultuali prestabilite dalla tradizione, dalla
cui osservanza si speravano protezioni per sé e per l’intera comunità-stato.
Criticare il culto degli dei, o metterne in dubbio la loro esistenza, si
rischiava d'incorrere nel delitto (religioso e politico) di empietà, passibile
di condanna per abbandono della loro protezione (ateos). Ciò non
ostacolò l’espressione del libero pensiero, la critica riguardo alla veridicità
dei miti e la generale diffusione dell’incredulità dovuta alla disattesa
manifestazione della giustizia divina e all’incapacità degli dei d’impedire il
male nel mondo.
Euripide,
nella tragedia “Bellerofonte”, mise in dubbio l’esistenza degli dei,
rispecchiando un comune sentire del popolo. Attraverso i personaggi delle
tragedie “Edipo a Colono” e “La Fenicie”, egli criticò l’ingiustizia degli dei,
perché non perseguivano i malvagi e lasciavano soffrire i buoni. In “Oreste”,
traspare la condizione umana asservita all’ineluttabile volontà degli dei e del
Fato. In “Medea”, Euripide evidenziò l’impotenza umana di fronte alle trame e
alla malevolenza degli dei. In “Elena”, dubitò dell’esistenza degli dei,
concepiti come immagini create dal pensiero. L’irrazionalità umana, piuttosto
che il volere del Fato, è per Euripide causa permanente di sofferenza.
Aristofane, nella commedia “Le Rane”, taccia Euripide (già ridicolizzato in
“Acarnesi”) di ateismo, amoralità, corruzione. Euripide, infatti, attraverso i
personaggi delle tragedie, manifestava un atteggiamento scettico e
razionalista, perciò fu accusato e processato per empietà.
Eschilo, in
“Prometo”, e Sofocle, nelle tragedie “Filottete”, “Elettra” e “Le Trachinie”,
rimproverano gli dei per la loro ingiustizia e crudeltà, che opprimono i giusti
e causano sofferenze umane.
Melisso,
secondo Diogene Laerzio (IX, 24), affermò che sugli dei non bisogna
pronunciarsi, perché di essi non è possibile conoscenza. Democrito (e poi anche
Epicuro) attribuì l’invenzione degli dei e della religione al terrore provato
dagli uomini primitivi davanti a fenomeni celesti, malefici o benefici, di cui
non sapevano spiegarne la ragione; perciò essi immaginarono che fossero causati
da entità a loro superiori, dotate di straordinaria potenza. Dio (Theos)
è, dunque, l’eccezionale manifestazione di un evento fisico; perciò soltanto
attraverso lo studio della natura si possono comprendere i fenomeni naturali e
superare il timore degli dei. La natura, secondo Lucrezio, non richiede un dio
né tantomeno ha bisogno della sua provvidenza.
Pitagora,
fondatore di una scuola etica a carattere religioso – dogmatico, derivante
dalla dottrina salvifica orfica, credeva nell’armonia e nel misticismo dei
numeri (concepiti come enti astratti rappresentabili in uno spazio ideale) e
nella reincarnazione della natura umana in altra natura animata (metemsomatosi)
per scontare le colpe commesse durante la vita. Riteneva altresì che solamente
l’acquisizione della conoscenza scientifica potesse liberare l’uomo dal male
dell’ignoranza.
Ecateo di
Mileto fu il primo a criticare la tradizione mitologica dei Greci mediante
un’interpretazione razionalistica. Egli si mostrava spregiudicato e noncurante
per tutto ciò che allora era considerato sacro e inviolabile.
In Grecia, i
filosofi fisici naturalisti spiegarono i fenomeni naturali mediante cause
materiali, fisiche, non divine (dissacrazione della natura). La sostanza
fondamentale eterna (arché), da cui ogni cosa si era formata, era stata
di volta in volta individuata nell’acqua (Talete) o nell’aria (Anassimene) o
nel fuoco (Eraclito) o nel mescolamento di queste sostanze (radici dell’essere)
con la terra, in virtù di due forze cosmiche antagoniste, che determinano stati
di aggregazione (solido liquido gassoso etereiforme) e progressive selezioni
delle forme originarie (Empedocle). L’allievo di Talete, Anassimandro, pose il
fondamento del tutto nell’infinita forza della natura, indefinita (àpeiron),
di per sé ovunque generatrice delle cose. Egli sostenne la tesi della sfericità
della Terra. Con Anassagora si affina la concezione materialistica. Egli
concepì l’esistenza d’infinite sostanze primordiali (semi), aggregate da una
forza materiale (nous o intelligenza cosmica, non creatrice, non
finalistica). Per aver messo in dubbio la divinità degli astri fu accusato e
processato per empietà. Diogene d’Apollonia passava per ateo, perché spiegava
l’universo in termini fisici, ritenendo mere allegorie religioni e miti. Diceva
che niente diviene dal non essere e nulla perisce nel non essere. Eraclito
sostenne che l’unico fondamento della realtà è la materia (monismo
materialistico) e il perenne fluire di tutte le cose (pànta rèi).
Con Leucippo
e Democrito si pongono le basi scientifiche della casualità meccanica dei
processi naturali (l’essere – l’esistente) concepiti come combinazioni di
atomi: particelle invisibili dotate di movimento vorticoso, vaganti nel vuoto
(il non-essere - lo spazio). La realtà, dunque, concepita in termini
materialistici, consiste in un’infinità di atomi in continuo movimento e
trasformazione, da cui trae origine la pluralità materiale del cosmo in forma
di curva. In questa loro visione deterministica e meccanicistica, fisica e
cosmologica, in cui l’esistenza della materia è determinata dal caso e dalla
necessità, si escludono la creazione e la provvidenza divina nonché il
finalismo dei fenomeni naturali. Tale sarà anche il pensiero di Lucrezio. La
divinità, dirà Epicuro, se esiste, è ininfluente: non s’interessa degli uomini,
non è creatrice di materia, perciò la conoscenza naturalistica può fare a meno
della metafisica. Quanto alle regole comportamentali, individuali e sociali,
esse vanno osservate per la loro utilità, non per timore di castighi divini o
per meritare premi paradisiaci. Bene è godere sobriamente e gioiosamente i beni
della vita e i frutti del proprio lavoro (Meslier).
Dopo gli
esperimenti scientifici di Boyle, nel 1600, e le successive ricerche
sperimentali da parte dei chimici, furono individuati i veri e propri elementi
chimici (sostanze pure da cui non è possibile ottenere sostanze più semplici).
Tutte le altre sostanze presenti sulla terra (come le quattro supposte dai
filosofi naturalisti) sono scomponibili negli elementi che le formano.
Diagora di
Melo, discepolo di Democrito, accusato di empietà (asebeia) e ateismo,
fu bandito da Atene per aver criticato il culto degli dei, negata la divina
provvidenza, profanato i Misteri Eleusini, distogliendo molti dalla loro
celebrazione. Se gli dei, posto che esistano, non s’interessano degli affari
umani, tanto valeva disinteressarsi di loro. Anche Ippone di Reggio fu considerato
ateo perché negatore della religione. Affermava, infatti, che nulla esiste
fuori della materia. Le opere sulla religione scritte da Protagora furono
bruciate sulla pubblica piazza per manifesta incredulità. Egli negò la
possibilità di determinare l’esistenza o l'inesistenza delle divinità. Crizia
riteneva che le divinità fossero invenzioni umane allo scopo di rendere gli
uomini timorosi del castigo divino, qualora avessero trasgredito le leggi (religio
instrumentum regni). Ciò pensava anche Cicerone, cioè che la credenza degli
dei fosse uno strumento etico per tenere il popolo sottomesso. Senofane di
Colofone, che criticava l’antropomorfismo religioso di Omero e di Esiodo e
concepiva il divino come proiezione del sentire umano, affermò che intorno all’esistenza
degli dei possiamo avere soltanto opinioni, non certezze.
Aristippo di
Cirene, che dette inizio al materialismo edonistico della scuola cirenaica,
disprezzò convenzioni sociali e tradizioni. Fu cultore di uno stile di vita
libero e autosufficiente (possiedo, non sono posseduto), volto alla moderata
ricerca del piacere (hedonè), inteso come qualsiasi bene che dia
godimento (il che implica come disvalore la sofferenza e come valore la
felicità, ed esclude la ricerca metafisica e la contemplazione del divino).
Egesia di Cirene riteneva che la conoscenza fosse incerta e che gli eventi
fossero dominati dall’impersonale potenza del caso (tyche). Gli antichi,
secondo Prodico di Ceo, considerarono divinità tutte le cose utili per la vita
dell’uomo (così il fuoco divenne Efesto, l’acqua Poseidone, ecc.) e inventarono
il timore degli dei come spauracchio per i malvagi che riuscivano a eludere la
giustizia umana. Evemero affermò che gli dei erano stati uomini illustri,
divinizzati per aver reso servizi all’umanità. Che gli dei fossero creazione
degli uomini, è ciò che ritenne già Demade. Teodoro detto l’Ateo fu bandito
dalla città di Atene perché criticava i valori tradizionali e negava
l’esistenza di ogni divinità. Il fine della vita, secondo Teodoro, consisteva
nel raggiungimento del piacere, mediante la saggezza pratica, al fine di
conseguire un permanente stato d’animo gioioso. I filosofi cinici (Antistene,
Diogene di Sinope, Bione di Boristene, ecc.) escludevano la possibilità di una
qualche conoscenza e ponevano il raggiungimento della vita virtuosa
nell’estrema autosufficienza (autàrcheia), cioè nella drastica riduzione
dei bisogni. Con provocante libertà di parola (parresìa), disprezzavano
le convenzioni sociali e negavano le credenze religiose, opponendo a queste la
natura (physis). Enomao di Gadara criticava la credenza nei responsi
degli oracoli e nelle profezie, ritenendo che non provenissero dalle divinità,
poiché queste non si curavano minimante delle cose umane. Stilpone di Megara,
pur non credendo nella religione politeistica popolare, evitò di criticarla
pubblicamente. Nonostante questo suo prudente comportamento, fu condannato
all’esilio per empietà verso gli dei. Anche Socrate fu condannato per ateismo e
corruzione, perché accusato di non riconoscere le divinità tradizionali della
polis e d’introdurre nuove divinità e nuove pratiche religiose. Aristodemo il
Giovane irrise i credenti. Carneade, scettico radicale, svuotò di significato
la disputa intorno a Dio, data la debolezza delle argomentazioni tendenti a
provarne l’esistenza. Plinio il Vecchio denunciò l’imbecillità degli uomini nel
voler deificare tutte le cose. Tacito (An. XVI, 33) affermò che gli dei erano
indifferenti al bene e al male. Nelle sue Satire, Giovenale evidenzia il
carattere sanguinario delle religioni. Lo scettico Luciano di Samosata, critico
irriverente delle religioni e degli dei, che mette in ridicolo nei “Dialoghi”,
irrideva la credenza dei cristiani nell’immortalità dell’anima e nella cieca
obbedienza ai dogmi di un presunto dio crocefisso. La sua opera “Peregrino”,
infatti, è una parodia del cristianesimo.
Durante
l'età medievale, l’incredulità era diffusa tra il popolo e nelle corti dei
sovrani (Federico II). Tra gli intellettuali l’incredulità si esprimeva in
forme letterarie (come in Carmina Burana dei Goliardi). Il filosofo islamico
Averroè (Ibn Rushd) affermerà l’eternità del mondo e negherà la provvidenza
divina, l’immortalità dell’anima e la risurrezione dei corpi. Gli ebrei
Maimonide e Isaac Albalag accoglieranno, l’uno, l’idea dell’eternità del mondo,
l’altro, la dottrina della doppia verità: quella filosofica, contraria alla
fede; quella di fede, contraria alla ragione. San Tommaso, invece, sosterrà che
l'esistenza di Dio non è di per sé evidente, giacché la natura umana, tramite i
sensi, può avere conoscenza certa soltanto di cose materiali. Egli perciò
partirà dalla materia per dimostrare, attraverso cinque discutibili vie,
l’esistenza dell’Assoluto. Sarà poi Guglielmo di Occam che confuterà le cinque
prove di san Tommaso, tenendo separate e distinte la fede e la ragione.
Si fa
risalire al XIII secolo l’esistenza dello scandaloso e anonimo trattato “de
tribus impostoribus”, in cui sono qualificati come impostori Mosè, Gesù e
Maometto, fondatori dette tre religioni monoteistiche.