martedì 31 dicembre 2013


L’EBREO GESU’ TRA MITO E STORIA

"Rari e felici i tempi in cui è permesso di pensare ciò che si vuole, e di dire ciò che si pensa" (Tacito, Historiae, I,1)

LA CRITICA NON CONOSCE TESTI INFALLIBILI (Ernest Renan)


                

          Si ritiene, dal punto di vista della ricerca storica, che possa essere esistito un ebreo di nome Gesù, vissuto in Palestina nel I secolo dell’era volgare, maestro e predicatore itinerante, crocefisso a Gerusalemme dal procuratore romano della Giudea durante il regno dell’imperatore Tiberio. L’esistenza storica di Gesù poggia sulla documentazione a noi pervenuta (non abbiamo fonti scritte direttamente da Gesù né da testimoni oculari, ma soltanto copie di copie di traduzioni in greco, derivanti da fonti scritte in aramaico o risalenti a tradizioni orali, tramandate dalle varie comunità cristiane). Gli scritti (ritenuti) canonici, che compongono il Nuovo Testamento, attestano che Gesù fu considerato un profeta apocalittico, che pronosticava l’imminente fine della storia e l’avvento del Regno di Dio. Egli predicava al popolo esprimendosi nella lingua aramaica allora in uso tra gli ebrei della Palestina.

L’ebreo Giuseppe Flavio c’informa (nelle opere “Guerra Giudaica” e “Antichità Giudaiche”) che Ponzio Pilato fu prefetto romano della Giudea dall’anno 26 all'anno 36 dell’era volgare e che fu coinvolto direttamente nelle vicende di Gesù, di cui si limita ad accennare brevi notizie (che molti studiosi, ritengono siano state alterate o interpolate dai copisti, quindi reputate scarsamente attendibili). Accenna anche a Giovanni Battista e a Giacomo, fratello di Gesù. Altri cenni su Pilato si trovano nelle opere di Filone di Alessandria e dello storico romano Tacito.

Le Epistole (ritenute autentiche) scritte dall’apostolo Paolo sono i documenti più antichi del Nuovo Testamento. Si ritengono che siano state redatte tra gli anni cinquanta e sessanta, circa vent’anni dopo l’anno presumibile della morte di Gesù (30 dell’era volgare). La sua conversione deve essere avvenuta qualche anno dopo tale data. Prima della sua conversione, Paolo era stato un persecutore della setta cristiana, perché questi credevano che Gesù fosse il Messia atteso, Figlio di Dio, da lui risuscitato dalla morte e assunto in cielo alla destra del Padre. Per un ebreo come Paolo questa credenza era blasfema. Gli ebrei, infatti, attendevano un profeta inviato da Dio, discendente della stirpe di Davide. Egli sarebbe stato l’unto del Signore, predestinato a sollevare la potenza d’Israele, liberandola dai suoi nemici, prima di insediarsi sul trono per regnare in perpetuo. Altri ebrei, invece, credevano che il Messia sarebbe stato un potente sacerdote designato a governare il popolo d’Israele. Gesù, invece, giacché proveniva da una povera famiglia di artigiani della Galilea ed era stato crocefisso come un criminale, non poteva essere, secondo le Sacre Scritture, il Messia atteso, l’unto di Dio, ma un maledetto da Dio. Questo è ciò che verosimilmente avrebbe pensato Paolo prima della sua conversione.

Dalle Epistole di Paolo, scritte parecchi anni dopo la sua conversione, si desume che egli fosse certo dell’esistenza storica di Gesù, della sua missione come Messia presso gli ebrei, della sua condanna alla crocifissione, eseguita dall’autorità romana su istigazione dell’opposizione giudaica. Paolo, infatti, si era convinto che Gesù fosse il Cristo (Messia), il re atteso dagli ebrei, discendente dalla stirpe di Davide secondo la carne. Egli accenna ai fratelli di sangue di Gesù (indicati nel Vangelo secondo Marco) e alle sue sorelle. Ha conosciuto personalmente Giacomo, fratello di Gesù. A Gerusalemme ha trascorso con lui e con l’apostolo Pietro quindici giorni, acquisendo da loro conoscenze su Gesù. Sa che Gesù aveva dodici discepoli. Sa che fu un maestro, perché riporta talune sue massime. Conosce la tradizione sull’Ultima Cena di Gesù, consumata nella notte in cui fu arrestato. Crede che sia risorto dalla morte e apparso ai suoi discepoli. Crede nell’imminenza dell’ira divina nel mondo e nell’avvento del Risorto per giudicare i vivi e i morti.

Gli Atti degli Apostoli, redatti sotto il nome dell’evangelista Luca, descrivono, principalmente, l’attività missionaria di Pietro e di Paolo e riportano taluni loro discorsi, derivanti dalla tradizione orale. Si trovano notizie attinte da fonti indipendenti da quelle utilizzate dai redattori dei quattro vangeli. Un esempio è il racconto della morte di Giuda, che differisce da quello riportato nel Vangelo secondo Matteo. Si ha quindi negli Atti un’altra fonte indipendente da cui, insieme con le altre, può verosimilmente dedursi l’esistenza storica di Gesù. Nei discorsi di Pietro, Gesù è un uomo accreditato da Dio presso il popolo ebraico per operare prodigi in mezzo a loro, ma fu accusato e condannato a morte sulla croce. Dio però lo ha liberato dalla morte, risuscitandolo e costituendolo Signore e Messia per la salvezza d’Israele, nonché giudice dei vivi e dei morti. Nel discorso attribuito dall'autore al discepolo Stefano, Gesù è il Figlio dell’uomo che è stato elevato alla destra di Dio. Nei discorsi di Paolo, Gesù è il salvatore d’Israele, mediante il quale ottenere l’intera giustificazione (redenzione dell’uomo dalla condizione di peccatore), essendo insufficiente a tal fine la Legge di Mosè. Dio, inoltre, risuscitando Gesù, lo ha accreditato di fronte a tutti, designando lui, uomo, a giudicare il mondo con giustizia. Gesù, quindi, appare piuttosto come un uomo che ha ricevuto poteri divini, non come Dio. Si può da ciò dedurre che solo con l’andar del tempo le comunità cristiane hanno creduto che Gesù fosse Figlio di Dio sin dall’eternità, sceso sulla terra per redimere il genere umano. Altri, invece, diversamente da Paolo, sostenevano che Gesù fosse diventato Figlio di Dio perché era stato da lui adottato. Nel Vangelo secondo Luca, Gesù sarà chiamato Figlio di Dio, perché nato da una madre vergine, ingravidata dallo Spirito di Dio. Dio stesso, secondo Luca, testimonierà riguardo al Figlio, quando questi riceverà il battesimo da Giovanni Battista, inviando su di lui lo Spirito Santo nella forma di una colomba. Paolo, nella sua Epistola ai Romani, richiamando un’altra tradizione, dice che Gesù fu costituito Figlio di Dio, quindi Messia e Salvatore, dopo la risurrezione dalla morte. Questa tradizione trova conferma anche nel discorso di Paolo ad Antiochia, riportato negli Atti degli Apostoli, dove Dio lo genera come suo Figlio nel giorno della risurrezione.

I quattro vangeli canonici si ritengono che siano stati redatti e rimaneggiati da diverse comunità cristiane oltre trent’anni dopo i fatti ivi narrati. Quello che si ritiene sia il più antico dei vangeli, è stato redatto sotto il nome di Marco, compagno dell’apostolo Pietro. Essendo destinato alla comunità romana di formazione pagana, risente dell’influenza della cultura occidentale. I redattori di altri due vangeli, scritti sotto i nomi di Matteo (un apostolo di Gesù) e Luca (compagno di Paolo) almeno un decennio dopo il Vangelo secondo Marco, hanno solo in parte attinto le notizie da questo vangelo. Per il resto hanno utilizzato fonti diverse, indipendenti l’una dall’altra. Forniscono quindi resoconti alternativi sulla vicenda di Gesù. Quello secondo Matteo è stato redatto in ambiente di cultura giudaica e riflette le attese religiose del giudaismo messianico (credenza nell’imminente fine del mondo, seguita da un rinnovamento universale). Quello secondo Luca (pare che fosse un medico pagano di formazione classica) risente, in parte, della predicazione di Paolo. L’ultimo vangelo, quello secondo Giovanni (nome dell’apostolo di Gesù), scritto intorno alla fine del secolo, è quasi del tutto indipendente dagli altri tre.

Negli anni precedenti la stesura dei vangeli canonici, dovettero circolare diverse notizie su Gesù, fondate sia sulla trasmissione orale sia su vari scritti in aramaico, che furono diversamente interpretati dalle varie comunità cristiane. E’ verosimile che molti episodi siano stati ampliati o inventati a scopo di propaganda o adattati all’ambiente culturale delle varie comunità.

I vangeli apocrifi (come quelli attribuiti a Tommaso e a Pietro), scritti in epoca successiva, attingono a fonti indipendenti da quelle che hanno utilizzato i redattori dei vangeli canonici. I vangeli apocrifi, in genere, trattano aspetti leggendari della vicenda di Gesù.

Le Lettere cattoliche, scritte sotto il nome degli apostoli Giacomo, Giovanni, Pietro, Giuda, e le Epistole pseudoepigrafe, che sono state attribuite a Paolo, sono in parte un compendio di precedenti fonti, per il resto forniscono notizie indipendenti. La Lettera agli Ebrei è anonima e ha contenuto teologico. Altre testimonianze indipendenti sono reperibili nei frammenti di papiri superstiti. Anche l’eccentrica Apocalisse, attribuita all’evangelista Giovanni, ha notizie attinte da fonti diverse. L’autore dell’Apocalisse testimonia l’esistenza di un ebreo della tribù di Giuda, che soffrì per la salvezza dell’umanità e fu crocefisso per obbedienza a Dio, senza avere da lui conforto.

Tra le fonti non cristiane, se escludiamo l’ipotesi di falsificazioni da parte di copisti cristiani, abbiamo la lettera all’imperatore Traiano scritta all’inizio del II secolo da Plinio il Giovane, governatore della Bitinia (provincia romana nell’odierna Turchia). Plinio informa che i cristiani si riunivano illegalmente per cantare al mattino un inno a Cristo come se fosse un dio e per mangiare pasti in comune. La credenza nell’esistenza di Cristo (epiteto di Gesù), dunque, era già diffusa agli inizi del II secolo. Nella Vita dei Cesari, opera scritta tra il 119 e il 121 dell’era volgare dal biografo romano Svetonio, amico di Plinio il Giovane, leggiamo che l’imperatore Claudio espulse gli ebrei da Roma (forse all’inizio del suo regno nell’anno 41), poiché provocavano tumulti su istigazione di Chrestus (erroneamente scritto, invece di Christus). L’espulsione degli ebrei è confermata negli Atti degli Apostoli (At 18, 1-2). Verosimilmente erano tumulti scoppiati tra la comunità giudaica romana, ostile alla setta dei cristiani. Questi erano dai romani assimilati ai giudei. Ciò conferma che il cristianesimo era già conosciuto tra gli ebrei dimoranti a Roma circa un decennio dopo la tradizionale morte di Cristo. Nella biografia di Nerone, Svetonio accenna alla persecuzione dei cristiani, definiti “nuova e malefica superstizione”, avvenuta nell’anno 64 dell’era volgare, ma senza collegarla all’incendio della città. Dell’incendio ne parla Tacito nei suoi “Annali” (scritti tra il 108 e il 110), spiegando che i cristiani, essendo oggetto di comune diffamazione a causa del loro odio del genere umano, furono falsamente accusati da Nerone di aver provocato l’incendio che distrusse molti quartieri di Roma. Aggiunge che il nome Chrestianos derivava da Christus, che sotto il regno di Tiberio fu mandato a morte dal procuratore Ponzio Pilato. Prosegue rilevando che la funesta superstizione, repressa da Nerone per breve tempo, riprendeva poi forza non solo in Giudea, luogo d’origine di quel male, ma anche nell’urbe, dove atrocità e vergogne confluiscono da ogni luogo e ivi trovano seguaci. I tre citati autori romani, dunque, attestano che al principio del II secolo i cristiani adoravano come dio un ebreo, denominato Cristo, giustiziato in Giudea da Ponzio Pilato.

Scarsamente indicative sono le citazioni sui cristiani da parte di Tallo, di Sesto Giulio Africano e di Flegonte di Tralles, riportate dallo scrittore cristiano (della cui correttezza d’informazione si dubita) Eusebio di Cesarea. Scarsamente attendibili sono le citazioni riportate in alcuni testi di origine ebraica (come nel Talmud babilonese). Discutibile è la citazione “il saggio re dei giudei” riferibile a Gesù nella lettera al figlio dello stoico siriano Mara Bar–Serapione (Mara figlio di Serapione). Tra le fonti di origine greca, che criticano la religione cristiana, abbiamo gli scritti di Luciano di Samosata (autore del II secolo, polemico nei confronti di ogni forma d’impostura e mistificazione, specialmente religiosa) e il perduto scritto (Discorso Veritiero) del filosofo Celso, ricostruibile attraverso i passi riportati nella confutazione di Origene.

La Prima lettera ai Corinzi, attribuita a Clemente, vescovo di Roma, stilata verso la fine del I secolo, testimonia l’esistenza umana di Gesù Cristo, inviato da Dio, che si è sacrificato per la nostra redenzione.

Il vescovo Papia, all’inizio del II secolo, nei frammenti a noi pervenuti attraverso la “Storia ecclesiastica” di Eusebio, racconta di aver raccolto testimonianze provenienti dai discepoli di Gesù e da questi tramandate oralmente ai loro successori. Su Marco dice che, divenuto interprete di Pietro, scrisse senza ordine tutto quanto Pietro ricordava delle cose dette e fatte da Gesù. Su Matteo dice che raccolse i detti in lingua ebraica, che poi ognuno tradusse, interpretandoli come poteva.

Il vescovo Ignazio di Antiochia scrisse all’inizio del II secolo sei lettere alle Chiese dell’Asia Minore e una alla comunità cristiana di Roma. Nelle sue epistole condanna i docetisti, cioè quei cristiani che negavano l’umanità di Cristo, convinti che egli fosse Dio sulla terra, essendo la sua incarnazione solo apparente. Egli credeva nell’incarnazione reale di Gesù e che lo stesso fosse stato perseguitato e crocefisso sotto Ponzio Pilato.

Le diverse e contrastanti notizie riportate dalle fonti sopra indicate vanno distinte tra quelle affidabili e quelle non affidabili sul piano storico. Le notizie che possono essere ritenute aventi una qualche affidabilità storica sono:

- che sia esistito un maestro ebreo apocalittico di nome Gesù, nativo di un piccolo villaggio della Galilea;

- che sia vissuto nei primi decenni del I secolo dell’era volgare nella Palestina sotto il dominio romano;

- che in Palestina al tempo di Gesù vi furono dissensi tra Samaritani, Farisei, Sadducei (considerati collaboratori dei romani), Esseni e religiosi messianici (che fomentavano una rivolta politica e militare contro gli invasori romani);

- che Gesù fu discepolo di Giovanni Battista, che prefigurava l’imminente fine dei tempi;

- che predicò agli ebrei con parabole un messaggio sull’imminenza dell’avvento del regno di Dio e sulla sconfitta delle forze del male che controllavano il mondo;

- che ebbe diversi discepoli;

- che esortava i seguaci ad abbandonare famiglia, casa, attività allo scopo di occuparsi esclusivamente dell’imminente avvento del regno di Dio;

- che si riteneva fosse capace di guarire gli infermi, scacciare i demoni e risuscitare i morti;

- che non disdegnava di frequentare poveri, emarginati e prostitute;

- che ebbe dissensi con le autorità giudaiche provocando scompigli;

- che fu da esse accusato presso il tribunale romano di blasfemia, sedizione e alto tradimento;

- che fu tradito da un suo discepolo;

- che fu condannato alla crocifissione da Ponzio Pilato per essersi dichiarato “re dei giudei”;

- che il suo messaggio fu elaborato e divulgato dai suoi discepoli anche fuori d’Israele, dove continuarono i dissidi dottrinali tra cristiani e giudei.

Molte altre notizie sulla vicenda di Gesù, desumibili dalle suddette fonti, potrebbero essere o mere invenzioni dottrinali o fantasiose esagerazioni a scopo di propaganda. Occorre perciò verificare ogni singolo episodio per affermare o negare l’attendibilità storica degli eventi. Ad esempio, non appaiono storicamente affidabili le seguenti notizie di aspetto leggendario o d'interpretazione teologica:

- che Gesù sia nato a Betlemme a causa di un censimento che avrebbe obbligato la sacra famiglia a spostarsi dalla Galilea alla Giudea;

- che sia nato da una donna sempre vergine e senza peccato, ingravidata dallo Spirito Santo;

- che Gesù sia l’incarnazione del Figlio di Dio, seconda ipostasi della Trinità divina, imperante ab aeterno nel Regno dei cieli e inviato dal Padre sulla terra a redimere l’umanità;

- che abbia compiuto prodigi, guarigioni miracolose e risuscitazioni di cadaveri;

- che sia risorto dalla morte e asceso in cielo, dove risiede alla destra del Padre.

Del tutto inattendibili sono talune presunte reliquie (come il prepuzio asportato a Gesù con la circoncisione o i legni della croce e i chiodi con cui è stato affisso o il calco della sua immagine sulla sindone), conservate e venerate nelle chiese cattoliche.

Dalla persona del Gesù storico, dunque, va distinta la successiva reinvenzione dottrinale e dogmatica della Chiesa docente, cioè il cristianesimo teologico del cattolicesimo, che interpreta i presunti avvenimenti reali caricandoli di (cioè sostituendoli con) significati, figure, verità di fede, presunti disegni divini, visione unitaria e provvidenziale della storia, cui attribuisce valore universale. Ciò che può essere oggetto di fede per i credenti, lo è di critica per i non credenti, a ragione del male compiuto dalla religione cristiana nel corso della sua millenaria storia (fermo restando la positività per le buone opere compiute e che compie) e delle tante assurdità teologiche e dogmatiche (come la credenza nella resurrezione dei corpi, che saranno ricongiunti all’anima alla fine dei tempi, o come la credenza nella favola dell’inferno per i probi e del paradiso per i meritevoli o come il dogma dell’infallibilità del papa).

Altri studiosi, critici della figura storica di Gesù, ritengono che la sua esaltazione sia dovuta a un processo di progressiva storicizzazione di personaggi mitici, come Horus, Mitra, Attis, Zarathustra, ecc. A partire dal IV secolo, anche la madre di Gesù fu mitizzata nell’archetipo della Grande Madre, venerata sin dai primordi dell’umanità come dea partenogenica, onnipotenza generatrice di tutti gli esseri viventi e di figli divini. Dopo il Concilio di Efeso del 431, la madre di Gesù è venerata come theotokos, colei che ha partorito la divinità, cioè Madre di Dio.


Lucio Apulo Daunio



mercoledì 25 dicembre 2013






A COSA SERVE LA RELIGIONE



A cosa serve la religione? A conservare il potere della casta sacerdotale, che si avvale della falsa idea che essa sia un bene necessario per l’umanità, giacché servirebbe a frenare le tendenze esplosive della società. Idea questa fondata sulla falsità di una credenza, come quella della religione cristiana, che afferma l’esistenza di un essere trascendente, antropomorfizzato in un giudice implacabile, che premia chi osserva le sue (presunte) leggi e punisce per l’eternità chi a esse non ottemperi. In verità, della trascendenza non abbiamo alcuna comune esperienza, essendo l’aldilà una mera credenza, una speranza, un’idea idolatrata che non ha riscontro nella concreta realtà. Ciò che deve essere considerato giusto o ingiusto non proviene dalla volontà di una supposta divinità, essendo invece un prodotto della ragione umana elaborato nel corso della sua lunga storia, condizionata dai limiti posti dalla natura dell’uomo. Ciò che si desidera in sommo grado non per questo debba essere necessariamente vero.

Le religioni si auto riproducono con la vendita del sacro e il condizionamento del sistema educativo, imposto sin dalla più tenera età. La formazione culturale religiosa di un popolo condiziona il potere della pubblica opinione, favorendo così la crescita della domanda religiosa.

Secondo la religione cristiana, Dio, creatore dell’universo (prima nulla esisteva, eccetto Dio), si è fatto uomo, nascendo da una madre (sempre) vergine e immacolata, per redimere l’umanità da una (presunta) colpa originale (l’offesa fatta a Dio da Adamo ed Eva). Dio, per placare la sua ira, s’incarna nel Figlio Gesù (l’ebreo detto Cristo, cioè Messia, l’Unto del Signore, che era il titolo dei re d’Israele), sacrificandosi sulla croce, ignominia riservata ai criminali. Un dio però non può morire, perciò risuscita dopo un giorno e mezzo (non dopo tre giorni, come Gesù aveva predetto) per ritornare nel suo fantomatico regno dei cieli. Gesù, divinizzato dai suoi discepoli, lascia loro in eredità un testamento: l’investitura divina di un potere indiscusso sulla terra, che consiste nell’interpretare la divina volontà fino a quando egli ritornerà in potenza nel mondo a giudicare i vivi e i morti, condannandoli o premiandoli per l’eternità. Questi dogmi, sanciti nel Credo stilato dal Concilio di Nicea nell’anno 325 dell’era volgare, sono stati imposti, anche con l’uso della violenza, e si pretende d’imporli con l’attività missionaria all’intera umanità. Tali dogmi, spacciati per verità sacrosante rivelate da Dio, costituiscono l’atavico bagaglio culturale del fedele cristiano, psicologicamente soggiogato dalla (supposta) promessa di ottenere il premio della vita eterna, dopo essersi purificato da una colpa collettiva da scontare. Il monopolio della verità, che la religione cristiana pretende di possedere, è posto in discussione dalle altre organizzazioni religiose, che pretendono ciascuna di possedere una verità e dominare nel mondo in nome di una divinità o di un’idea idolatrata. L’assoluta verità degli uni genera intolleranza verso le altrui verità. Chi non è con me è contro di me – dice il Gesù dei Vangeli - e deve essere gettato fuori dalla comunità e messo nel fuoco a bruciare per l’eternità. Non vi sono mezze misure nella fede cristiana; perciò, chi la rifiuta o non si adegua a essa, deve essere considerato peccatore e trattato come un nemico. Nemici della religione cristiana sono quindi tutti i peccatori, cioè coloro che, dando ascolto al demonio, trasgrediscono le (supposte) leggi divine. Costoro, se non si redimono, sono considerati nemici della fede cristiana, perciò suscettibili in questo mondo e nell’altro di condanne (persino capitali, come la storia criminale della chiesa cristiana e i processi della Santa Inquisizione documentano). Molti eretici (come anche tante presunte streghe, accusate di magia, crimine assimilato all’eresia), sono stati bruciati vivi sul rogo con il pretesto di redimere le loro (presunte) colpe e salvare le loro anime. Perseguitati sono stati anche gli ebrei, accusati di deicidio.

Quando iniziarono i cristiani a uccidere in nome di Dio? La storia criminale del cristianesimo inizia dopo l’Editto di Milano del 313, con cui Costantino concesse ai cristiani la libertà di professare la loro religione al pari delle altre. Già nel Concilio di Nicea del 325 fu decretata la pena di morte per chi fosse trovato in possesso di un libro scritto dall’eretico Ario. Nel 347, in una sua opera, l’apologista Firmico Materno esortava gli imperatori Costanzo I e Costante I ad abbattere i templi pagani e a uccidere gli idolatri. Nel 388, il vescovo di Milano Ambrogio incitava a bruciare le sinagoghe. Nel 415, su istigazione del vescovo di Alessandria Cirillo, che giustificava le stragi compiute dal popolo di Dio, i cristiani trucidarono la filosofa e scienziata Ipazia. Ci furono massacri anche tra opposte fazioni cristiane nel 366, durante le elezioni tra gli aspiranti al trono del Papa, come racconta lo storico pagano Ammiano Marcellino. Anche in seguito ci furono scontri tra opposte frazioni cristiane per l’elezione al trono pontificio. Taluni papi si uccisero tra loro (come Vigilio e Pelagio I), altri si posero alla guida dell’esercito pontificio (come Gregorio II, Leone IV e il bellicoso Giulio II). E gli eccidi tra i cristiani continuarono anche nei secoli seguenti.

A cavallo dei secoli IV-V, il dottore della chiesa Agostino ammise l’uso della forza per combattere l’eresia dei donatisti e giustificò gli omicidi compiuti in ottemperanza al comando di Dio (come documenta la Bibbia) o per giusta ragione stabilita da un pubblico potere. Egli, prendendo ad esempio gli episodi della Bibbia, in cui Dio legittima la guerra santa d’Israele, elabora la dottrina della guerra come giusta causa (ci deve essere una colpa), aggiungendo i presupposti della retta intenzione (la violenza deve essere finalizzata a ottenere la pace) e della legittima autorità. Dottrina ripresa e sviluppata da Tommaso d’Aquino, che aggiunge altri due presupposti: “ultima ratio” e “debitus modus”. Nel V secolo, Leone I Magno auspica contro gli eretici il ricorso all’autorità repressiva dello stato (braccio secolare). Nell’anno Mille, con Urbano II, al grido “Dio lo vuole!” inizia il periodo delle crociate contro gli infedeli musulmani. I soldati di Cristo, legittimati a uccidere i nemici della fede cristiana in nome di Dio, ricevono l’indulgenza plenaria dei peccati commessi. Nei secoli XII e XIII s’inasprisce la lotta cruenta della Chiesa contro eretici (crociata contro gli Albigesi) ed ebrei. Questi ultimi, falsamente accusati di praticare omicidi rituali di bambini, sono disprezzati per aver rifiutato di accettare Gesù come Messia. Il popolo ebraico, diffamato sin dalle origini del cristianesimo, e stato accusato di deicidio fino ai nostri tempi.

Per punire eretici e assimilati furono istituiti gli iniqui processi della Santa Inquisizione e furono redatti i manuali inquisitoriali. L’inquisizione medievale fu costituita nel 1184 dal papa Lucio III e fu poi estesa anche nella lotta contro la stregoneria. Innocenzo IV nel 1254 con la bolla “Ad extirpanda” introdusse l’uso della tortura. Nel 1400 Innocenzo VIII indisse la crociata contro i Valdesi e i processi contro le streghe. La persecuzione contro streghe ed eretici durò per altri tre secoli, provocando moltissime condanne al rogo. Sisto IV nel 1478 istituì l’inquisizione spagnola. Paolo III nel 1536 istituì quella portoghese e nel 1542 denominò Sant’Uffizio la Santa Inquisizione medievale. Sia quella spagnola sia quella portoghese furono estese nelle colonie americane. Paolo VI nel 1965 cambiò il nome al tribunale dell’inquisizione denominandolo Congregazione per (la propagazione del) la Dottrina della Fede.

Il papa nepotista Giovanni XXII, denominato "papa banchiere", nel 1300 istituì le tasse della penitenzieria, cioè le somme da pagare per avere la soluzione del relativo peccato, grave o meno che fosse. L’istituzione rimase in uso per molto tempo e fu periodicamente aggiornata ai valori monetari del tempo. Tale papa accumulò una fortuna vendendo prebende indulgenze e dispense. Nell’anno 1300 Bonifacio VIII istituì l’Anno Santo (Giubileo), concedendo l’indulgenza plenaria a chi si recava in pellegrinaggio a Roma, incrementando in tal modo la finanza della Chiesa. Il famigerato papa spagnolo Borgia (Alessandro VI), nel secolo della scoperta dell’America, assegnò (ritenendosi padrone, in forza dell’autorità divina, di tutte le terre sconosciute) in dono a Spagna e Portogallo tutte le terre ivi scoperte e da scoprire, al fine che fossero convertiti al cristianesimo i locali abitanti e che gli stessi fossero sottomessi al papa e ai re cattolici, pena gravi castighi. In realtà, gli indios furono schiavizzati e, quando non bastarono, i cattolicissimi coloni europei importarono nuovi schiavi dall’Africa. Nel 1500, il cattolico inglese Tommaso Moro, canonizzato come martire e venerato come santo, nella sua opera “L’Utopia”, giustificava in nome del diritto naturale l’espropriazione con le armi delle terre incolte dei nativi. Leone X, invece, per racimolare soldi per la costruzione della basilica di San Pietro, ricorse alla vendita delle indulgenze, provocando la rivolta di Lutero e la Riforma Protestante, che divise l’Europa cristiana. Questo è il secolo in cui fu istituita l’Inquisizione romana, denominata Sant’Uffizio. Il secolo della Controriforma (Concilio di Trento) e dell’inizio delle guerre di religione. Il secolo dell’intransigente Pio V, già inquisitore domenicano, che istituì la Congregazione dell’Indice, la cui funzione è di redigere e aggiornare tutti i libri da proibire. Il secolo in cui Gregorio XIII fece celebrare un te deum di ringraziamento per l’uccisione degli Ugonotti durante la terrificante strage avvenuta nella “notte di San Bartolomeo”.

Il Seicento inizia con l’esecranda esecuzione del filosofo Giordano Bruno, accusato di eresia (fu arso vivo sul rogo nella piazza Campo de’ fiori di Roma). uesto èQ Questo è il secolo della sanguinosa guerra di religione durata trent’anni. Il Settecento è il secolo in cui l’illuminato Benedetto XIV accredita la leggenda degli omicidi rituali compiuti dagli ebrei e impone il battesimo forzato, minando i diritti religiosi della minoranza ebraica. Nell’Ottocento, i papi Gregorio XVI e Pio IX, entrambi antisemiti, ostinati difensori del potere temporale, condannano come delirio la libertà di coscienza e reprimono le rivolte liberali. Durante il papato di Pio IX (ultimo Papa Re) accaddero due casi clamorosi di rapimento di bimbi ebrei per convertirli al cristianesimo: Edgardo Mortara, battezzato di nascosto dalla domestica cattolica, fu rapito dai gendarmi del papa e internato in un istituto religioso; l’altro, strappato alla famiglia, fu il romano Giuseppe Coen. Entrambi divennero emblema dell’intolleranza della Chiesa cattolica romana. Pio XI nel 1935 giustificava la guerra coloniale in Etiopia avvalendosi delle argomentazioni di Tommaso Moro. Nel 1936 sostenne la rivolta franchista contro il legittimo governo spagnolo. Nel 1939 Pio XII si congratulava per la vittoria della dittatura franchista, ma tacque di fronte alle tragedie del nazismo e ai massacri in Jugoslavia di serbi, croati, ebrei, musulmani e zingari. In seguito, avvalorò persino la liceità della guerra difensiva atomica biologica e chimica. Giovanni Paolo II nel 1982 confermò la validità della dottrina della guerra giusta. Nella visita pastorale del 1987 in America Latina, lodò lo zelo dei conquistatori e dei missionari per aver trasmesso ai nativi il messaggio cristiano, dimenticando di chiedere perdono per le torture inflitte dai religiosi evangelizzatori.

Il potere clericale, anziché cacciare i mercanti dal Tempio, ha intrapreso in proprio il fruttuoso commercio con l’istituzione dello IOR e della Banca Vaticana. Attraverso l’Opus Dei (quasi una setta, definita Santa Mafia, potente organizzazione finanziaria) ha intrapreso la scalata al potere di tutti i meccanismi di comando e delle istituzioni culturali. Avvalendosi d’istituzioni come i Legionari di Cristo, la Chiesa ha intrapreso la capillare diffusione nel mondo della (nefasta) dottrina cattolica.


Lucio Apulo Daunio

 

giovedì 31 ottobre 2013


Jordanus Brunus Redivivus

Trattato clandestino del Settecento



Nel trattato clandestino del sec. XVIII, Jordanus Brunus Redivivus, il suo anonimo autore costruisce un’immagine di un Bruno empirista, razionalista e anticattolico. Egli utilizza come fonte testi di Charles Sorel, scrittore del Seicento, per documentare le ingerenze della Chiesa negli studi filosofici e scientifici e per criticare la cultura religiosa, dogmatica e oscurantista, che ostacola il progresso delle conoscenze. L’obiettivo dell’autore è demolire il potere sacerdotale sulla cultura e screditare l’operato della Chiesa e i suoi aspetti di crudeltà nei confronti di molti intellettuali ritenuti colpevoli di empietà per le loro teorie eterodosse. L’autore cerca di dimostrare l’incompatibilità della concezione teologica dogmatica del cristianesimo con la conoscenza scientifica e la libertà di ricerca. L’autore dubita della natura divina delle Sacre Scritture, basandosi sulla considerazione che sono un prodotto umano e quindi soggette a corruzione, falsità, contraddizioni. L’intento anticlericale dell’autore si manifesta nell’esposizione delle teorie di Bruno, in cui risaltano le implicazioni antireligiose e la polemica contro il papato e la casta sacerdotale. La cosmogonia esposta nel libello è di stampo lucreziano.

L’anonimo autore teorizza il materialismo infinitista (auto-riproduzione del mondo secondo proprie leggi, senza l’intervento di un creatore). L’eternità della materia che ne consegue, tuttavia, non pregiudicherebbe l’esistenza di Dio, concepito come ente coeterno alla materia. Dio stesso, nella concezione cristiana, coesisterebbe dall’eternità nelle tre ipostasi della Trinità. La creazione nel tempo, invece, secondo l’autore, comporterebbe l’oziosità di Dio nel periodo precedente la creazione e in quello successivo, al termine della durata temporale del mondo. Qualunque sia la motivazione che ha indotto Dio a creare dal nulla (per esempio, per contribuire alla sua felicità), questa porterebbe Dio a una qualche dipendenza dalla sua creatura, e ciò incrinerebbe la sua supposta perfezione.

Se s’ipotizza che la materia e lo spirito sono sostanze del tutto diverse, ne consegue che un ente spirituale non può assolutamente creare un ente materiale, né può conoscerlo, perché se lo conoscesse, non sarebbe un essere del tutto spirituale, né tantomeno potrebbe materializzarsi. Se dio è infinito, non può creare qualcosa di altro da sé, perché ciò incrinerebbe il suo essere infinito. Se è infinito, occupa tutto lo spazio e in tal caso coincide con la materia. Se non occupa tutto lo spazio, allora non può essere considerato infinito. La natura è in grado di generare da se stessa il movimento e la vita; dunque è inutile sostenere la necessità di un creatore causante (monismo materialista). L’eterogeneità della materia nello stato liquido primigenio, spiegherebbe l’origine del movimento tramite l’azione reciproca dei diversi elementi, senza ricorrere a forze spirituali trascendenti.

L’ipotesi della pluralità dei mondi (infinitismo), teorizzata da Giordano Bruno, ha trovato conferma nella moderna concezione della poli-centralità dell’Universo (innumerevoli galassie con illimitati centri). La questione della pluralità dei mondi, però, incrina i dogmi del peccato originale e della redenzione. Ne consegue che la Bibbia, pur ammettendo che non sia un trattato di fisica astronomica, non può essere veritiera, dunque neanche ispirata da Dio.

L’anonimo autore denuncia i soprusi della classe sacerdotale, accusata di ostacolare il progresso delle conoscenze scientifiche. L’ingerenza della Chiesa nell’ambito delle teorie filosofiche e scientifiche, infatti, mirava alla difesa dei propri dogmi dottrinari e alla conservazione del predominio clericale sulla cultura. La libertà di ricerca scientifica e l’uso critico della ragione, invece, compromettevano il monopolio ecclesiastico sulla cultura, giacché mettevano in discussione la concezione cristiana di Dio e le verità rivelate dalle Sacre Scritture. La storia documenta la brutale repressione al libero pensiero e alla ricerca scientifica perpetrata dalla casta sacerdotale. L’esistenza del male e la libertà d’azione del maligno si pongono in netta contraddizione con l’infinita bontà e onnipotenza di Dio. Lo stesso vale riguardo alla salvezza, riservata a un numero esiguo di eletti: gli ebrei, prima dell’Incarnazione, i cristiani meritevoli, dopo l’assurdo sacrificio del presunto Figlio di Dio.

Nei primordi dell’umanità, secondo l’autore, non esistevano culti religiosi. La religione sarebbe stata originata dalla curiosità dell’uomo civilizzato d’indagare sull’origine dei fenomeni naturali. La difficoltà della ricerca, la limitatezza umana e la pigrizia non hanno consentito di perseverare nella ricerca sui processi naturali. Non accettando, per amor proprio, la sconfitta, l’uomo ha ipotizzato una Causa Prima incausata, invisibile, sconosciuta, incomprensibile, la cui onnipotenza spiegherebbe le concatenazioni causali dei fenomeni naturali. La conseguenza è stata di attribuire reale esistenza a un concetto astratto.

L’origine del fenomeno religioso, secondo la maggior parte degli autori dei trattati clandestini circolanti nel Seicento, è determinato dalla paura dei fenomeni naturali e dall’ignoranza delle cause dei medesimi. A un certo punto dell’evoluzione umana si è inserito chi, per cultura e furbizia, è riuscito a manipolare a proprio vantaggio la credulità popolare. Del resto, considerata la caratteristica d’irrazionalità del popolo e la sua incapacità di comportarsi secondo le norme di una virtù modellata in conformità ai dettami della ragione, si riteneva necessario un controllo politico-religioso conforme alla natura del popolo. Il ricorso esclusivo alla teoria dell’impostura è presente, nel Seicento, soltanto nel Testamento di Meslier; nel Settecento, la teoria dell’impostura della casta sacerdotale è ripresa sia dal deista Voltaire e dall’ateo D’Holbach, che contesta anche la teoria dell’utilità sociale della religione, concepita invece come un duplicato del potere politico all’interno dello Stato, sia dall’anonimo autore del “Trattato dei tre impostori”, che riprende ed elabora un precedente omonimo libello “De tribus Impostoribus”.

La metafisica non afferma mai ciò che è sul fondamento dell’esperienza e della dimostrazione oggettiva, bensì ciò che potrebbe essere secondo ragionamenti ipotetici e presunte rivelazioni. Ciò che potrebbe essere è creduto come ciò che è, verità di fede, eterna, infallibile, dogmatica. La ragione fondata sull’esperienza e sullo studio della natura è criminalizzata. Mettere in discussione le verità di fede con i lumi della ragione, si è passibili del delitto di empietà. Michele Serveto, per aver negato la dottrina della Trinità e quella della predestinazione, fu condannato a essere bruciato vivo come eretico. Stessa sorte toccò a Giordano Bruno, accusato di ateismo ed empietà, per aver affermato, tra l’altro, la pluralità dei mondi nell’infinità dell’universo. Anche Giulio Cesare Vanini, incolpato di ateismo e blasfemia, fu condannato alla pena capitale: taglio della lingua, strangolamento, rogo. Altri martiri del libero pensiero furono perseguitati dalla Chiesa, tra cui Campanella e Galilei. La disumanità e la violenza usata dalla Chiesa per diffondere il cristianesimo e per contrastare il libero pensiero, non hanno giustificazioni che possano redimerla.

Lucio Apulo Daunio

                

Per approfondimenti, si rimanda a:

Università del Piemonte Orientale

‎Filosofia e religione nella letteratura clandestina. Secoli XVII e XVIII, a cura di G. Canziani, Milano, Franco Angeli, 1994.

Philosophes sans Dieu. Textes athées clandestins du XVIIIe siècle, réunis par
Gianluca Mori et Alain Mothu, Paris, Champion, 2005

Mario Infelise, “I libri proibiti da Gutenberg all'Encyclopédie”, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009



domenica 13 ottobre 2013

CHE COSA E’ L’UOMO?

Articolo di Scienze Sociali


Che cosa è l’uomo? E’ esclusivamente il prodotto determinato dalla sua eredità naturale e dall’ambiente storico-culturale in cui è stato educato, oppure è il protagonista della sua storia, personale e sociale, di emancipazione dai condizionamenti dello stato di natura e dell’ambiente culturale storicamente determinato in cui vive? C’è discontinuità tra il regno naturale e quello umano? L’uomo ha una specifica particolarità naturale come ogni altro essere vivente, oppure ha qualcosa in più che gli consente di potersi svincolare dai condizionamenti naturali e storici? La sua vita mentale è determinata dalla materia, intesa sia in senso naturalistico sia con riguardo all’ambiente storico sociale in cui l’uomo vive, oppure egli ha una sua autonomia, una sua libertà, una sua ragione critica, una specificità che le consente di trascendere, di oltrepassare i condizionamenti naturali e storici? Può l’uomo evolversi dalla sua animalità, oppure tutto il suo modo di essere nel mondo è, per una parte, determinato alla nascita dalla sua innata eredità naturale e, per un’altra parte, determinato dall’ambiente culturale in cui è stato educato?

L’idea che l’uomo sia determinato dalla sua eredità naturale può degenerare nella credenza che, per natura, ci sarebbero dei buoni e dei cattivi, degli eletti e dei tarati, e che le capacità mentali dell’essere umano derivino prevalentemente da fattori ereditari, piuttosto che dall’influenza dell’ambiente in cui vive e dall’educazione che ha acquisito.

La concezione meramente materialistica e deterministica, nel senso che tutto il modo di essere dell’uomo è programmato esclusivamente dalla natura e dall’ambiente storico-culturale, può degenerare nella negazione della libertà umana. Il libero arbitrio dell’uomo sarebbe quindi un’illusione. E’, invece, proprio la libertà specifica dell’uomo, rispetto agli altri esseri viventi, di pensare con spirito critico e di riflettere su se stesso e sul mondo che lo ospita, che lo rende libero dai condizionamenti imposti dalla natura e dall’educazione. E’ proprio questa specificità dell’uomo che separa la sua umanità dall’animalità. L’animale è guidato dall’istinto specifico della sua specie che lo obbliga a un codice di comportamento. L’uomo, invece, ha bisogno di un’educazione, sia individuale sia sociale, di una cultura che si evolve e cambia e che lo riscatta dalla sua animalità. L’essere morale dell’uomo, invece, è determinato dalla sua condizione di libertà, che gli consente di svincolarsi da ogni condizionamento. E’ la sua libertà di scelta, determinata dal suo spirito critico, che lo separa dai condizionamenti naturalistici e culturali e gli consente di esprimere giudizi di valore universali, come quelli indicati nella Dichiarazione dei diritti fondamentali dell’uomo, validi per ogni persona, indipendentemente dalla sua appartenenza a una comunità etnica, religiosa, linguistica, nazionale. L’umanità, dunque, si differenzia dall’animalità in base al criterio della libertà, cioè della capacità d’interrogarsi sulla sua natura e di giudicare moralmente la realtà.

L’uomo, quindi, ha una sua specificità etico-culturale, che consiste nella coscienza di sé, ossia nella libertà di pensare con spirito critico e di interrogarsi, condividendo la sua esperienza con altri uomini. Ed è proprio questa sua libertà che consente all’uomo di costruire la sua storia nel mondo e fondare i suoi valori etici o commettere azioni malvagie.

L’etica aristocratica, fondata sull’ineguaglianza naturale nella ripartizione dei talenti, è elitista e naturalistica; perciò avvantaggia i migliori, dotati più degli altri di talenti naturali. La virtù dell’etica aristocratica consiste nel conseguire l’eccellenza mediante il talento innato. L’eccellenza è intesa come giusta misura, come perfezione della propria natura, come medietà tra posizioni estreme. Ciascuno deve trovare la sua sistemazione nella società secondo la sua natura innata.

L’etica meritocratica, fondata sulla competizione individuale, avvantaggia il merito piuttosto che il talento; favorisce il percorso formativo della personalità piuttosto che i risultati conseguiti. Il merito consiste nello sforzo effettuato per superare i propri limiti, piuttosto che nella realizzazione delle proprie capacità innate. Il talento, essendo un dono naturale, non ha alcun valore etico di per sé. La virtù ora consiste nella lotta della libertà contro i limiti della natura umana, contro ogni forma di egoismo e d’interesse particolare, contro ogni condizionamento. L’etica meritocratica è un’etica democratica e i suoi valori sono l’altruismo, la solidarietà, l’azione disinteressata, l’interesse generale, l’universalità. La virtù dell’etica democratica implica quella del dovere, ossia la capacità di resistere alla nostra natura egoistica, all’animalità. Dobbiamo trovare proprio in noi le ragioni per superare i nostri personali interessi. E’ la nostra soggettività che decide in ultima istanza a cosa dare o togliere valore.

L’etica utilitaristica, invece, mira non alla realizzazione delle doti innate né al superamento di sé, ma al benessere personale, mentale e fisico. Lo scopo dell’attività umana consiste nel conseguimento della massima felicità per il maggior numero di persone. L’etica utilitaristica è dunque universalistica e contraria all’edonismo egoistico.

L’esistenzialismo è la filosofia basata sulla convinzione che l’esistenza precede l’essenza. Nella filosofia classica e in quella cristiana, invece, è l’essenza che precede l’esistenza. In altri termini, l’ente divino concepisce prima l’idea dell’uomo, della donna e dell’universo, cioè l’essere; poi mette in atto la creazione che li fa esistere. Ciò presuppone una finalità dell’essere, creato dall’artefice divino. L’essere umano e il cosmo così concepiti devono risponde a un obiettivo, compiere una determinata missione (per esempio, l’uomo è stato creato per servire l’ente supremo e obbedire alle sue leggi). Se, al contrario, nessuna essenza precede la sua esistenza, se l’uomo non è stato progettato per uno scopo e, quindi, non è stato creato per realizzare tale scopo, allora ne consegue che l’uomo è libero, non condizionato dai comandamenti divini, bensì padrone del suo essere nel mondo. La sua dignità è nella sua libertà, nel suo non essere determinato da essenze preliminari alla sua esistenza. L’uomo che, negando la propria libertà, assume in malafede determinati ruoli psicologici o sociali, identificandosi completamente in essi, trasforma la sua umanità in un oggetto. In tal caso, sarà il ruolo assunto dall’uomo a determinare la sua esistenza. L’essere umano autentico, quindi, non è chi s’identifica in un ruolo, ma chi, distanziandosi da sé oggetto, si pone come soggetto che riflette e giudica se stesso e il mondo. In questa distanza della coscienza, che è solo soggetto, dall’oggettività delle cose del mondo, l’uomo dà un significato alle cose medesime e toglie loro l’essere in sé. E’ l’uomo responsabile del mondo, di se stesso e delle scelte che assume. Il conflitto tra gli uomini sorge dai differenti significati che ogni uomo dà alle cose del mondo.

Se l’essere umano non ha un senso determinato a priori, deve dare da sé e per se stesso un significato alla sua vita. L’esistenzialismo, dunque, si pone in antitesi alla teologia e a ogni genere di metafisica, che cercano sempre la causa dei comportamenti umani fuori di loro. La conoscenza deve fondarsi sulla concreta rappresentazione della realtà, che abbia non soltanto un senso reale nella nostra coscienza, ma anche una validità universale, non invece sulla contemplazione metafisica, che prescinde da ogni possibile esperienza. Un concetto astratto, di cui non sia possibile avere alcuna immagine sensibile, resta del tutto incomprensibile e non concretamente rappresentabile nella coscienza umana. Il linguaggio metafisico, dunque, è irrazionale, giacché fuori dalle esigenze di comprensione e di senso che sono quelle della coscienza reale degli uomini.


Lucio Apulo Daunio


Per approfondimenti, si rimanda a:
Che cos’è l’uomo – Sui fondamenti della Biologia e della Filosofia
di Luc Ferry e Jean-Didier Vincent

Presentazione di Salvatore Veca

venerdì 11 ottobre 2013


Liber de tribus Impostoribus

Il libro maledetto



L’anonimo autore sostiene che Dio esiste e che gli si deve prestare un culto, ossequiarlo come un potente da temere. Che cosa è Dio? Lo ignoriamo. Ignoriamo i suoi confini, perciò lo crediamo infinito. Crediamo che sia da sé originato, ma non comprendiamo il suo inizio. Lo crediamo creatore dell’Universo, ma non comprendiamo chi ha creato lui. Se non comprendiamo chi sia, allora Dio non esiste.

Che cosa significa esistere? Esistere nella materia è lo stesso che esistere nello Spirito? Se Dio esiste in un processo infinito nella dimensione spirituale, perché non deve esistere anche la materia in un processo infinito?

Che cosa significa rendere un culto a Dio, adorandolo? Non significa, forse, ossequiare i potenti, che pretendono di rappresentare Dio sulla terra? La diversità delle religioni e la varietà dei culti non sono l’effetto prodotto dalle diverse concezioni della divinità tra i popoli della terra? Possiamo credere che Dio voglia uccisioni e stragi di popoli per favorire un popolo eletto? Eppure il Dio d’Israele si è reso responsabile delle stragi compiute dall'egiziano Mosè e da Giosuè, nonché di aver ordinato ad Abramo il sacrificio del figlio Isacco. Non da meno si è reso responsabile l'arabo Maometto. Ugualmente responsabili sono i cristiani per aver perpetrato misfatti in nome di Dio. Non è ridicolo che Dio ingravidi con il suo Spirito una vergine per avere un Figlio divino: l'ebreo Gesù? Perché critichiamo uccisioni e unioni carnali delle divinità pagane se troviamo fatti simili nelle tre religioni monoteistiche? Possiamo fidarci di chi diffuse il suo credo religioso con l’uso dell’esercito o di chi fu condannato al supplizio della croce per aver fomentato il popolo alla disobbedienza della Legge? Non sono degli impostori colori che ingannano?

Per alcuni, Dio è confuso con la Natura, per altri è l’essere trascendente, invisibile e incomprensibile, cui si presta un culto per timore di punizioni o nella speranza di ottenere benefici. Non è ridicolo concepire un Dio che sottopone l’uomo alla tentazione dell’albero, pur prevedendo che avrebbe commesso una trasgressione? Eppure i cristiani lo adorano per il suo amore verso gli uomini. Forse è amore quello di aver punito incolpevoli generazioni per la trasgressione commessa dagli avi, di cui era in suo potere prevedere?  Non è Dio colpevole di premeditazione? Non è ridicolo il sacrificio del Figlio per redimere la colpa originale, pur sapendo Dio che era inevitabile, data l’imperfezione della natura delle sue creature?

Se Dio è l’essere più perfetto, che bisogno aveva di creare un mondo imperfetto e di essere onorato da creature infide? Non è verosimile che Dio è un’invenzione dei potenti per governare meglio gli istinti violenti del popolo, facendo loro temere l’enorme potenza di esseri invisibili e misteriosi, implacabili giustizieri? La casta sacerdotale non ricava il proprio tornaconto dalla credulità popolare, fingendo di essere in intima intesa con la divinità? La paura di ricevere dal giudice divino l’eterna punizione per il male commesso, induce l’uomo a invocare la mediazione di chi fa credere di avere il potere di intercedere presso la divinità per redimere le colpe degli uomini. Il potere della casta sacerdotale si accresce con l’invenzione di reliquie miracolose e santi benefattori, venerati come i pagani veneravano statue e ammassi di pietre come abitazioni dei loro dei.

Si dice che Dio esiste e a lui si deve un culto, ma chi esso sia non si sa, perché egli trascende i limiti del nostro intelletto. Se nessuno lo ha mai visto o conosciuto, essendo invisibile e misterioso, anche dopo essersi rivelato nel Figlio, perché si continua a credere che egli voglia essere conosciuto dagli uomini, se continua a essere inaccessibile al nostro intelletto? Perché si continua a credere a testimonianze di “scritture” contraddittorie e inverosimili? Perché si continua a credere alle frottole di sacerdoti, giudei, cristiani, maomettani e di altre fedi, che si contrappongono gli uni agli altri, invalidando gli uni la fondatezza delle credenze degli altri? E non sono queste fedi interdipendenti le une dalle altre: il giudaismo dal paganesimo, il cristianesimo dal giudaismo, l’islam da tutte le precedenti? Non si accusano reciprocamente d’impostura? Non sono in disaccordo su tutto? Qual è dunque la verità? Non è impostura abusare della credulità umana, ingannandola con la finzione di supposte divinità, per trarne vantaggi e benefici politici ed economici? Perché non chiamare impostori i fondatori di religioni, che convincono o costringono a credere, senza dimostrare ciò che affermano, chi non è educato a discernere il vero dal falso?

Le verità di religione non possono essere dimostrate perché non sono verificabili. Esse si fondano sul paradosso della fede, sulla credenza di immaginare vero ciò che si desidera che sia. Su una cosa le religioni sono concordi: nella pretesa di credere esistente un essere impossibile. La religione, dunque, giacché credenza in un essere presunto esistente, da cui i sacerdoti fanno discendere sacre e inviolabili norme divine, valide erga omnes, è un’impostura.

Lucio Apulo Daunio




Per approfondimenti riguardo al libello anonimo, si rimanda a:


https://it.wikipedia.org/wiki/ Trattato dei tre impostori

mercoledì 9 ottobre 2013


FORME DI MATERIALISMO E ATEISMO NELL’ANTICHITA’

 

“Empio non è chi rinnega le divinità del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica alle divinità”

(Epicuro)

“I soli possono tramontare e risorgere: noi, quando è tramontata la breve giornata della nostra vita, dobbiamo dormire un’unica notte perpetua”

(Catullo, carme 5)

«La paura primamente creò nel mondo gli dei»

(Stazio, Tebaide III, 661)

 

L’accettazione dell’ateismo (negazione-assenza del teismo) libera l’uomo dalla subordinazione a una supposta volontà divina e dalla credenza dell’ineluttabile fatalità del destino. La liberazione dalle credenze religiose e da qualsiasi altra superstizione (concezioni magiche, adorazioni astrali, ecc.) è una delle condizioni per l’uguaglianza tra gli uomini, giacché non più distinti con riguardo alle diverse fedi, che innalzano barriere immaginarie impedenti il raggiungimento di una comune etica sociale. Prometeo odia tutti gli dei, perché soffocano l’autocoscienza degli uomini asservendoli ai loro voleri.

Lo scetticismo verso le credenze religiose, si fonda sull’impossibilità di conoscere e dimostrare l’esistenza di supposte divinità. Ciò che non si conosce non può essere dimostrato. Dio o esiste o non esiste. Cercare una via di mezzo, affermando che l’esistenza o l'inesistenza di Dio siano ugualmente probabili, è un modo fallace di ragionare (argumentum ad temperantia), giacché la probabilità che esista l’inesistente non implica di per sé la verità di qualsiasi supposta esistenza. L’idea che esista qualcosa oltre la realtà materiale, non riconducibile a essa, è un concetto metafisico non supportato da una conoscenza oggettiva. Dio, trascendenza, sono termini concettuali, inconsistenti, irreali, astratti, accettabili solamente in un contesto personale di fede religiosa. Credere in qualcosa o in qualcuno non implica né verità né esistenza. Da ciò che non esiste nella realtà conoscibile, le religioni deducono molte assurdità, assunte dai credenti come sacre verità dogmatiche di fede, valide per tutti e ovunque. Dio, entità trascendente, è concepito come dispotico legislatore cui sottomettersi per non subire orribili pene eterne nell’aldilà. L’apocalittica presunta rivelazione di Gesù, supposto Figlio di Dio e Lui stesso Dio (assoluta assurdità teologica), riguardo all’imminente fine del mondo, non si è avverata. L’ostinata accettazione cieca della fede cristiana nell’escatologia ha prolungato in un futuro indeterminato il catastrofico accadimento. La fine dell’uomo e del mondo, in realtà, non dipenderà dall’economia della provvidenza divina, ma da cause naturali, fisiche.

Lo scetticismo riguardo alle credenze religiose si riscontra in quei reperti e scritti pervenuti fino a noi sin dalle più antiche civiltà. Ciò che possiamo apprendere da un antichissimo testo come l’Epopea di Gilgamesh è la rilevanza di un’esperienza di vita terrena piuttosto che la sopravvivenza dopo la morte. Il Canto dell’arpista, dedicato al faraone egiziano, invita a rallegrarsi dei beni della vita, essendo improbabile una seconda vita oltre la morte. Un’antica scuola di pensiero pre-induista, materialista e atea, negava l’esistenza di entità immateriali. L’etica confuciana non contempla l’aldilà.

La natura fisica nel pensiero greco è la struttura originaria, eterna, del mondo (Eraclito, fr. 37), le cui leggi sono governate dalla necessità (anànche). La necessità è ciò che deve essere nell’ordine naturale, che non può variare. La natura è armonia, calcolo matematico, regolarità, immutabilità. Dallo studio della natura ha origine il sapere scientifico. La natura è caratterizzata da una temporalità ciclica (kiklos), un ripetersi all’infinito. Tutto in natura ha un tempo, un ciclo di vita. Secondo Platone, l’uomo è libero perché non è condizionato dagli istinti come lo sono gli animali. L’uomo apprende la conoscenza dalla visione del mondo, dalla regolarità e ciclicità dell’ordine naturale. Egli, a differenza degli animali, ha consapevolezza (pre-visione) del suo destino, della ineluttabilità della morte. Dalla sua capacità di apprendere, l’uomo sviluppa la tecnica, con cui volge a suo vantaggio l’ordine della natura. In virtù della memoria, conserva il ricordo delle precedenti esperienze, progredendo nelle conoscenze. La sua previdenza lo rende consapevole dell’unicità e irripetibilità della sua vita. La speranza d’immortalità è una pia illusione, un inganno. La vita va vissuta pienamente, sviluppando al massimo l’eccellenza umana, fisica e psichica, espandendo la virtù (areté) nella giusta misura, senza travalicare i propri limiti, per non peccare di tracotanza (hybris). Dalla conoscenza della tragicità della sua vita, l’uomo apprende la necessità di dare un senso, uno scopo alla sua breve, corporale esistenza. Il dolore, per i greci, è parte costitutiva della vita, un’anticipazione della morte.

Nella concezione cristiana, invece, la natura è una creazione della volontà di Dio, posta sotto il dominio dell’uomo. Il dolore è l’espiazione per una colpa originaria. La sua cristiana accettazione apre la porta del paradiso, alla speranza della sopravvivenza oltre la morte. La storia nel cristianesimo è concepita come redenzione nel presente, per una colpa commessa nel passato, e come speranza di salvezza nel futuro. Il senso cristiano della storia svuota di senso la morte, depotenziano la vita presente a vantaggio della speranza di una vita futura.

Le comunità culturali dell’antica Grecia ebbero una visione della vita materialistica e edonistica, fondata sulla centralità dell’uomo e della natura (physis). Era la razionalità, quella dell’uomo e quella della natura, a occupare prevalentemente l’interesse dei greci. Tutti gli ideali erano terreni e con il sopraggiungere della morte terminava per sempre la vita. L’oltretomba era immaginato come il mondo del non essere. Primeggiavano le virtù eroiche (areté), l’impari lotta dell’eroe contro l’oscura e misteriosa forza del Fato. Il divino era un’idealizzazione scaturente della fragilità umana, un bisogno per vincere la paura dell’ignoto; perciò si rappresentava in forme e caratteristiche umane e si onorava ottemperando a norme cultuali prestabilite dalla tradizione, dalla cui osservanza si speravano protezioni per sé e per l’intera comunità-stato. Criticare il culto degli dei, o metterne in dubbio la loro esistenza, si rischiava d'incorrere nel delitto (religioso e politico) di empietà, passibile di condanna per abbandono della loro protezione (ateos). Ciò non ostacolò l’espressione del libero pensiero, la critica riguardo alla veridicità dei miti e la generale diffusione dell’incredulità dovuta alla disattesa manifestazione della giustizia divina e all’incapacità degli dei d’impedire il male nel mondo.

Euripide, nella tragedia “Bellerofonte”, mise in dubbio l’esistenza degli dei, rispecchiando un comune sentire del popolo. Attraverso i personaggi delle tragedie “Edipo a Colono” e “La Fenicie”, egli criticò l’ingiustizia degli dei, perché non perseguivano i malvagi e lasciavano soffrire i buoni. In “Oreste”, traspare la condizione umana asservita all’ineluttabile volontà degli dei e del Fato. In “Medea”, Euripide evidenziò l’impotenza umana di fronte alle trame e alla malevolenza degli dei. In “Elena”, dubitò dell’esistenza degli dei, concepiti come immagini create dal pensiero. L’irrazionalità umana, piuttosto che il volere del Fato, è per Euripide causa permanente di sofferenza. Aristofane, nella commedia “Le Rane”, taccia Euripide (già ridicolizzato in “Acarnesi”) di ateismo, amoralità, corruzione. Euripide, infatti, attraverso i personaggi delle tragedie, manifestava un atteggiamento scettico e razionalista, perciò fu accusato e processato per empietà.

Eschilo, in “Prometo”, e Sofocle, nelle tragedie “Filottete”, “Elettra” e “Le Trachinie”, rimproverano gli dei per la loro ingiustizia e crudeltà, che opprimono i giusti e causano sofferenze umane.

Melisso, secondo Diogene Laerzio (IX, 24), affermò che sugli dei non bisogna pronunciarsi, perché di essi non è possibile conoscenza. Democrito (e poi anche Epicuro) attribuì l’invenzione degli dei e della religione al terrore provato dagli uomini primitivi davanti a fenomeni celesti, malefici o benefici, di cui non sapevano spiegarne la ragione; perciò essi immaginarono che fossero causati da entità a loro superiori, dotate di straordinaria potenza. Dio (Theos) è, dunque, l’eccezionale manifestazione di un evento fisico; perciò soltanto attraverso lo studio della natura si possono comprendere i fenomeni naturali e superare il timore degli dei. La natura, secondo Lucrezio, non richiede un dio né tantomeno ha bisogno della sua provvidenza.

Pitagora, fondatore di una scuola etica a carattere religioso – dogmatico, derivante dalla dottrina salvifica orfica, credeva nell’armonia e nel misticismo dei numeri (concepiti come enti astratti rappresentabili in uno spazio ideale) e nella reincarnazione della natura umana in altra natura animata (metemsomatosi) per scontare le colpe commesse durante la vita. Riteneva altresì che solamente l’acquisizione della conoscenza scientifica potesse liberare l’uomo dal male dell’ignoranza.

Ecateo di Mileto fu il primo a criticare la tradizione mitologica dei Greci mediante un’interpretazione razionalistica. Egli si mostrava spregiudicato e noncurante per tutto ciò che allora era considerato sacro e inviolabile.

In Grecia, i filosofi fisici naturalisti spiegarono i fenomeni naturali mediante cause materiali, fisiche, non divine (dissacrazione della natura). La sostanza fondamentale eterna (arché), da cui ogni cosa si era formata, era stata di volta in volta individuata nell’acqua (Talete) o nell’aria (Anassimene) o nel fuoco (Eraclito) o nel mescolamento di queste sostanze (radici dell’essere) con la terra, in virtù di due forze cosmiche antagoniste, che determinano stati di aggregazione (solido liquido gassoso etereiforme) e progressive selezioni delle forme originarie (Empedocle). L’allievo di Talete, Anassimandro, pose il fondamento del tutto nell’infinita forza della natura, indefinita (àpeiron), di per sé ovunque generatrice delle cose. Egli sostenne la tesi della sfericità della Terra. Con Anassagora si affina la concezione materialistica. Egli concepì l’esistenza d’infinite sostanze primordiali (semi), aggregate da una forza materiale (nous o intelligenza cosmica, non creatrice, non finalistica). Per aver messo in dubbio la divinità degli astri fu accusato e processato per empietà. Diogene d’Apollonia passava per ateo, perché spiegava l’universo in termini fisici, ritenendo mere allegorie religioni e miti. Diceva che niente diviene dal non essere e nulla perisce nel non essere. Eraclito sostenne che l’unico fondamento della realtà è la materia (monismo materialistico) e il perenne fluire di tutte le cose (pànta rèi).

Con Leucippo e Democrito si pongono le basi scientifiche della casualità meccanica dei processi naturali (l’essere – l’esistente) concepiti come combinazioni di atomi: particelle invisibili dotate di movimento vorticoso, vaganti nel vuoto (il non-essere - lo spazio). La realtà, dunque, concepita in termini materialistici, consiste in un’infinità di atomi in continuo movimento e trasformazione, da cui trae origine la pluralità materiale del cosmo in forma di curva. In questa loro visione deterministica e meccanicistica, fisica e cosmologica, in cui l’esistenza della materia è determinata dal caso e dalla necessità, si escludono la creazione e la provvidenza divina nonché il finalismo dei fenomeni naturali. Tale sarà anche il pensiero di Lucrezio. La divinità, dirà Epicuro, se esiste, è ininfluente: non s’interessa degli uomini, non è creatrice di materia, perciò la conoscenza naturalistica può fare a meno della metafisica. Quanto alle regole comportamentali, individuali e sociali, esse vanno osservate per la loro utilità, non per timore di castighi divini o per meritare premi paradisiaci. Bene è godere sobriamente e gioiosamente i beni della vita e i frutti del proprio lavoro (Meslier).

Dopo gli esperimenti scientifici di Boyle, nel 1600, e le successive ricerche sperimentali da parte dei chimici, furono individuati i veri e propri elementi chimici (sostanze pure da cui non è possibile ottenere sostanze più semplici). Tutte le atre sostanze presenti sulla terra (come le quattro supposte dai filosofi naturalisti) sono scomponibili negli elementi che le formano.

Diagora di Melo, discepolo di Democrito, accusato di empietà (asebeia) e ateismo, fu bandito da Atene per aver criticato il culto degli dei, negata la divina provvidenza, profanato i Misteri Eleusini, distogliendo molti dalla loro celebrazione. Se gli dei, posto che esistano, non s’interessano degli affari umani, tanto valeva disinteressarsi di loro. Anche Ippone di Reggio fu considerato ateo perché negatore della religione. Affermava, infatti, che nulla esiste fuori della materia. Le opere sulla religione scritte da Protagora furono bruciate sulla pubblica piazza per manifesta incredulità. Egli negò la possibilità di determinare l’esistenza o l'inesistenza delle divinità. Crizia riteneva che le divinità fossero invenzioni umane allo scopo di rendere gli uomini timorosi del castigo divino, qualora avessero trasgredito le leggi (religio instrumentum regni). Ciò pensava anche Cicerone, cioè che la credenza degli dei fosse uno strumento etico per tenere il popolo sottomesso. Senofane di Colofone, che criticava l’antropomorfismo religioso di Omero e di Esiodo e concepiva il divino come proiezione del sentire umano, affermò che intorno all’esistenza degli dei possiamo avere soltanto opinioni, non certezze.

Aristippo di Cirene, che dette inizio al materialismo edonistico della scuola cirenaica, disprezzò convenzioni sociali e tradizioni. Fu cultore di uno stile di vita libero e autosufficiente (possiedo, non sono posseduto), volto alla moderata ricerca del piacere (hedonè), inteso come qualsiasi bene che dia godimento (il che implica come disvalore la sofferenza e come valore la felicità, ed esclude la ricerca metafisica e la contemplazione del divino). Egesia di Cirene riteneva che la conoscenza fosse incerta e che gli eventi fossero dominati dall’impersonale potenza del caso (tyche). Gli antichi, secondo Prodico di Ceo, considerarono divinità tutte le cose utili per la vita dell’uomo (così il fuoco divenne Efesto, l’acqua Poseidone, ecc.) e inventarono il timore degli dei come spauracchio per i malvagi che riuscivano a eludere la giustizia umana. Evemero affermò che gli dei erano stati uomini illustri, divinizzati per aver reso servizi all’umanità. Che gli dei fossero creazione degli uomini, è ciò che ritenne già Demade. Teodoro detto l’Ateo fu bandito dalla città di Atene perché criticava i valori tradizionali e negava l’esistenza di ogni divinità. Il fine della vita, secondo Teodoro, consisteva nel raggiungimento del piacere, mediante la saggezza pratica, al fine di conseguire un permanente stato d’animo gioioso. I filosofi cinici (Antistene, Diogene di Sinope, Bione di Boristene, ecc.) escludevano la possibilità di una qualche conoscenza e ponevano il raggiungimento della vita virtuosa nell’estrema autosufficienza (autàrcheia), cioè nella drastica riduzione dei bisogni. Con provocante libertà di parola (parresìa), disprezzavano le convenzioni sociali e negavano le credenze religiose, opponendo a queste la natura (physis). Enomao di Gadara criticava la credenza nei responsi degli oracoli e nelle profezie, ritenendo che non provenissero dalle divinità, poiché queste non si curavano minimante delle cose umane. Stilpone di Megara, pur non credendo nella religione politeistica popolare, evitò di criticarla pubblicamente. Nonostante questo suo prudente comportamento, fu condannato all’esilio per empietà verso gli dei. Anche Socrate fu condannato per ateismo e corruzione, perché accusato di non riconoscere le divinità tradizionali della polis e d’introdurre nuove divinità e nuove pratiche religiose. Aristodemo il Giovane irrise i credenti. Carneade, scettico radicale, svuotò di significato la disputa intorno a Dio, data la debolezza delle argomentazioni tendenti a provarne l’esistenza. Plinio il Vecchio denunciò l’imbecillità degli uomini nel voler deificare tutte le cose. Tacito (An. XVI, 33) affermò che gli dei erano indifferenti al bene e al male. Nelle sue Satire, Giovenale evidenzia il carattere sanguinario delle religioni. Lo scettico Luciano di Samosata, critico irriverente delle religioni e degli dei, che mette in ridicolo nei “Dialoghi”, irrideva la credenza dei cristiani nell’immortalità dell’anima e nella cieca obbedienza ai dogmi di un presunto dio crocefisso. La sua opera “Peregrino”, infatti, è una parodia del cristianesimo.

Durante l'età medievale, l’incredulità era diffusa tra il popolo e nelle corti dei sovrani (Federico II). Tra gli intellettuali l’incredulità si esprimeva in forme letterarie (come in Carmina Burana dei Goliardi). Il filosofo islamico Averroè (Ibn Rushd) affermerà l’eternità del mondo e negherà la provvidenza divina, l’immortalità dell’anima e la risurrezione dei corpi. Gli ebrei Maimonide e Isaac Albalag accoglieranno, l’uno, l’idea dell’eternità del mondo, l’altro, la dottrina della doppia verità: quella filosofica, contraria alla fede; quella di fede, contraria alla ragione. San Tommaso, invece, sosterrà che l'esistenza di Dio non è di per sé evidente, giacché la natura umana, tramite i sensi, può avere conoscenza certa soltanto di cose materiali. Egli perciò partirà dalla materia per dimostrare, attraverso cinque discutibili vie, l’esistenza dell’Assoluto. Sarà poi Guglielmo di Occam che confuterà le cinque prove di san Tommaso, tenendo separate e distinte la fede e la ragione.

Si fa risalire al XIII secolo l’esistenza dello scandaloso e anonimo trattato “de tribus impostoribus”, in cui sono qualificati come impostori Mosè, Gesù e Maometto, fondatori dette tre religioni monoteistiche.
Lucio Apulo Daunio