mercoledì 25 gennaio 2012


  ILLUSIONI CRISTIANE




Gli autori delle Sacre Scritture cristiane affermano che l’ebreo Gesù operò secondo le profezie dell’Antico Testamento. Queste annunciavano la venuta di un messia: il cristo, l’unto del Signore, il re consacrato d’Israele, che avrebbe riscattato il popolo ebraico dai mali del mondo. Questo messia, parola del Nuovo Testamento, sarebbe Gesù, elevato dai suoi epigoni a “Figlio di Dio”, l’essere divino che si è fatto uomo per salvare dal peccato originale l’umana gente. Gli ebrei, invece, che avevano adottato un dio tutto per loro, e che in forza di questa supposta potenza si consideravano privilegiati rispetto agli altri popoli della terra, non crederono al “verbo” predicato dall'apostata Gesù e ai presunti miracoli da lui compiuti. Negavano che egli fosse l’atteso messia e, tanto meno, che fosse figlio divino di Dio. Figuriamoci poi se potevano accettare che fosse consustanziale al Padre celeste, da cui, secondo la dottrina dogmatica cristiana, “procederebbe” (cioè, generato e non creato) assieme allo Spirito Santo. Al più potevano considerare Gesù come uno dei tanti profeti del tempo. Sospettarono che fosse un seguace del partito degli zeloti, i patrioti che in Israele fomentavano rivolte contro il dominio romano, mettendo in pericolo la sopravvivenza dell’intera nazione.

Che cosa ha fatto di rilevante durante la sua vita terrena il sedicente Cristo, Figlio di Dio, per farsi accreditare presso il suo popolo? Quali mirabili imprese egli ha realizzato per il benessere e la felicità dell’umana specie? Pur essendo in suo potere convertire il prossimo con l’aiuto dello Spirito Santo, pare che non godesse stima tra la sua gente e persino tra i propri famigliari. I suoi paesani, che lo conoscevano bene, poco mancarono che lo linciassero, tanto che dovette emigrare da Nazareth a Cafarnao, che pure maledisse per la pochezza di fede dei suoi abitanti. I dotti ebrei non credevano in lui, né che fosse l’atteso messia né un uomo saggio; figuriamoci poi se potevano credere che fosse un dio incarnato, figlio di un dio padre: roba da stracciarsi le vesti per la bestemmia pronunciata. La sua condotta non poté essere più tollerata dall’autorità giudaica. Abbandonato dai suoi discepoli, denunciato alle autorità religiose e politiche come empio sovversivo, Gesù fu condannato a una pena infamante: la crocifissione. I suoi compagni di sventura, dopo qualche tempo, fantasticarono su di lui, asserendo che egli in vita aveva predetto la sua resurrezione, della quale, peraltro, sono gli unici che ne danno testimonianza. Solo con la fede si può credere a ciò che la ragione dubita, in mancanza di prove concrete. In verità, in fede degli evangelisti, neanche i discepoli di Gesù crederono alla sua resurrezione, almeno fino a quando, in fede loro, ne ebbero la prova vedendolo apparire in carne e ossa. Tommaso si convinse solo quando toccò le sue piaghe. In realtà, ciò che appare verosimile della storia del Galileo, è l’ingloriosa fine della sua vita, la sua “passione”, del resto prevedibile dalla sua alterigia nei confronti dell’autorità costituita. Contestazioni, arroganze, dottrine eterodosse, imprecazioni (poco cristiane) lo resero inviso alle autorità religiose giudaiche. Morendo appeso sulla croce, da maledetto (Dt 21, 22-23), Gesù contaminò il suolo benedetto, che Jahvè aveva donato in eredità al popolo prediletto. Egli, condannato a morire sulla croce, non ha liberato il genere umano da un’atavica, biblica, leggendaria maledizione, annullandola (Ga 3, 12-14). Al contrario, s’è macchiato d’ignominia e di saccenteria, predicando dottrine velleitarie, contrastando le prescrizioni della Legge, apostatando dall’ebraismo. Di lui, persino gli apostoli dubitarono. Uno di loro lo ha persino tradito; un altro, il principe degli apostoli, pietra angolare dell’edificante chiesa cristiana, lo ha rinnegato. Tutti i fedelissimi fuggirono a gambe levate nell’ora più triste. In molti lo videro morire, ma solo pochi, in fede loro, lo videro risorto e di lui favoleggiarono, lasciando ai posteri contraddittorie testimonianze. Il mito del Cristo-Dio risorto, propagandato dall’incipiente cristianesimo in tempi in cui germogliavano credenze superstiziose, ha dato gloria immortale alle sue eroiche, tragiche gesta, a tutto vantaggio di un clero gerarchizzato, costituitosi in monarchia di diritto divino, il cui sovrano si reputa responsabile solo verso la divinità. I cristiani, in realtà, adorano un uomo divinizzato, che hanno proclamato re del cielo e della terra e triplicato in un dio uni-trino, ligio a condannare nel tribunale del suo regno celeste, con tremendo e inappellabile giudizio sommario, chi rifiuterà di credere e di sottomettersi ai diktat del suo terrestre vicario. Il papa, pontefice massimo della cristianità, giacché presume di rappresentare Dio sulla terra, si arroga il potere di sciogliere e legare “ad libitum” con validità in questo e nell’altro mondo (Lc 19, 27-28). Se Jahvè gioiva nel comminare maledizioni agli ebrei infedeli durante la loro esistenza terrena (Dt 28, 15 seg.), non da meno gioirono secoli addietro i cristiani, degni figli di un dio indegno, perseguitando e gettando alle fiamme i rami secchi (Gv 15, 6), cioè infedeli, eretici, streghe. La santa alleanza del clero con le autorità civili, l’intolleranza e il fanatismo degli inquisitori appartenenti agli ordini servili dei frati domenicani e francescani, la milizia gesuitica papalina: tutti si prodigarono a smorzare le ribellioni contro l’egemonia del potere ecclesiastico, mediante il terrore, le torture, la violenza morale e fisica.

Pia illusione è voler credere che possa esistere un dio giusto e benevolo, un padre che tutto può, tutto vede e a tutto provvede. Lo smentiscono i devastanti cataclismi, che diffondono sgomento e sofferenze nel mondo, senza distinguere i buoni dai cattivi. Se il mondo appare fatto per i furbi senza scrupoli, agli onesti non resta che scegliere: o rassegnarsi ai mali del mondo, illudendosi in una fede religiosa che predica la speranza di una futura ricompensa nell’aldilà; oppure attivarsi nell’aldiquà per migliorare la vita di tutti nel mondo reale, rispettando la natura che ci ospita. Non in Dio, bensì nella concretezza del nostro essere e agire nel mondo che va trovata la spiegazione alla nostra breve esistenza. Non esiste la “Verità”, ma una verità controllabile, verificabile, falsificabile. Il senso della vita è vivere un’esistenza singolare, senza eccessivo egoismo, immedesimandosi nei bisogni del prossimo. Cercare verità evanescenti nel trascendente, credere alle favole teistiche, è la conseguenza di un atavico bisogno di protezione, che accompagna l’umanità dalla notte dei tempi, spaventata dai terrificanti eventi della natura e da tutto ciò che ignora. L’alienazione prodotta dal cristianesimo genera il mito dell’eterna felicità in un fantomatico regno celeste, lontano dalla concretezza della vita reale. Le ultramondane beatitudini sono riservate a esclusivo beneficio degli eletti. Per la massa dei dannati, invece, si prospetta una penosa eternità. Il ricorso alla religione è un mezzo irrazionale per trovare conforto alle difficoltà del vivere. L’irrazionalità, peraltro, pervade anche la cultura laica, laddove sconfina dai valori razionali dell’agire umano, ed esalta quelli istintivi, emotivi, immaginifici, che portano a credere in realtà inesistenti.

L’umanità non ha bisogno di virtù soprannaturali, infuse da un dio misterioso e invisibile, correlate a un premio in un mondo irreale. Virtù umane sono quelle proprie di un’etica laica, trasfuse in un sistema di regole giuridiche, che educano alla responsabilità.  Guida utile per l’umana gente non è la virtù teologale della fede nella verità rivelata in tempi remoti da un dio trascendente agli eletti suoi fedeli, bensì la fiducia nel progresso della ricerca scientifica, da cui acquisire conoscenze e relative certezze immanenti a beneficio dell’umanità. Ciò che l’umanità deve perseguire, consapevole dei propri limiti, non è la virtù teologale della speranza nell’eterna visione beatifica di un dio ignoto, bensì la concretezza di una singolare, responsabile esperienza di vita. Utile non è la virtù teologale della carità verso il prossimo per amore di Dio, bensì l’impegno politico a rimuovere le cause che determinano la sperequazione della ricchezza e l’ingiustizia sociale. Il reciproco rispetto, la tolleranza nei riguardi delle altrui idee, l’interrelazione con le altre interiorità umane in un reciproco accrescimento di valori comuni, denota il carattere di formazione laica e civile delle persone e l’indelebile impronta di civiltà raggiunta da un popolo.

Penso, dunque posso dubitare delle mie certezze, dei miei parametri di giudizio. Sono un essere razionale, dunque indago la realtà con l’uso della ragione, affidandomi al metodo scientifico, avvalendomi del senso critico, controllando l’attendibilità delle conoscenze acquisite. Pensare è anche riflettere, ragionare, dimostrare, mettendo in discussione i valori in cui si crede, raffrontandoli con quelli cui non si aderisce. Questo processo dialettico, di confronto fra una pluralità di valori, caratterizza la libertà di un popolo in un determinato periodo storico. L’assolutizzazione, invece, genera l’intolleranza e il pensiero unico. Solo il reciproco, critico confronto con le altrui scelte, nei limiti di una civile tolleranza, e la ricerca di valori condivisibili potrà consentire la convivenza tra popoli che hanno diverse culture, favorendone la convivenza. Il progresso civile deve fondarsi sulla ragione e sulla conoscenza scientifica. Regresso è l’irrazionale spreco di risorse per innalzare templi in onore di divinità immaginarie, come anche il finanziamento della casta sacerdotale, che perpetua il proprio dominio propagando superstiziose credenze metafisiche alienanti le coscienze con illusorie speranze nell’aldilà. Non templi ma edifici idonei ai bisogni di vita dell’uomo servono a migliorare la qualità della vita. A che pro onorare la santità di una vita spesa per un’illusione, trascurando chi reca effettivi benefici all’umanità? Il bene supremo non va cercato nella cristiana illusione del regno dei cieli, né tanto meno nella speranza di una ricompensa da parte di un dio ignoto, ma nel coraggio di affrontare un mondo reale, costruendo la propria vita assieme a quelle altrui.

Allorquando la scienza dimostrò che la Terra è rotonda (anche se in paesi arretrati potrebbe esserci chi ancora crede che la terra sia piatta), fu definitivamente revocata in dubbio la validità delle verità propagate dalla fede giudaico-cristiana, i cui errori madornali, imposti con la violenza fisica e morale, hanno denotato l’atteggiamento settario dei seguaci del Nazareno. Lo stesso Agostino, il retore santificato e addottorato dalla Chiesa, ammise che, se fosse stata dimostrata la sfericità della Terra, le asserite verità del cristianesimo sarebbero falsità. Il cattolicesimo pseudo ecumenico del Vaticano, in preda a deliri di grandezza, si crede depositario dell’unica verità, ossia dell’unica falsità tutelata dalla legge per un comune sentire di un popolo educato religiosamente. Lo Stato ha legalizzato una superstizione che la Chiesa continua impunemente a propagandare con ingenti mezzi al mondo intero, abusando della credulità popolare. La complicità dello Stato, al riguardo, è riprovevole, perché, anziché salvaguardare i cittadini dagli altrui inganni, tutela giuridicamente gli ingannatori dagli attacchi demolitori dei liberi pensatori. La Chiesa dei cristiani, ancorché si copra sotto il vello del mite agnello, deve rispondere al tribunale dell’umanità d’efferati crimini e violenze. La cristianità si è macchiata di colpe scellerate: guerre di religione, genocidi, omicidi politici, violenza psicologica, aggressioni processuali, persecuzioni (pogrom), fanatismi (come l’uccisione della neoplatonica Ipazia per mano di esaltati e ignoranti monaci cristiani), processi inquisitori, torture, autodafé, condanne al rogo, divieti al controllo delle nascite, impedimenti al progresso culturale e scientifico, interdizioni all’esplicazione del libero pensiero (indice dei libri proibiti), discriminazioni, castrazioni, perversioni sessuali (pedofilia), distruzioni, incendi di biblioteche (come quella famosa d’Alessandria d’Egitto), tratta degli schiavi, sradicamenti d’antiche culture, simonie, vendita d’indulgenze, commercio di false reliquie, truffe, falsificazioni di documenti (come la falsa Donazione di Costantino per giustificare la scalata al potere secolare; o come le Decretali dello pseudo Isidoro per avvalorare la tesi della sottomissione del potere temporale a quello ecclesiastico), e altre simili nefandezze. Le scuse del papa, per i misfatti compiuti dai cristiani nel nome del loro dio, non potranno giammai zittire le coscienze né essere obliate dalla memoria storica dell’umanità.     

Si diffuse nell’antichità la voce che il grande Pan, il dio che rideva e danzava, simbolo della forza vitale, era morto. Assieme a lui scomparvero anche gli antropomorfici dei dell’Olimpo. Deserto divenne il Pantheon, giacché l’Ellade era morta. Non scomparvero però altre imposture. Esse ancora pervadono le contrade del mondo, contaminando le coscienze con meste superstizioni. Tristi figure corvine gracchiano lodi a un uomo deificato. Oppressa è la libertà dell’uomo dal tirannico dominio delle religioni.

La gioia divamperà quando ogni illusoria divinità sarà rimossa dai sogni degli uomini.                                                                                                                                                                                                                                                                            
  Lucio Apulo Daunio
                                                                                                            

sabato 21 gennaio 2012


LA REDENZIONE CRISTIANA

              


            La redenzione è stata acquisita dai cristiani mediante il sacrificio del loro dio, il Cristo Gesù. Con la redenzione è stata stipulata una nuova alleanza tra Dio e un nuovo popolo (Eb 9, 12.24-28; 10, 10-14). Il sacrificio di Cristo si commemora con il rito della cena eucaristica (1 Co 11, 23- 27), formalizzata dalla Chiesa nella Santa Messa. Chi crede nel Vangelo, non solo trova ristoro per la sua anima (Mt 11, 28-30), ma riceve anche la remissione dei peccati (At 10, 43). Cristo, assumendo su di sé tutte le colpe degli uomini, li ha conciliati con Dio, ottenendo con il suo sacrificio la loro giustificazione al cospetto dell’Altissimo (2 Co 5, 14-15.18-21). Tale giustificazione, però, secondo la dottrina della Chiesa, bisogna meritarsela, aderendo incondizionatamente al cristianesimo nella versione del cattolicesimo. Nell’era della pace tra l’uomo e Dio, conseguente al sacrificio del Figlio, la giustificazione si attua per mezzo della fede in Cristo (Rm 5, 1; Col 1, 20). Chi ascolta la sua parola, espressa nei Vangeli redatti dalla Chiesa, e crede in essa, passa dalla morte alla vita eterna senza incorrere nel tremendo giudizio divino (Gv 5, 24). Nessuna spada di Damocle pende sul capo di chi è unito a Cristo (Rm 8, 1). Il sangue sgorgato dal suo sacrificio ha purificato dal peccato originale l’intero genere umano: egli solamente può intercedere presso Dio Padre a favore dei peccatori (1 Gv 1, 7; 2, 1-2). Paolo, però, accenna a una temporanea espiazione dei peccati attraverso il fuoco per conseguire l’agognata salvezza (1 Co 3, 15). Comunque sia, l’invenzione del fuoco purificatore (Purgatorio), cioè della pena transitoria da scontare prima di poter beneficiare del Paradiso, è servita alla Chiesa per soggiogare le coscienze dei credenti al dominio clericale e rimpinguare con prezzati suffragi i forzieri della banca vaticana. Ricamar fole è un’arte che accomuna tutte le religioni.

Tra le proficue invenzioni della Chiesa, dunque, spicca quella delle indulgenze, che consentirebbe di ottenere lo sconto, totale o parziale, della pena dell’ignis purgatorius. La vendita delle indulgenze e la simonia sono macchie indelebili che hanno diviso l’unità della Chiesa, diffamandola. I suffragi per le anime dei cristiani, ancorché morti in grazia di Dio, ritenuti necessari per abbreviare la pena temporanea del fuoco purificatore, sono stati legittimati con il dogma del Purgatorio, decretato nel XVI sec. dal Concilio di Trento. Non si comprende tuttavia perché il cristiano, cui sono rimessi i peccati, deve essere ulteriormente perseguitato col fuoco purificatore. Né tantomeno si comprende un dio contabile, che elargisce sconti di pena alle anime dei defunti in base alla quantità dei suffragi ricevuti. Gesù non ha prescritto indulgenze per i vivi né suffragi per le anime dei morti. Chi non si salverà, sarà punito nell’abisso dell’inferno, in eterno. Questa idea fissa della sofferenza: in terra, in cielo o chi sa dove, è una mania propria del cristianesimo. I beati, invece, dopo esser stati purificati nel Purgatorio, luogo di temporaneo supplizio, potranno godere le amenità paradisiache. Se la fede per ottenere la salvezza è un dono che Dio elargisce agli eletti, predestinandoli alla vita eterna (Rm 11, 2; 2 Co, 3, 5-6), può la fede provenire dalla volontà dell’uomo? Se la fede dipende da un’iniziativa divina (Rm 8, 28-30), l’arbitrio dell’uomo non è libero ma servo, come sosteneva Lutero. L’assoluta necessità della grazia, riguardo alla salvezza, è un principio elaborato dalla Chiesa. Del resto, le concezioni che prevedono un giudizio post mortem e una differenziazione delle pene in base alle colpe commesse, sono comuni anche ai pagani. Greci e Romani favoleggiavano di luoghi deputati alla felicità delle anime beate (Campi Elisi, Isole dei Beati), che immaginavano posti ai confini del mondo o sottoterra o sulla luna o nell’alto dei cieli. Per i rei, invece, c’era solo la via dell’oscuro e marcescente Tartaro. Non mancano concezioni che vedono nella morte il ripristino dell’originario stato dell’uomo, antecedente la nascita, e l’annullamento della memoria di sé. Forse, il vero e unico inferno, da cui l’uomo dovrebbe liberarsi, è l’angoscia di vivere una precaria esistenza, accettando invece l’opportunità d’essere e agire nel mondo, cosciente di vivere una singolare per quanto fuggente realtà.

Le milizie angeliche, spiriti servitori di Dio (Eb 1, 14), e le schiere dei santi, altolocati e venerati sugli altari delle chiese, non sono tutte invenzioni della casta clericale? Non sono già santi tutti i cristiani, lavati e giustificati con il battesimo? (1 Co 6, 11). Non ha Dio comandato di adorare e servire solo lui e il suo unico Mediatore, il Cristo Gesù, in virtù della sua oblazione come riscatto per tutti? (Mt 4, 10; Ap 22, 8-9; Col 2, 18-19; Ef 1, 20-21; 1 Tm 2, 5; Eb 9, 14-15). Non si arriva a Dio solo per mezzo del Figlio? (Gv 14, 6). Per essere da lui esauditi, non si deve pregarlo nel solo nome di Cristo (e non anche dei santi), essendo l’unico intercessore presso il Padre delle pecore a lui affidate? (Gv 14, 13 e 17, 9; 1Gv 2, 1-2). Perché si continua a favoleggiare sull’angelologia e sull’angelolatria, oltre che sulla demonologia? Se gli angeli nei cieli contemplano continuamente il volto di Dio, come possono custodire gli uomini? (Mt 18, 10). Essi non sono mica come Dio, che sta in cielo, in terra e in ogni luogo.

Gesù ha valorizzato, per chi intende farsi suo discepolo, la scelta radicale di rinuncia totale ai beni materiali e agli affetti familiari, promettendo loro una ricompensa centuplicata (Mt 19, 27-29 e paralleli). Il linguaggio di Luca (Lc 14, 26), al riguardo, è più incisivo. Egli usa il termine “odiare” riguardo ai parenti e persino alla vita medesima del “chiamato” da Cristo. La chiesa non è da meno, allorché acconsente ai “vocati” di ritirarsi nei vari conventi, abbandonando alla provvidenza divina genitori, coniuge e figli. Gesù, in verità, non ha preteso che i suoi discepoli andassero a seppellirsi vivi in conventi di clausura. L’unica condizione, che ha richiesto per la salvezza, è l’amore verso Dio e verso il prossimo, che richiede la rinuncia dei propri egoismi e l’abnegazione della propria vita per servire la causa di Dio (Lc 9, 23 seg.). La “rottura” da lui richiesta (Mt 10, 34-39) non implica l’abbandono o il disonore o il nocumento della propria famiglia (Mt 19, 9. 18; 22, 39), né vuole creare una “élite” tra i cristiani: tutti siamo chiamati e per tutti valgono le sue regole. Non è cristiano migliore degli altri chi mortifica la propria natura, votandosi ad un celibato ardente nel rifugio di un monastero. La verginità è una costumanza abominevole, contro natura, escogitata da frigidi e impotenti. Questa pratica repressiva del sesso, castrante e ossessiva, può causare patologie psichiche (ossessioni demoniache e mistiche visioni). Chi, se non la Chiesa, ha inventato il sacramento dell’Ordinazione ed ha elevato a dono di Dio il celibato e il nubilato con voto di castità? Non è più conforme alla natura umana il matrimonio, anch’esso elevato a sacramento dalla Chiesa e benedetto dalla parola di Dio? Egli ha ordinato all’uomo di lasciare i genitori per unirsi con una compagna e formare una nuova famiglia (Mt 19, 4-6; Gn 2, 23-24). Cosi sia, perdio, con o senza pretesca benedizione!

Riguardo alla verginità, Paolo dice di non aver ricevuto disposizioni dal Signore (1 Co 7, 25); tuttavia, consiglia di farsi eunuchi come lui. A chi è ancora celibe o nubile, suggerisce che resti tale, salvo che non sappia contenersi; in tal caso è preferibile che scelga gli sponsali (1 Co 7, 8-9), santo rimedio contro le impudicizie (1 Co 7, 2). Chi si sposa, però, deve sapere che avrà tribolazioni nella carne (!), perciò, se ha una moglie (o un marito), deve far conto di non averla (o averlo), cioè di non far sesso (1 Co 7, 27-29). La castità, ancorché lodata da Paolo, non è un merito e neanche è strumento di salvezza. Quanti sono le nubili e i celibi, che appaiono casti e candidi, ma sono simili a sepolcri imbiancati, belli a vedersi, ma all’interno pieni di putredine? (Mt 23, 27). All’uomo, che decide di ammogliarsi, non gli è più consentito ripudiare la moglie, se non per impudicizia: il matrimonio, dunque, è (quasi) indissolubile (Mt 19, 3 seg.). La donna, invece, non ha voce in capitolo, essendo sottomessa all’uomo. L’uomo, che ripudia la moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio. Vero è che la legge mosaica consente all’uomo il divorzio, ma ciò si giustifica con la durezza di cuore del popolo giudaico. Persino i discepoli di Gesù non si capacitavano riguardo all’indissolubilità del matrimonio. Il Cristo, in vero, può essere compreso, anche quando si esprime “apertis verbis”, solo da chi ha ricevuto dal Padre il dono dello Spirito Santo. Ogni dono, infatti, anche quello di comprendere il Figlio, proviene dal Padre (Gv 3, 27). Non c’è gran che da capire su quelli che si rendevano eunuchi, persino evirandosi, pur di conseguire l’agognato (e fantomatico) Regno dei cieli. Per le donne, che avessero voluto imitare gli eunuchi, non restava che l'infibulazione. Sarebbe opportuno, per amor del vero, che qualche divinità venisse a farci visita di tanto in tanto e mettesse per iscritto, di suo pugno, a chiare lettere, cosa pretende che si faccia di suo gradimento. Nell'attesa di una nuova epifania, ognuno si regoli come può. Intanto, ci si consoli con la ricorrenza festaiola che commemora l’epifania della divinità del Bambinello ai Re Magi in visita a Betlemme. L’insegnamento di Paolo, peraltro, fu contestato dalla setta giudeo-cristiana dei Nazareni, che possedevano il Vangelo integrale secondo Matteo, scritto in lingua ebraica, e onoravano il Cristo come uomo giusto, ma non lo adoravano come divinità.

L’apostolo che è stato arruolato nella milizia di Cristo non deve più impicciarsi degli affari della vita (2 Tm 2, 4). Ma chi più della casta dei preti, seguaci degli apostoli, se n’è impicciato? Quanti di loro hanno ambito più al regno temporale che a quello dei cieli? Essi sono colpevoli d’orribili tirannie e di sanguinose guerre. Hanno eccitato i popoli cristiani a combattere in nome di Dio, mettendosi persino alla testa degli eserciti. Hanno ucciso i loro nemici, mandato sul patibolo gli oppositori e bruciato sul rogo gli eretici e i loro scritti. Hanno detronizzato o intronizzato sovrani e ambìto i primi posti nel clero. Hanno praticato la compravendita di cariche ecclesiali (simonia) a scopo di lucro, vivendo nel fasto delle corti rinascimentali, ornati d’abiti lussuosi e monili preziosi. Hanno gozzovigliato, fornicato, praticato il nepotismo e altre nequizie. Si sono ingozzati con lauti pranzi e sollazzati con i buffoni e le cortigiane durante i banchetti, mentre dei mendicanti sostavano davanti ai loro sontuosi e ben agguerriti palazzi, implorando la carità. Questi falsi dottori non hanno insegnato né tantomeno applicato le sane parole di Cristo (1 Tm 6, 3-19). Hanno, all’opposto, messo in atto le opere della carne (Ga 5, 19-23) e, perciò, non possono piacere a Dio (Rm 8, 8-9). Per dirla con Machiavelli, per mantenere regno e privilegi hanno operato contro la fede, contro la carità, contro l’umanità, contro la religione.

Nelle prime comunità cristiane non vi era distinzione tra clero e laici, né vi era una parte eletta, ma tutti i cristiani appartenevano all’organismo sacerdotale regale (1 Pt 2, 4-10). Il clero ha assunto una posizione sociale dominante durante il corso del tempo, in forza di una presunta autorità derivante da Dio. Ha così signoreggiato sulla società politica e civile, divenendone eletta parte integrante. S’è persino arrogato il privilegio di esercitare il potere temporale, possedendo ingenti ricchezze e beni materiali con cui magnificarsi. Ha dominato il prossimo, anziché amarlo. Si è dato alle più sfrenate ambizioni e alla ricerca del proprio benessere, anziché perseguire la povertà di vita. Ha difeso i suoi privilegi con le armi, rifuggendo la pace. Ha rimpinzato i loro stomaci con cibi deliziosi, in barba ai miseri affamati, supplicanti briciole di carità cristiana presso gli usci dei loro palazzi. Il clero non ha amato Cristo, perché non ha seguito i suoi insegnamenti (Gv 14, 21-24), ma quelli di mammona. Si è inventato nuovi precetti ed ha imposto ai cristiani un giogo più duro di quello dell’antica Legge mosaica, che né gli apostoli né i loro “padri” avevano potuto sopportare né osservare (At 15, 10-11; 7, 53). Dei cattivi maestri hanno introdotto divisioni perniciose tra i cristiani, operando contro lo spirito di Dio. Pontefici mitrati si sono posti sopra e financo contro il diritto, assurgendo a dignità divina ed attribuendosi l’infallibilità “ex cathedra”. Pietro, invece, rimproverò Cornelio, che si era prostrato ai suoi piedi, invitandolo ad alzarsi e a non riverirlo come se fosse una divinità (At 10, 25-26). Egli non pretese riverenze né il bacio del sacro piede, ritenendosi un uomo al pari di Cornelio. A maggior ragione, chi si ritiene vicario di Cristo sulla terra, deve imitarne il modo umile di vivere. Il Figlio di Dio non possedeva un tetto dove reclinare il capo (Mt 8, 20). Egli insegnò ai discepoli di rifuggire la vanità, attribuendosi titoli onorifici, e di non cercare di primeggiare, bensì di farsi ognuno servitore di tutti (Mt 23, 8- 12).  Il passo di Matteo (Mt 16, 18-19), da cui la Chiesa fa risalire l’autorità vicaria del pontefice, è certamente spurio: una contraffazione di un’età posteriore a quella degli apostoli. A nessun apostolo in particolare Gesù attribuì la supremazia di rappresentarlo sulla terra, dopo la sua dipartita, primeggiando sugli altri cristiani, che sono tutti suoi degni successori. Egli non ordinò agli apostoli di possedere un regno sulla terra, difendendolo a spada tratta, come ha fatto la Chiesa, quando ha potuto alzare la cresta sul decadente impero romano, ricorrendo persino a falsificazioni (come la falsa donazione di Costantino per avallare il possesso di beni terreni). Il regno di Cristo, invece, non è di questo mondo. La sua eredità è stata travisata dai suoi epigoni, i maneggioni clericali fautori della teocrazia papalina e del primato della Chiesa sull’autorità civile.

I prosastici manipolatori del Verbo di Dio, costituitisi in casta sacralizzata, offrono sul mercato della fede la presunta verità di un Essere misterioso. La pretesa parola divina, resa inoppugnabile dalla dogmatica pontificale e dall’autorevolezza delle “auctoritates”, ha lo scopo di asservire l’intelligenza dei fedeli, sedotti dalla dotta speculazione metafisico-teologica, la non-scienza dell’Assoluto.


Lucio Apulo Daunio




domenica 15 gennaio 2012


I PRECETTI DI PAOLO



Paolo, nelle sue epistole, si lamenta di certi intrusi presenti nella comunità cristiana dei Galati (Ga 2, 4), che volevano imporre le prescrizioni e le rigide formalità della legge mosaica anche ai convertiti di cultura non ebraica. Questi falsi fratelli, spie di zelanti giudei della setta farisaica (At 15,5), indefessi osservanti della Legge (At 21,20), arrivarono persino a sollevare la folla contro Paolo nel tempio di Gerusalemme (At 21, 27 seg). Gli apostoli, per non rompere l’unità dei cristiani, la nuova setta dei figli d’Israele, furono necessitati ad accettare dei compromessi di convivenza religiosa, giacché all’inizio le conversioni avvenivano anche tra i non giudei. Spesso, però, nel tentativo di conciliare le opposte esigenze, assumevano atteggiamenti di doppiezza. Così fu il comportamento di Pietro, stigmatizzato da Paolo (Ga 2, 11-21), che a sua volta non fu esente da analoghi comportamenti (At 16, 3; 21, 15, 26). Paolo dovette a malincuore assoggettarsi alle osservanze giudaiche, lui che insegnava ai gentili a non osservarle, perché ritenute non necessarie per la salvezza. Non solo nelle comunità cristiane, secondo Paolo, s’intrufolavano falsi fratelli giudei, ma anche pseudo - apostoli, operatori d’inganni, maestri nel sovvertire la parola di Dio, che si mascheravano da angeli di luce al pari di Satana (2 Co 11, 13-16). Molti anticristi erano ormai sopraggiunti, forieri dell’ultima ora, quella dell’imminente apocalisse, dell’aspra lotta tra le forze del bene e quelle del male (1Gv 2, 18 seg.). I maestri dell’errore, anche se fossero stati angeli discesi dal cielo, poiché stravolgevano il vangelo predicato da Paolo, erano da lui votati alla maledizione divina (Ga 1, 6 seg.). I cristiani dovevano evitare questi operatori d’iniquità, che impudentemente osavano sedersi nel tempio di Dio, dove, innalzandosi d’autorità e parlando “ex cathedra”, si proclamavano suoi vicari sulla terra. Le vecchie formalità e consuetudini cultuali giudaiche, condannate sia da Paolo sia da Gesù (Mt 15, 1 seg.), additato come “Via, Verità e Vita” (Gv 14, 6), non potevano trovare posto nel vangelo. Il giudaismo, insomma, era incompatibile con il cristianesimo (Mc 2, 21, Mt 9, 16, Lc 5, 36). Il rappezzamento (l’accomodamento del Nuovo Testamento a quello Antico), infatti, era ritenuto peggio dello sdrucio (cioè dello strappo sul piano religioso). Paolo, quindi, votava alla maledizione divina tutti quelli che annunciavano dottrine diverse dal suo vangelo (Ga 1, 9), che considerava l’unica buona novella che il cristiano doveva accogliere (Gv 8, 47). Il corpo di Cristo non era rappresentato dalla comunità farisaica e mondana, ma dall’insieme dei credenti che vivevano in comunione di spirito con Dio, mantenendosi fedeli alla sua parola. L’uomo, a suo dire, era giustificato (redento) unicamente per la fede in Cristo (Ga 4, 10-11 e 5, 2; At 10, 42-43), nel nome del quale erano rimesse le sue colpe (1 Co 6, 11), essendo solo in lui la sapienza, la santificazione, la giustizia e le redenzione (1 Co 1, 30). Eletto di Dio, non era più il giudeo ma il cristiano (beato lui!). Ancor prima della creazione del mondo, il cristiano è stato predestinato a essere suo figlio adottivo (Ef 1, 47; 1 Pt 1, 2). Non con cerimonie né con riti né con altri mezzi diversi dalla grazia apportata da Cristo l’uomo poteva essere giustificato (Rm 3, 23-25). La chiesa cattolica, invece, ha una diversa opinione riguardo all’utilità delle cerimonie liturgiche e alla pratica sacramentale per conseguire la giustificazione e la salvezza.

Gesù, in verità, non ha istituito il culto delle anime dei cristiani morti in odore di santità, cosa che ha fatto la Chiesa, edificando maestosi templi in loro onore, riempiendoli d’altari, sculture e immagini dipinte che li rappresentano. La Chiesa ha permesso che si venerassero cadaveri mummificati e santificati e si adorassero feticci di Cristi, Madonne e santi, consentendo culti idolatrici, favorendo redditizi pellegrinaggi, inducendo all’ignobile commercio di false reliquie. Dio, in vero, ha riservato il culto solo a se stesso, da praticare nel segreto della propria intimità (Mt 6, 5-8; At 14, 8-18), non in santuari o templi o chiese (Gv 4, 21-24). Dio non riceve servizi dalla mano di un uomo, perché non ha bisogno di nessuno (At 17, 24-25). Non ha bisogno d’essere onorato e pregato in un tempio (Mt 6, 5 seg.; 18, 19-20). Ogni cristiano è tempio di Dio e vive in simbiosi con lui (1 Co 3, 16-17; 6, 15.17.19-20). Il nuovo popolo di Dio è santuario del Dio vivente, è organismo sacerdotale regale (1 Pt 2, 9-10). Il cristiano, per conseguire la vita eterna, deve venerare il divino Maestro, fidarsi incondizionatamente di lui, se non vuole incorrere nella sua ira (Gv 3, 36). Deve, se necessario, seguire l’esempio di Stefano e d'altri martiri, che ci rimisero la pelle per non venir meno all’insegnamento di Cristo (At 7, 1 seg.). Nel Vangelo non sono prescritti riti e cerimonie da officiare nei templi. Non sono richieste edificazioni di chiese sontuose per pregare. La grandiosità e la magnificenza dei templi materiali, eretti in tutta l’ecumene dalla vanità degli uomini in onore di Dio e dei suoi santi, offendono lo spirito umile del cristiano, l’ideale di povertà decorosa, la rinuncia ai beni materiali superflui. Gli unici templi graditi a Dio sono quelli spirituali, edificati nell’animo d’ogni cristiano. Dio non vuole essere idolatrato con profumi d’incenso. Egli vuole essere imitato sull’esempio di Cristo, il cui sacrificio è soave odore gradito a Dio (Ef 5,1-2). La Chiesa, invece, per rendere la fede dei credenti più solida, soprattutto tra i pagani convertiti, avvezzi alle raffigurazioni antropomorfiche della divinità, si è adeguata alle usanze idolatriche, ai sacri riti cultuali e agli allettamenti festivi della superstizione popolare. Le sacre feste interrompono la quotidianità per immergere in una diversa esperienza il pio credente, coinvolgendo la psiche in un trasporto di devozione con la divinità. Durante il sacro rito, il fedele è messo in relazione con il trascendente, sublimando il proprio spirito.

Se uno solo è il Vangelo di Cristo, chi ci garantisce che i testi a noi pervenuti riportino l’autentico annuncio di lui, il quale nulla ha lasciato per iscritto? Possono essere fonti dell’unica Verità quelle abborracciate testimonianze, raccolte nel canone del Nuovo Testamento, pervenute non in testi originali, che costituiscono un insieme dottrinario incoerente e contraddittorio? Basti pensare ai tanti sinodi e concili tumultuosi, e ai numerosi e veementi commenti e interpretazioni della Chiesa inerenti alle Sacre Scritture. Con quale autorità il pontefice massimo dei cattolici presume di essere l’infallibile vicario di Cristo sulla terra, arrogandosi diritti e poteri? Con quale autorità la Chiesa ha istituito cerimonie e riti e redatto pontificali, breviari, messali e simili in contrasto con il parco insegnamento di Cristo, che ripugnava rituali e formalità cultuali giudaiche? Sono i cattolici o le altre confessioni e sette cristiane che garantiscono la tutela delle autentiche tradizioni di Cristo? Stefano, pieno di grazia e di potenza, che faceva grandi prodigi e miracoli in mezzo al popolo, fu lapidato per la sua costante e coerente testimonianza alla fede di Cristo (la sua morte fu approvata da Paolo, il persecutore dei primi cristiani, non ancora convertito dalla visione di Cristo). Stefano testimoniava, ai testardi e incirconcisi di cuore e d'orecchi, che l’Altissimo non abitava in edifici eretti dalla mano dell’uomo (At 6, 8-15 e 7, 1 seg.). Durante l’eloquente discorso agli ateniesi nell’Areopago, anche Paolo espresse analoga testimonianza. Egli cercò anche d’accattivarsi la simpatia dell’uditorio, mediante il tentativo di concordare la sua ispirata teologia (idealizzazione del Cristo Gesù) con la filosofia pagana (At 17, 22 seg.). La sua sapiente abilità di parola, ispirata dallo Spirito Santo, non sortì che pochissimi consensi. Tanto che, dopo quell’esperienza, rinunciò a testimoniare Dio con sublimità di parola e di sapienza umana (1Co 1, 17-25 e 2, 1 seg.). Forse avrebbe ottenuto maggiori consensi se avesse richiamato la dottrina orfica sull’immortalità dell’anima, meritevole di castighi e premi secondo le colpe commesse o i meriti conseguiti durante la vita terrena. O, in alternativa, se avesse rammentato la dottrina pitagorica della metempsicosi, secondo la quale la purificazione dal ciclo delle reincarnazioni avviene in una dimensione soprannaturale, piuttosto che in altre vite terrene. Ad ogni modo, tempio di Dio sulla terra, per Paolo, era il cristiano (1Co 3, 16-17 e 6, 20 e 7, 23, Mt 6, 5-7). Egli rimproverava ai Galati (Ga 4, 10) di osservare le pratiche religiose legate a un calendario rituale (ripristinato in seguito dal pontefice romano e fatto osservare dalla casta sacerdotale). Egli si lamentava con chi gli faceva sciupare l’olio e la fatica, perché voleva di nuovo sottomettersi al giogo della schiavitù alla Legge (Ga 5, 1 seg.). Chi metteva scompiglio nella comunità cristiana, stravolgendo l’unico e immutabile vangelo da lui predicato, era votato alla maledizione. Il Figlio di Dio, venuto all’esistenza da una donna, sottomesso alla Legge, l’unica conosciuta dagli uomini fino a Giovanni Battista, ha iniziato il suo ministero, liberandoci dal gravame degli innumerevoli precetti della Legge, sacrificando per questo la sua vita (Ga 4, 4-5, At 15, 10-11, Rm 4, 1 seg.; Mt 5, 17 e 23, 4; Lc 16, 16-17). Gesù, pietra d’inciampo, diede scandalo ai suoi fratelli ebrei, non attenendosi alle scrupolose osservanze della Legge, fermamente condannandole. Il pontefice e la sua Chiesa, invece, hanno oberato i propri seguaci di nuovi gravami, obbligandoli alla stretta osservanza sotto pena della condanna all’eterna dannazione. Nuovi comandamenti causano altre trasgressioni e conseguenti scandali. La libertà di Cristo è stata soffocata dalla schiavitù ai nuovi oneri imposti dall’autorità dei suoi seguaci, che non hanno avuto scrupoli nel compiere delitti in nome di Dio. Hanno innalzato roghi per bruciare gli eretici e le streghe. Hanno istituito i tribunali inquisitori per sbattere in prigione e scomunicare chi non la pensava come loro, accusandoli d’essere posseduti dal Maligno. Hanno tramato a danno di chi svelava le loro iniquità. Hanno avversato i loro fratelli giudei per un verso, e i pagani per un altro, distruggendo e depredando templi e biblioteche. Hanno indetto turpi crociate contro gli infedeli ed imposto il loro vangelo con la violenza, l’angheria, la turpitudine e l’ignoranza dei missionari. Hanno avversato il progresso della scienza e della civiltà laica. Si sono menati di santa ragione persino fra loro, provocando scismi e divisioni, pur di far trionfare le proprie fallibili opinioni. Hanno seminato zizzania, anziché sradicare tutto ciò che Dio non ha piantato (Mt 15,13). La tardiva richiesta di perdono alle vittime dei loro misfatti non li assolve né davanti al tribunale della coscienza umana né davanti a quello, ben più temibile, del loro dio. La Chiesa non è una propaggine divina, ma un’istituzione umana; come tale è nel suo insieme corresponsabile al pari di ciascun membro di essa. L’umanità non ha dovuto attendere gli ultimi tempi, quelli escatologici ed apocalittici, paventati dal visionario Paolo (1 Tm 4, 1-2). Sono bastati i soprusi e le intolleranze della Chiesa a rendere catastrofica l’umana esistenza.

Il Vangelo non comanda di santificare un determinato giorno della settimana né in un altro di astenersi dal mangiare certi cibi. Gesù, al contrario, ha posto il giorno del sabato (la domenica dei cristiani) sul medesimo piano degli altri giorni e non ha remore su cosa mangiare (Mt 12, 8 e 15,1, Mc 2, 27-28, Lc 10, 8, At 10, 9 seg., 1Tm 4, 3-5, Col 2, 16-23). Egli non ha istituito il clero, né quello secolare né quello regolare. Non ha stabilito un ordine gerarchico, né sotto l’aspetto amministrativo né sotto quello spirituale. Non ha dato il primato della cattedra né a Pietro né alla sede di Roma. Non ha autorizzato né gli apostoli né i suoi seguaci a parlare “ex cathedra”. Non ha imposto obblighi di castità ai suoi discepoli né ha preordinato i sacramenti come strumenti per ottenere la grazia. Se Paolo stesso raccomanda di tenere in onore il matrimonio (Eb 13, 4), se ogni cosa (Tt 1, 15) è pura ai puri (omnia munda mundis), se il male non sta nelle cose che Dio vuole, perché dunque la Chiesa impedisce il matrimonio al cristiano che è ordinato prete? Paolo, l’eletto degno di fede, perché in lui parla il Cristo, da cui è stato comandato all’apostolato, vuole che i ministri della fede siano, tra l’altro, mariti di una sola moglie e buoni amministratori della propria famiglia, posto che è preferibile ammogliarsi piuttosto che ardere (1 Tm 1, 1 e 3, 1 seg; 1 Co 7, 9. 12).


Lucio Apulo Daunio

giovedì 12 gennaio 2012


VANGELO SECONDO PAOLO

"Rari e felici i tempi in cui è permesso di pensare ciò che si vuole, e di dire ciò che si pensa" (Tacito, Historiae, I,1)

LA CRITICA NON CONOSCE TESTI INFALLIBILI (Ernest Renan)





Cristo Gesù, l’ebreo eletto dalla Chiesa quale Figlio di Dio, l’Onnisciente concepito in triplice versione, che tutto può e da cui ogni cosa dipende, avrebbe dovuto presagire che l’amato popolo del padre, Jahvè, non l’avrebbe riconosciuto né come messia né tanto meno come Figlio di Dio. Avrebbe dovuto prevedere che il prediletto popolo di Jahvè non avrebbe tradito le tradizioni dei loro padri (il Figlio, però, spesso le trasgrediva). Del resto, non aveva suo padre Jahvè (Dt 4, 2) ordinato agli Ebrei di non togliere o aggiungere nulla ai suoi precetti? Non aveva minacciato loro maledizioni, se non avessero rispettato tutte le parole della Legge? I suoi comandamenti non erano perentori e perennemente validi? Suo Figlio, secondo gli evangelisti, non asseriva di essere venuto non ad abrogare la Legge, bensì a perfezionarla? Di fatto, però, non sempre l’osservava.

Molti di coloro che seguivano Gesù, pur ascoltando le sue prediche o assistendo ai prodigi da lui compiuti, non si convertivano al suo vangelo. Perché dovremmo convertirci noi, che di lui conosciamo ciò che altri raccontano, senza addurre prove convincenti? Le testimonianze raccolte su di lui in tempi successivi alla sua vicenda umana, interpretate e manomesse a fini apologetici dai suoi seguaci, prive d’adeguati riscontri storici, nonché la perdita (distruzione) dei manoscritti critici, le colpe e i crimini commessi dalla (poca) Santa Chiesa cristiana cattolica, non concorrono tutti a rendere più ardua l’accettazione della fede cristiana? Se Dio tutto ha preordinato a un fine, che trascende l’umana comprensione, perché si dovrebbe credere a ciò che non si comprende? Se tutto è predeterminato, a che vale la supposta libertà dell’uomo? Se la conoscenza di Dio non ha limiti, egli avrebbe dovuto conosce in anticipo la natura e il comportamento delle creature, che ha plasmato con le sue mani. A cosa giovano le sue (o a lui attribuite) apocalittiche elucubrazioni, se non a spaventare spiriti imbelli?  E la nostra condizione di “felice colpa” (tanto cara al vescovo d’Ippona), a cosa giova, se non a glorificare la misericordia di un dio padrone e a perpetuare lo strapotere dei suoi epigoni? Questo dio cristiano farebbe meglio a trastullarsi con diversi divini passatempi, piuttosto che arrecare altri tormenti a quelli che la natura già infligge al genere umano.

Dio ripudiò il suo popolo? Non sia mai detto! Dio, parola di Paolo, nella sua prescienza elesse i Giudei sopra tutti gli altri popoli (Rm 11, 1 seg.). Può, quindi, escluderli dalla salvezza? Giammai! Eppure, essi inciamparono nella pietra di scandalo: il Figlio di Dio che venne tra loro a tracciare la via maestra per la redenzione (Rm 9, 30-33). Il rifiuto d’Israele a credere in Cristo Gesù, però, non è definitivo, poiché un giorno (a Dio piacendo) il popolo eletto si convertirà al cristianesimo (per buona pace dell’integralismo religioso giudaico). Nell'attesa del miracolo, Paolo si vota alla conversione dei “gentili”. Nei fertili cuori dei pagani, egli semina la buona novella e miete ricca messe per l’impero celeste. Il cristiano, sentenzia Paolo, deve sacrificare a Dio la sua esistenza, vivendo con distacco dal mondo (Rm 12, 1 seg.). Il culto a Dio deve manifestarsi nell’intimo della coscienza, non uniformandosi alle prescrizioni rituali giudaiche (salvo aderire all’incipiente liturgia della Chiesa). Paolo, se qualche volta giudaizza o si comporta da ipocrita e adulatore, fa questo per amore di Cristo (1 Co 9, 19-23). Allo scopo di convertire un gran numero di pagani, si fa servo di tutti: si fa giudeo con i giudei, sottomettendosi alla Legge; invece la rinnega, quando vive con i gentili, pur di guadagnare gli uni e gli altri alla fede. Pur di salvare qualcuno, si fa debole con i deboli e dona tutto se stesso a tutti. S’industria per piacere a tutti in tutto, senza cercare l’utile suo, ma quello dei molti (1 Co 10, 33). In cosa consisteva l’utile dei molti, se non nel guadagnarli alla sua causa? E il suo fervore nel far valere le proprie idee con la doppiezza a cosa mirava, se non al proprio tornaconto? L’atleta dell’opportunismo era abile nello sfoggiare, “pro domo sua”, l’arte oratoria. Il camaleontismo paolino, velato di cristiana carità e di retorica cristianità, farà scuola nella comunità dei nazareni, prima tra i discepoli paolini, poi tra i rampanti rampolli della fiorente Chiesa gesuana. Il papato, infine, non tarderà ad usare il potere religioso per asservire il prossimo al suo dominio, piuttosto che farsi servo di tutti, secondo l’insegnamento del Maestro (Mt 20, 26-28). 

I fedeli cristiani, parola apostolica, non si comportavano come gli eretici, che partecipavano ai riti dei pagani, fornicando e mangiando le carni immolate agli idoli (Ap 2, 12 seg.). Anatema agli eretici? In verità, anche il convivio cristiano, durante il quale si commemorava l’ultima cena di Gesù, non era immune da pecche (1 Co 11, 17 seg.). C’era chi scambiava la cena eucaristica per una taverna, chi s’ingozzava, chi si ubriacava, mentre i più poveri si tormentavano per l’altrui goduria. L’adunanza blasfema profanava il corpo e il sangue di Cristo martire. Quanto al mangiare le carni immolate agli idoli, Paolo era dell’avviso che queste non erano impure (1 Co 8, 1 seg.). Tutto ciò che il mercato offriva si poteva mangiare (1 Co 10, 25-26). Le prescrizioni dietetiche di Jahvè (Dt 14, 3 seg.; Lv 11, 1 seg.) non si applicavano ai gentili convertiti. Tuttavia, a causa dell’altrui coscienza, di chi cioè giudicava impuro un cibo, era opportuno seguirle per carità cristiana e per non arrecare scandalo. Lo scriba Eleazaro, invece, preferì morire piuttosto che contravvenire al divieto di Jahvè di mangiare carne di porco, allorquando i dominatori Seleucidi imposero una forzata ellenizzazione degli ebrei. Persino l’apostolo Pietro si rifiutò di mangiare cibo profano e immondo offertogli da Dio durante il sogno. Ubbidì solo quando Dio lo assicurò che il cibo era stato purificato (At 10,9-16). Perché Paolo ignorava le prescrizioni che l’apostolo Giacomo propose nel Concilio di Gerusalemme?  Non solo ai giudei convertiti, ma anche ai gentili si ordinò, tra l’altro, di astenersi dal mangiare carne degli animali immolati nei sacrifici pagani (At 15, 19-21 e 28-29, Lv 3, 17 e 5, 2 e 17, 1 seg.; Gn 9, 4).

Paolo è certo dell’esistenza di Dio-Padre, anche se altri conclamano pretese divinità, sia in cielo sia sulla terra. “A latere” del Padre, secondo Paolo, esiste un solo Signore, Gesù Cristo, assiso alla sua destra (sede consacrata della “religio” e garanzia di fiducia anche presso i pagani). Egli è mediatore tra il Padre e gli uomini (1 Co 8, 4-6, Col 1, 3 seg.; Ef 1, 3 seg.). Entrambi, Padre e Figlio, sono altresì pregni di Spirito Santo (terzo dio). L’uni-trino dio, unico nella sostanza, è trino in quanto a persone, fermo restando che il Padre è “primus inter pares”, altrimenti, se tutti e tre sono pari tra loro, chi assumerebbe il comando, s’è vero che “par in parem non habet imperium”? Cristo, nei lumi di Paolo (Col 1, 15 seg.), è l’immagine del Dio invisibile e primogenito di tutta la creazione, nonché capo della Chiesa (i libri dell'Antico Testamento, invero, ignorano Gesù). Paolo non si pronuncia riguardo alla terza persona divina. Tuttavia, lo Spirito Santo ha una propria “testa”, come l’hanno il Padre e il Figlio. Pare, tuttavia, che le tre persone che compongono il triteismo cristiano, pur fornite di “teste” proprie, abbiano in comune la mente, per cui pensano all’unisono: arduo mistero cristiano! Che poi lo Spirito Santo sia immensa sapienza, non pare certo vero, come può riscontrarsi in quelli che, si racconta, ne sarebbero stati da lui illuminati. Che lo Spirito Santo abbia loro sfolgorato il cuore, non la testa? Parrebbe vero. Paolo testimonia che Cristo è risorto e assunto in gloria nel regno del Padre, dove siede alla sua destra (sarebbe più consone che sedesse alla sua sinistra, stante il professo “giacobinismo” di Gesù). Testimonia che il Risorto si è a lui rivelato nello spirito, come ha fatto con gli apostoli e i profeti (Ef 3, 1 seg.).  Durante l’estasi avuta sulla via per Damasco (At 9, 1 seg.; 22, 6 seg.), Paolo volò fino al terzo cielo (rara avis in terris), verso la dimora di Dio e dei santi, per incontrare il Cristo Gesù, da cui udì parole ineffabili, che all'uomo è impossibile proferire (2 Co 12, 1 seg.). E a tanti di noi credere. Della felice visione di Dio non vuole farsene un vanto. Egli si considera un niente, ma non per questo si deve stimarlo inferiore agli arci-apostoli, diretti testimoni di Gesù. Vero è che il vangelo da lui predicato non gli è stato trasmesso da nessuno dei dodici apostoli, però non per questo è diverso, avendolo appreso direttamente da Gesù, mediante rivelazioni e visioni (una specie di corso accelerato, con l’aiuto dello Spirito Santo). Se qualcun altro (peste lo colga!) se ne va in giro ad annunciare un vangelo diverso da quello ispiratogli da Cristo, anàtema a lui! Il Vangelo, in verità, dovrebbe essere unico e immutabile. La Chiesa, invece, ne riconosce, fra i tanti apocrifi, solo quattro canonici. Questi, peraltro, sono tra loro discordanti. Paolo insiste nel sostenere che esiste un solo vangelo: il suo (Ga 1, 1 seg.). Egli, però, ammette l’opportunità di modificarlo secondo i diversi uditori, in modo che si abbia un vangelo per i giudei, di competenza degli apostoli Giacomo, Pietro e Giovanni, notabili della Chiesa di Gerusalemme, e un vangelo per i gentili, di sua competenza (Ga 2, 1 seg.). Il suo vangelo lo difende a spada tratta, senza guardare in faccia a nessuno, anche contro i notabili di Gerusalemme. Professionista della doppia verità, rimprovera Pietro di doppiezza e di assumere falsi atteggiamenti, non conformi alle prescrizioni di Cristo (il bue che dà del cornuto all’asino!). In verità, molte sono le diversità, le incoerenze e le contraddizioni che si riscontrano nei racconti degli evangelisti e nelle altre Sacre Scritture. Occorre stare in guardia dal circuimento di chi va predicando verità incontrollabili, prospettandoci salvezze ultramondane! Costoro, in vero, si prefiggono un unico scopo: perpetrare il proprio dominio nell’aldiquà. Facciamo tesoro del detto secondo cui chi l’altrui sapere apprende acriticamente, la sua libertà sottomette irrimediabilmente.

Gli apostoli di Gesù, operai del Vangelo, oratori della buona novella, rivendicavano il diritto ad una ricompensa: non elemosine, ma la carità dei cristiani, la loro ospitalità (vitto, alloggio, lavatura e stiratura). L’onere di nutrirli era a carico di chi beneficiava delle loro prediche (1Co 9, 1 seg., Ga 6, 6, 1Tm 5, 17-18). Paolo, bontà sua, preferiva non approfittare di questo diritto (2 Co 11, 9), perché, quando poteva, provvedeva lui stesso al suo mantenimento (At 18, 1-4; 20, 33-35), anche se non rifiutava gli altrui doni (Fl 4, 10-20) e le caritatevoli ospitalità (At 16, 11-15). Del resto, la Legge prevedeva per i sacerdoti alcuni diritti sulle vittime offerte in sacrificio (Lv 6, 7-9 e 7, 7-10, Nm 18, 8-32, Dt 18, 1-8, Ez 44, 28-31). Le prime comunità cristiane mettevano in comune i loro beni per far fronte alle necessità ed ai bisogni di ciascuno (At 2, 44-47; 4, 32-37). Rinunciando a possedere i propri beni, il cristiano si conformava allo stato di povertà, requisito allora indispensabile per l’appartenenza al popolo di Dio. Non per altro, il cristianesimo attecchì soprattutto presso i poveri e gli emarginati. La ricchezza aveva principalmente valore strumentale ed era distribuita in funzione dell’utilità comune. Si ricorreva, all’occorrenza, anche al mutuo soccorso tra le varie comunità mediante collette (At 11, 27-30, Rm 15, 26, 2Co 8, 1 seg. e 9, 1 seg.). Paolo si attivò al massimo per la colletta a favore della Chiesa di Gerusalemme (1 Co 16, 1 seg.; Ga 2,10). Diede disposizioni ai Corinzi circa il modo della raccolta del denaro da devolvere in beneficenza ai poveri della città santa. Nel primo giorno d’ogni settimana ciascun fedele poteva offrire il proprio obolo (argent de poche). Chiaramente nessuno era obbligato, però era consigliabile provvedere all’offerta, largheggiando in generosità e col sorriso sulle labbra. Del resto, il Vangelo insegnava che Dio avrebbe moltiplicato la ricompensa in cielo a chi alleggeriva la sua saccoccia in terra a favore del prossimo. Dio non solo avrebbe restituito in beni spirituali l’equivalente del capitale speso, ma avrebbe altresì aggiunto un sovrappiù centuplicato (2 Co 8, 8. 10; 9, 6 seg.). L'apostolo Giacomo mostrava indignazione contro i cristiani che avevano riguardo al cospetto di persone ricche (Gc 2, 1-13 e 4, 13-17 e 5, 1-16). Condannava la vanità delle ricchezze e l’ingiustizia dei ricchi a danno dei lavoratori. L’unico conforto per i poveri e per i lavoratori sfruttati era il premio nell’aldilà. La loro vendetta consisteva nella certezza che il ricco, privo di misericordia, stava ingrassandosi per il suo macello. I profeti dell’Antico Testamento (cfr. Is 5, 8-10; 10, 1-4) ritenevano scandaloso lo stato di povertà, deplorando l’ingiustizia e l’oppressione perpetrate dai ricchi. La Legge prevedeva in proposito misure idonee in favore dei poveri, come l’obbligatorietà della decima triennale. Altre misure erano idonee a contrastare l’accumulo di grossi capitali, come l’anno sabbatico (Es 23, 10 seg., Dt 15, 1 seg.), ricorrente ogni sette anni, e l’anno giubilare (Lv 25, 8-16 e 29, 31), ricorrente ogni mezzo secolo. Durante queste ricorrenze, i servitori erano liberati ed esonerati dall’obbligo di soddisfare i debiti. I fondi campestri, abbandonati dai debitori nelle mani dei creditori o venduti, erano restituiti al proprietario, che era esentato dall’obbligo di pagarne il riscatto. Fondamento di queste norme era l’idea di giustizia ispirata all’uguaglianza, sul presupposto che la proprietà originaria dei beni della terra appartenesse al Creatore, che ne disponeva l’uso in funzione distributiva (cfr. Nm 33, 50-54). Anche Gesù si lamentava contro i ricchi (Lc 6, 24; Mt 6, 24), mettendoli in guardia dai pericoli ìnsiti nel possesso delle ricchezze (Mc 10, 23-27). Il suo intento, tuttavia, non era rivolto al rovesciamento dell’ordine economico e politico costituito, bensì a riformare i comportamenti delle persone, inducendole all’amore di Dio e del prossimo e alla fratellanza di vita, avvertendole altresì dell’inutilità dell’attaccamento alle ricchezze materiali, che recavano grave detrimento allo spirito (Lc 12, 15-21). Gesù, infatti, non disdegnava l’invito dei ricchi. A Zaccheo, un ricco “pubblicano”, che donava delle sue ricchezze ai poveri più del dovuto, Gesù gli concesse la salvezza (Lc 19, 1 seg.). Molte donne ricche, da lui guarite, avevano messo i loro beni a disposizione di Gesù e della sua comunità (Lc 8, 1-3).


 Lucio Apulo Daunio