lunedì 8 ottobre 2012


SPIGOLATURE TEOLOGICHE



          “Grande successo e molta prosperità gli dei diedero agli uomini che loro vogliono, mentre ad altri assegnarono dolori e sospiri per volere delle Moire” (dal fram. 16 del poeta lirico corale Ibico di Reggio, VI sec. a.e.v.).

Nelle antiche civiltà, come quella egizia, la conoscenza era prerogativa del ceto sacerdotale, detentore di una sapienza arcana, enigmatica, esoterica, simboleggiata dalla Sfinge. I fenomeni naturali erano interpretati come accadimenti determinati da entità divine. Il Nilo, che irrigava periodicamente la terra, era considerato un nume benefico, rappresentato da Osiride. La terra fertilizzata dalla piena del fiume, era rappresentata dalla dea Iside. La conoscenza, frammista all’arcano delle cose divine, gelosamente custodita nell’impenetrabilità di un misterioso linguaggio, era svelata esclusivamente agli iniziati nei misteri, mentre ai profani si raccontavano ambigue favole, scollegate dalle loro arcane significazioni.

Molti furono i sapienti greci, fondatori di dottrine misteriche (Omero, Pitagora, Orfeo, Museo e altri), che, secondo la tradizione, andarono a erudirsi in Egitto. Il leggendario sacro scrittore Ermete Trismegisto, illuminato da Osiride, insegnò ai sapienti greci l’arcano delle cose divine, espresso con simbolico linguaggio. In Grecia, la divinità si esprimeva tramite pizie e sibille in modo oracolare, cioè mediante allegorie, metafore e sentenze ambigue.

Il culto del dio Serapide fu introdotto in Egitto da Tolomeo I, generale di Alessandro Magno, sostituendosi a Osiride (il Dio morto e resuscitato come Gesù) e associandosi a Iside. Serapide fu identificato con molte divinità greche, tra cui Helios, Dio Sole. Il suo culto fu confuso con il cristianesimo (cfr. Historia Augusta, Vita di Saturnino, 8,2).

Ogni società è caratterizzata da forme di vita rituali, emozionali, non solo nelle manifestazioni religiose (quali le liturgie o i conferimenti di sacramenti) ma anche in diversi comportamenti profani, spesso con residuali significati di sacralità laica (come i riti processuali e l’inaugurazione dell’anno giudiziario o di quello accademico). In un’epoca di globalizzazione, certe ritualità della vita sociale assumono carattere universale, sovrapponendosi a quelle locali, tradizionali, emarginandole. Forme rituali si riscontrano anche nei riti d’iniziazione e di passaggio da una condizione precedente a una successiva (spesso si è alla presenza di un cambiamento peggiorativo, come nel caso delle mutilazioni sessuali delle donne, relegate a uno stato di subordinazione nell’ambito della famiglia).

Dogma fondamentale dell’ebraismo è la fede nell’unicità di Dio (Dt 6,4): nessun altro Dio c’è all’infuori di Lui (Dt 4,35). Dogma fondamentale del cristianesimo è la fede nella Trinità, in cui la natura divina è distinta in tre persone: Padre, Figlio, Spirito Santo (vero e proprio rompicapo teologico). Complessa è la natura di Dio concepita dal cristianesimo: pur essendo un’unica natura, Dio si manifesta nella moltitudine di rappresentazioni tra loro distinte.

Nei più antichi documenti del cristianesimo (Lettere attribuite a Paolo di Tarso, persecutore dei cristiani prima della sua conversione) nulla è detto riguardo alla biografia di Gesù. Negli Atti degli Apostoli, redatti più tardi rispetto alle Lettere, laddove si racconta la conversione di Paolo in terza persona (9,3 seg), è scritto che egli sentì una voce che diceva di essere Gesù, mentre chi lo accompagnava sentiva il suono della voce ma non vedeva nessuno. Più avanti (22,6 seg.), l’autore degli Atti fa parlare Paolo in prima persona, che afferma di aver sentito una voce che diceva di essere Gesù il Nazareno, mentre chi lo accompagnava non udì alcuna voce (in contraddizione con quanto prima affermato). L’aggiunta dell’appellativo “il Nazareno” dà motivo di ritenere che quest’ultima pericope sia stata inserita dopo negli Atti, quando Nazareno fu interpretato come cittadino di Nazareth, supposto villaggio della Galilea della cui esistenza all’epoca di Gesù si dubita, essendo sconosciuto sia agli autori delle epistole paoline, sia agli scrittori non cristiani del primo e secondo secolo e.v., come Giuseppe Flavio; né, peraltro, risultano prove della sua esistenza dai reperti archeologici. Anche del villaggio Cafarnao, dove Gesù si trasferì dopo aver lasciato Nazareth, sorgono dubbi sulla sua esatta ubicazione. Quanto al villaggio di Betania, nel Vangelo secondo Giovanni (1,28; 10,40) si troverebbe di là del fiume Giordano, dove c’era Giovanni Battista che battezzava i penitenti e dove andò di nuovo Gesù per sfuggire all’arresto. Betania, dunque, sembrerebbe trovarsi a Est, nella regione Perea di là del Giordano. Invece, in Giovanni 11,18, Betania disterebbe circa tre chilometri da Gerusalemme, quindi a ovest del Giordano.

I Vangeli medesimi, del resto, databili negli ultimi decenni del primo secolo, non sono stati scritti da testimoni oculari, ma da autori ignoti, che hanno raccolto notizie frammentarie, inattendibili, contraddittorie, rivestendole di carattere apologetico a fini propagandistici. Non solo le fonti bibliche, ma anche quelle extrabibliche non sono documenti atti a comprovare l’esistenza storica di Gesù, limitandosi a testimoniare l’esistenza di una setta praticante una religione misterica, considerata come nociva superstizione. Paolo stesso esorta i convertiti della chiesa di Corinto a diventare amministratori dei misteri di Cristo (1 Co 4,1). Un’ulteriore prova del carattere misterico del cristianesimo è quella fornita dall’apocrifo “Vangelo segreto di Marco” (della cui attendibilità si discute tuttora). Il cristianesimo, nato da una corrente dell’ebraismo, ha sorprendenti somiglianze con il mitraismo, religione misterica- astrologica di derivazione greco-romana-persiana. Mitra fu associato al dio greco Helios (Sole) e al romano Sol Invictus e venerato di domenica (giorno del Sole). La sua nascita si festeggiava durante il solstizio d’inverno. Era raffigurato con una luminosa aureola sul capo. Il massimo sacerdote al suo servizio si denominava “papa”, governava i seguaci dal mitreo sul colle Vaticano, sede di diversi culti orientali, indossava la mitra (copricapo frigio-persiano) e portava in mano una grossa chiave con cui si credeva aprisse le porte del cielo alle anime dei defunti. I seguaci del mitraismo consumavano un pasto sacro, durante il quale celebravano il sacrificio del Dio Salvatore, risorto di domenica. Mitra rappresentava la forza fisica, causa della precessione degli equinozi, scoperta dall’astronomo Ipparco di Rodi nel 128 ante era volgare. Ipparco costatò che l’equinozio di primavera ai suoi tempi si era spostato dalla costellazione del Toro a quella dell’Ariete e stava per transitare in quella dei Pesci. Mitra era raffigurato nell’atto di sacrificare un toro. Al tempo di Gesù l’equinozio di primavera era già nella costellazione dei Pesci. Cristo, infatti, novello Mitra, era simboleggiato con l’ariete: l’agnello divino sacrificato nel giorno di Pasqua per riscattare l’umanità dal peccato originale. Altro simbolo rappresentativo di Cristo erano i pesci. Il termine greco ICHTHUS, che significa pesce, rappresentava l’acrostico: “Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore”. La leggenda dei Magi provenienti dall’Oriente (tra le varie ipotesi c’è chi congettura che provenissero dalla regione Frigia dell’Anatolia), guidati da una stella (assurdo!), rappresenterebbe taluni astrologi sacerdoti mitraici, che vanno ad adorare la divinità della nuova era dei Pesci.

Jacob Lorber, un mistico visionario slovacco dell’800, udiva voci dall’aldilà che trascrisse come Nuova Rivelazione in numerosi libri. Quelle voci, in fede sua, erano di Gesù Cristo. Uno dei suoi libri s’intitola “Scambio di lettere fra Abgaro, re di Edessa, e Gesù”. In verità, non sono lettere autentiche, giacché Gesù non scrisse nulla di sua mano, sono invece invenzioni di un visionario. Allo stesso modo dovremmo considerare non solo i tanti libri apocrifi del Nuovo Testamento, come la pretesa corrispondenza tra Pilato e Tiberio, ma anche i libri canonici, stante l’abbondanza di fantasticherie in essi raccontate. Cosa c’è di razionale nei documenti del Nuovo Testamento, che parlano di un essere soprannaturale, fattosi uomo tramite la nascita da una sempre vergine donna ingravidata dallo Spirito Santo? La sua spettacolare missione sulla terra non fece impressione agli storici e scrittori suoi contemporanei e a quelli vissuti dopo. Nessun documento storico, che non sia di parte cristiana, conosce Gesù e tantomeno i suoi apostoli. Quei pochi e indiretti cenni sulla superstizione cristiana, che si riscontrano in alcune opere di scrittori non cristiani, sono sospette d’interpolazioni o falsificazioni. La storia greca e romana tace sull’esistenza di Gesù. Giuseppe Flavio, Filone e Giusto di Tiberiade, dotti ebrei suoi contemporanei, lo ignorano, nonostante il gran chiasso che fece, secondo quanto raccontano gli evangelisti, che avrebbe dovuto lasciare tracce significative di sé. Altri documenti ebraici, che accennano a Gesù e ai cristiani, sono di alcuni secoli più tardi. Di lui non parlano come figura storica realmente esistita gli scrittori Seneca, Giovenale, Plinio il Giovane, Svetonio, Plutarco e altri di lingua latina o greca. E’ evidente che gli evangelisti, se non hanno inventato il personaggio Gesù, hanno certamente esagerato fino all’inverosimile su di lui, fino a divinizzarlo. Ne consegue che il Gesù storico, se è esistito, è stato persona diversissima dal Gesù mitizzato dei Vangeli, le cui attestazioni non hanno valore probatorio, essendo meri documenti di fede. Altrettanto leggendari appaiono i fatti su Gesù, sulla sua famiglia e sugli apostoli narrati nei testi apocrifi, esclusi dal canone del Nuovo Testamento non solo per l’inattendibilità storica dei medesimi, ma anche perché ritenuti non ispirati dallo Spirito Santo. Molti furono gli eretici che negarono la divinità di Cristo. Quanto alle brevi citazioni su Gesù nell’opera “Antichità giudaiche” di Giuseppe Flavio (libro 18,63-64 e libro 20,200), esse sono evidenti interpolazioni. La prima, infatti, è inserita tra due episodi connessi tra loro e contiene espressioni (come l’affermazione che Gesù era il Cristo) che potevano essere pronunciate da un cristiano ma non dall’ebreo Giuseppe. La seconda contraddice la prima, giacché Giuseppe pur citando Gesù non lo riconosce come il Cristo. Il bibliografo Fozio, patriarca di Costantinopoli, che aveva letto una copia dell’opera di Giuseppe senza le suddette interpolazioni, ci fa sapere che nessun ebreo ha mai parlato di Gesù. Quanto all’eminente storico romano Tacito, egli parla (Annali, libro 15,44) di persone processate e condannata a morte da Nerone, invise per i loro misfatti, chiamate dal volgo cristiani, perché seguaci di Cristo, loro capo. Le altre aggiunte nel passo in questione sono evidenti interpolazioni. In un passo precedente (libro 2, 85), Tacito confonde la superstizione cristiana con quella giudaico-egiziana, i cui addetti furono espulsi da Roma per la loro identica superstizione. Lo storico romano Svetonio riferisce che durante il regno di Claudio furono espulsi da Roma i giudei, perché istigati da Cresto erano in continuo tumulto (Vita di Claudio, cap. 25). E’ evidente che non vi era ancora distinzione tra giudei e cristiani. Cresto (che significa Buono, titolo attribuito al dio Sole egiziano Serapide), non potrebbe essere riferito a Cristo, morto parecchi decenni prima. E’ probabile, invece, che le credenze dei cristiani fossero confuse con quelle delle religioni orientali.

Simili in molti aspetti cultuali ai cristiani, e di epoca a essi anteriore, era la setta sincretistica ebraica dei Terapeuti, di cui parlano Giuseppe Flavio (Guerra giudaica) e Filone (La vita contemplativa), considerati come “Esseni contemplativi”. Erano guaritori, che curavano il corpo e lo spirito (mediante l’unzione con olio nel giorno di sabato) e adoravano il Dio Sole e la dea Iside, denominata “Madre di Dio”. Eusebio, nella sua “Storia ecclesiastica” (cfr. libro X e XVII), dice che i Terapeuti erano cristiani solitari che adoperavano il Vangelo e gli scritti degli Apostoli. Non pare del tutto inverosimile supporre che il cristianesimo sia di derivazione di culti giudaico-egiziani, i cui adepti in Roma furono espulsi al tempo di Augusto e di Tiberio (come informa Tacito). Il Padre della Chiesa, Epifanio di Salamina, nel Panarion (“Contro le eresie”) afferma che i Terapeuti sono i cristiani.

Il Cristo di cui parlano gli (sconosciuti) evangelisti è un essere spiritualizzato, irreale, astorico, anche se antropomorfizzato in un uomo chiamato Gesù e collocato in un contesto storico attendibile. Di lui è ignoto il luogo, il giorno e l’anno della sua nascita (anche se erroneamente si crede che sia nato il giorno dell’anno in cui il Dio Sole risorge dopo il solstizio d’inverno). La storia ignora la sua vita e la sua tragica morte. Ignora la strage degli innocenti e la leggenda dei Magi arrivati dall’oriente, guidati da una stella, per omaggiare il nuovo re dei Giudei. Ignora i tragici eventi e i portenti verificatisi alla morte ignominiosa del Dio Salvatore. Ignora l’impossibile resurrezione di Cristo e la sua ascensione nel Regno celeste. Gli evangelisti, di cui due erano suoi apostoli, ignorano persino il suo aspetto fisico, perché, evidentemente, non lo hanno conosciuto, eppure su di lui hanno fantasticato storie inverosimili. Hanno immaginato un modello ideale di uomo, dotato di poteri magici soprannaturali: hanno inventato il mito di un nuovo Dio e di un nuovo credo.

Durante i primi oscuri secoli del cristianesimo sorsero numerose fazioni religiose in lotta tra di loro per la supremazia. Il Concilio di Nicea nel 325 decretò la vittoria dell’ortodossia a una di esse, tacciando di eresia le restanti fazioni. Furono poi scelti quattro Vangeli, senza fornire prove di autenticità, se non la dogmatica dichiarazione che gli autori erano stati ispirati dallo Spirito Santo, mentre furono dichiarati apocrifi i molti Vangeli bocciati. Sembra che a ispirare gli evangelisti siano stati più Spiriti Santi, poiché nei loro scritti abbondano divergenze e contraddizioni. Tutta la vicenda del Cristo Gesù è descritta come un continuo miracolo, dalla nascita soprannaturale alla voluta e preannunciata morte, resurrezione e apoteosi, cioè la sua assunzione tra gli dei dell’Olimpo cristiano. Tutto di lui è stato preordinato dall’Altissimo e annunciato dai profeti nelle antiche Scritture. Tutta la sua vita è in funzione dell’adempimento delle sacre Scritture. Egli, in realtà, è un simbolo inventato dalla Chiesa, cioè l’Eletto che porta a compimento le profezie messianiche dell’Antico Testamento. Ciò che a un attento esame critico appare un’impostura, è stato invece legittimato dall’autorità bi-millenaria della Chiesa come verità sacrosanta: una verità imposta ai fedeli già dalla più tenera età, in modo che resti indelebilmente impressa nella loro mente. 

L’evangelista Matteo prima pretende di dimostrare che Gesù discende dal re Davide tramite il padre Giuseppe, poi sostiene (assurdamente) che Gesù è stato concepito per opera dello Spirito Santo (che secondo la Chiesa è la terza persona divina di un Dio che si manifesta come Trinità nelle persone del Padre e del Figlio Gesù: mistero cristiano!). Delle due l’una: se Gesù discende geneticamente dalla stirpe di Davide, tramite il padre Giuseppe, non può esser stato concepito dallo Spirito Santo; se, invece, è stato concepito dallo Spirito Santo, non appartiene alla Stirpe di Davide. Matteo fa nascere Gesù al tempo di Erode (morto nel 4 a.e.v.), in una casa di Betlemme, dove arrivano i Magi, guidati da una stella, per omaggiare il neonato re dei Giudei. L’evangelista Luca, invece, fa nascere Gesù almeno 11 anni dopo la morte di Erode, che si spaventa (e con lui tutta Gerusalemme), quando apprende la notizia della nascita di un nuovo re. Temendo di essere spodestato dal suo trono, ordina la strage degli innocenti. La sacra famiglia, avvertita da un angelo del Signore, fugge in Egitto. Morto Erode, la sacra famiglia ritorna in patria, ma non a Betlemme, per paura di Archelao, figlio di Erode. Va invece in Galilea e si stabilisce nel villaggio di Nazareth. Luca, contraddicendo Matteo, dice che la sacra famiglia abita in Nazareth ed è a causa di un censimento che va a Betlemme, paese originario della famiglia di Giuseppe e della casa di Davide da cui discende. Al loro arrivo, la sposa Maria dà alla luce il figlio Gesù in una mangiatoia, perché non c’è posto in albergo. Il bambinello riceve la visita dei pastori. Dopo otto giorni, Gesù è circonciso; in seguito, è portato al Tempio in Gerusalemme per la prescritta purificazione della puerpera e l’offerta del neonato al Signore. Nel Tempio, Gesù è riconosciuto da Simeone e dalla profetessa Anna come il Messia atteso. La notizia (nel racconto dell’evangelista Luca) non può arrivare alle orecchie di Erode, essendo egli morto almeno 11 anni prima. Manca quindi nel racconto di Luca la truce strage degli innocenti e la fuga in Egitto della sacra famiglia, che, invece, ritorna in Galilea, a Nazareth. Altri episodi circa l’infanzia e l’adolescenza di Gesù gli evangelisti ignorano fino all’età in cui, intorno ai trent’anni, inizia la sua divina missione (prima in Galilea poi in Giudea, secondo i Vangeli sinottici; soprattutto in Giudea, nel Vangelo secondo Giovanni). Soltanto Luca ci fa sapere che all’età di circa dodici anni Gesù andò con la sua famiglia a Gerusalemme per la ricorrenza della festa di Pasqua. Al ritorno verso la Galilea, la famiglia si accorge dell’assenza del giovinetto. Lo cercano, ma soltanto dopo tre giorni lo trovano nel Tempio, mentre stava disputando con i dottori della Legge. Gesù, raggiunta l’età adulta, prima di iniziare il suo ministero, va a farsi battezzare da Giovanni Battista. Secondo l’evangelista Marco, durante il rito Gesù ha una personale esperienza: vede da uno squarcio di cielo lo Spirito Santo discendere su di lui in forma di Colomba e sente una voce che si compiace di lui e lo proclama Figlio dell’Altissimo. Secondo Matteo, il Battista conosce bene Gesù, tanto che si rifiuta di battezzarlo, ritenendo di non esserne degno. Eppure, secondo Luca, il Battista sobbalzò nel seno di sua madre Elisabetta quando venne a farle visita la parente Maria, già gravida di Gesù. L’evangelista Giovanni, invece, dice che il Battista non sapeva chi fosse Gesù. Soltanto quando vide scendere su di lui lo Spirito Santo nella forma di una colomba lo riconobbe come Messia. Comunque sia, il Battista non si fa cristiano e nutre dubbi su di lui, tanto che dopo il suo arresto invia alcuni discepoli da Gesù per accertare se sia proprio lui il Messia. E se Matteo fa dire a Gesù che il Battista è il profeta Elia, Giovanni fa dire al Battista che non è lui il profeta Elia. Peraltro, Giovanni risparmia ai lettori sia la favola delle tentazioni di Satana a Gesù in ritiro spirituale nel deserto sia le guarigioni degli indemoniati mediante esorcismi. E se in Luca risulta che i Samaritani non accolsero Gesù, tanto che due suoi apostoli, Giacomo e Giovanni, vollero castigarli e, per distruggerli, volevano invocare fuoco dal cielo, l’apostolo Giovanni, supposto autore del quarto Vangelo, racconta invece che Gesù ebbe buona accoglienza presso i Samaritani. Contradditori sono anche i resoconti degli evangelisti sui fatti precedenti e successivi all’arresto di Gesù (per esempio, se Marco dice che Gesù fu crocefisso all’ora terza, circa le nove del mattino, per Matteo e Luca è l’ora sesta, circa mezzogiorno, mentre per Giovanni all’ora sesta Gesù era ancora sotto processo; inoltre, se nei Vangeli sinottici si dice che dall’ora sesta fino all’ora nona si fece buio su tutta la terra, nel Vangelo secondo Giovanni tutto avvenne nella piena luce del giorno). Se per Luca i poveri sono gli indigenti, per Matteo sono i poveri di spirito. Se in Matteo pagani e pubblicani sono disprezzati, in atri passi dei sinottici Gesù predilige accompagnarsi a peccatori e pubblicani. Si fa dire a Gesù che le buone opere devono essere compiute alla luce del giorno; invece in altre circostanze gli si fa dire che devono essere fatte in segreto. Se talvolta Gesù autorizza a rendere pubblico il miracolo compiuto, in altre circostanze vieta di propagandarlo. Se talvolta Gesù invita a sopportare l’altrui violenza, in altre circostanze ordina l’uso della forza. Se Gesù dice che chi non è con lui è contro di lui (come dire che chiunque non è cristiano e nemico dei cristiani), altrove dice che chi non è contro di lui è con lui. Non risulta che Gesù abbia compiuto i sacrifici prescritti dalla Legge, anche se raccomanda ad altri di compierli. Egli, infatti, secondo Matteo, non è venuto ad abrogare la Legge e i profeti; invece, secondo Luca, Gesù dice che la Legge e i profeti hanno avuto validità fino a Giovanni Battista, mentre dopo Giovanni la salvezza è solamente in lui.

Se il Cristo dei Vangeli predica la rassegnazione di fronte alle ingiustizie, Paolo consiglia di subire l’ingiustizia piuttosto che rivendicarla (1 Co 6, 7). Aggiunge che chi non si sottomette all’autorità civile, che è stabilita e ordinata da Dio, subirà doppia punizione, umana e divina (Rm 13, 1-2.5). In altri passi dei vangeli, invece, Gesù invita a resistere nei tribunali degli uomini, garantendo l’assistenza agli imputati mediante la sapienza dello Spirito Santo (per esempio, in Luca 21,12 e seg. e in Mt 10,17-18). L’evangelista Matteo fa dire a Gesù che non è venuto a portare la pace sulla terra, bensì la spada con cui recidere i sentimenti umani all’interno della famiglia, affinché i chiamati possano incondizionatamente ed esclusivamente dedicarsi a lui (cfr. Mt 8,21-22; 10, 34 seg; Lc 9,59-62). Per salvarsi, secondo il Gesù descritto da Giovanni (12,25), Luca (14,26) e Matteo, occorre odiare la propria famiglia e la propria vita (fino a rendersi eunuchi per il regno dei cieli; cfr. Mt 19,12), non preoccupandosi di cosa mangiare e vestirsi né darsi pensieri per il domani: basta a ciascun giorno la sua pena (Mt 6,24-34). Chi vuol essere suo discepolo deve rinunciare a tutto (Lc 14,33). Egli predilige la cura delle cose celesti, piuttosto che di quelle terrestri (Lc 10,38-42). Manda i suoi discepoli a mietere e a godere i frutti di chi ha faticato per ottenerli (Gv 4,38). Predica l’incondizionato perdono alle offese e persino di amare i propri nemici e pregare per loro. Per essere perfetti non bisogna reagire al male ma subirlo (Mt 5,38-48). Il suo amore, però, lo riversa solamente agli ebrei, proibendo ai discepoli di predicare la “buona novella” ai Samaritani e ai Gentili (Mt 10,5-6; 15,21-26). Gesù non prega per il mondo ma soltanto per chi crede in lui (Gv 17,9). Nessuno, però, può credere in lui se il Padre non li ha predestinati alla salvezza (Gv 6,44). Solamente i predestinati sono iniziati ai misteri di Cristo, agli altri, invece, Gesù racconta parabole affinché non intendano né possano salvarsi (Lc 8,9-10). A Dio Padre, Figlio e Spirito Santo è lecito fare ciò che vogliono (Mt 20, 1 seg.). Solamente a chi è predestinato ad accogliere il suo credo Gesù promette l’eterna salvezza (Mt 13,10-12); infatti, molti sono i chiamati ma pochi gli eletti (Mt 22,8-14). Per quelli che si perdono, Dio acceca la mente incredula, affinché non vedano la luce del Vangelo (2 Co 4,3-4; 2 Ts 2,11-12; Fl 2,13). I ricchi, anche se non malvagi, a causa del loro stato, difficilmente potranno entrare nel regno di Dio (Mc 10,17seg); mentre i poveri, proprio perché tali (anche se malvagi?) potranno salvarsi (Lc 6,20). Per salvarsi, secondo il Gesù di Marco (16,16), bisogna aderire al suo credo e sottoporsi al rito del battesimo. Chi non ha fede in lui sarà dannato in eterno; anzi, nel giorno del giudizio universale, sarà trattato peggio degli abitanti di Sodoma e Gomorra (Mt 13,14-15; Lc 19,27). Il merito delle persone, parola di Gesù, sarà valutato in base alla loro fede piuttosto che ai loro comportamenti virtuosi. Chi non si converte alla fede cristiana sarà reciso e, come un tralcio che non fruttifica, arso nel fuoco (Mt 7, 15-19; Gv 15,6). Non appartenere a Cristo significa non appartenere a Dio, perciò chi nega Cristo non deve essere né salutato né accolto nella comunità dei credenti (2Gv 9-11). Chi non si conforma alle decisioni della Chiesa deve essere scomunicato (Mt 18,17). Il Vangelo secondo Matteo è stato redatto parecchio tempo dopo quello in cui si presume che Gesù sia vissuto, giacché gli si fa dire ciò che non avrebbe potuto dire, perché la Chiesa come istituzione era ancora da edificare. Gesù fu condannato a morte dai Romani per sedizione, non per blasfemia. Il che fa supporre che Gesù fosse uno zelota, come alcuni suoi discepoli. Il processo giudaico, invece, sembra un’invenzione degli evangelisti per addossare agli Ebrei la responsabilità della condanna di Gesù.

I primi secoli del cristianesimo, fino all’età costantiniana, furono caratterizzati dalla lotta intestina tra opposte fazioni cristiane (cristiani legati alle tradizioni giudaiche contro quelli provenienti dal paganesimo). In seguito, le fazioni vincitrici si auto – proclamarono ortodosse e combatterono i gruppi religiosi dissenzienti, tacciandoli di eresia. Dopo Costantino (milites pro deo) l’odio religioso perseguitò anche i pagani (i non ancora convertiti al cristianesimo). Persino le pubbliche calamità erano spiegate come causa dell’ira divina contro pagani ed eretici, ritenuti in preda di mire demoniache. La cultura religiosa pagana fu accusata come malefica superstizione. Opere letterarie non conformi alla fede cristiana furono date al rogo.  I templi pagani distrutti o trasformati in chiese. Molti pagani ed eretici furono ritenuti artefici di manipolazioni demoniache e perciò accusati di magia. Le malefiche opere demoniache erano credute una conseguenza dell’ira divina per il peccato di Adamo. I peccati degli uomini erano attribuiti all’esistenza del demonio. L’umanità, massa dannata, condannata alla morte eterna, per essere liberata dal demonio e dalla colpa originaria doveva aderire alla fede cristiana e farsi battezzare. Mediante il sacramento del battesimo, dono del sacrificio del Figlio di Dio, il Cristo Gesù morto per noi sulla croce, l’umanità può beneficiare della vita eterna e della contemplazione di Dio. Con la legittimazione istituzionale della Chiesa, il clero, disciplinato nella gerarchia ecclesiastica, immerso nella sfera religiosa, si distinse dalla sfera profana, secolare, mondana, di cui fanno parte i laici, il popolo cristiano che presiede al culto. I valori di una ristretta e sacralizzata classe sacerdotale furono imposti, volenti o nolenti, a tutti, credenti o diversamente credenti.

Furono i giudei cristiani a trasmettere i loro libri sacri (Bibbia dei Settanta, tradotta in lingua greca) ai convertiti pagani. Solamente verso la fine del IV sec. si ebbe una traduzione in latino della Bibbia, eseguita da san Gerolamo (c.d. Vulgata). Le traduzioni in lingue moderne, purché fossero autorizzate dalla Chiesa, furono eseguite intorno all’epoca umanistica. Il Concilio di Trento, nel 1546, definì il canone dei libri sacri del cattolicesimo, ammettendo testi rigettati dalle prime comunità cristiane o rigettando quelli in uso nella Chiesa antica. Moltissimi erano i vangeli che circolavano nei primi tempi del cristianesimo e che furono considerati apocrifi dopo l’istituzione del canone tridentino.

Il cristianesimo, in quanto religione derivante dall’ebraismo, ha adottato i libri dell’Antico Testamento (alleanza tra Dio e il suo eletto popolo), cui ha aggiunto i libri canonici del Nuovo Testamento (alleanza con un nuovo popolo). I testi sacri dell’Ebraismo sono: il Pentateuco (la legge che Dio aveva dettato a Mosè), i libri dei Profeti (antichi e posteriori), ispirati da Dio, e altre Scritture (sapienziali, storiche, ecc.), ritenute non ispirate direttamente da Dio. A questi testi è stato aggiunto il Talmud, formato dalla Mishnah (la legge orale), una raccolta di tradizioni sull’interpretazione della Legge, e dalla Ghemara (un commento alla Mishnah). La Bibbia, in quanto ritenuta ispirata da Dio, non può errare né ingannare; dunque, essa non può che assumere l’autorità della verità in ogni sua parte. In realtà, l’immagine che la Bibbia dà di Dio è negativa. Il Dio biblico è omicida, favorisce un solo popolo, purché sia a lui servilmente obbediente, e lo incita a sterminare o ridurre in schiavitù altri popoli. E’ un Dio dispotico, geloso, ingiusto, rancoroso, vendicativo, che dichiara lecite le uccisioni da lui comandate, in opposizione alle leggi da lui stesso decretate nel Decalogo. Questa figura negativa di Dio, che rispecchia quello concepito nell’A.T., è stata accolta nel Corano, soprattutto nelle sure medinesi. I testi sacri delle tre religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo, islamismo), giacché sono creduti di provenienza divina, si considerano verità assolute, dogmatiche, valide in ogni tempo e luogo, prove infallibili della rivelazione di Dio. Un solo errore o una sola falsità riscontrabile nei suddetti sacri testi li renderebbe inattendibili. In realtà, molti sono gli errori, le falsità, le divergenze, le contraddizioni, le assurdità, le incoerenze, le inverosimiglianze e altre negatività in essi riscontrabili, se letti con senso critico. Dunque, non paiono attendibili. Nel dubbio, ognuno può ritenerli veri, per fede, o falsi, quindi non degni di fede.

Con quali criteri furono scritti i tanti vangeli (canonici e apocrifi) e come fu accertata l’attendibilità o falsità dei medesimi? Gli autori furono testimoni oculari o riportarono altrui testimonianze e quali, quelle dei testimoni oculari o quelle dedotte dalla tradizione orale? Quali prove o garanzie furono addotte per avvalorare la veridicità delle narrazioni e dei presunti miracoli operati da Gesù, che nulla scrisse di suo pugno? Quale certezza abbiamo che le copie a noi pervenute siano fedeli ai perduti testi originali e che non abbiano subito nel tempo interpolazioni o aggiunte? Quali sono i vangeli più autentici, quelli dei cristiani giudaizzanti o quelli dei gentili convertiti? Mah! La moderna critica testuale, il cui scopo è emendare il testo da errori, glosse e difetti introdotti volontariamente o involontariamente da copisti e traduttori, fino a che punto può garantire l’autenticità della copia in esame al testo originale (sempreché questo si possa ritenere veridico in ogni sua parte)? L’attuale testo delle Scritture è preferibile leggerlo con spirito critico per quello che letteralmente dice e comprenderlo per quanto consente la nostra intelligenza. Lasciamo alle speculazioni teologiche argomentare illazioni, supposizioni, ipotesi per fortificare la fede dei credenti.

Il Concilio Vaticano I, presieduto da Pio IX, aveva decretato l’infallibilità del papa e aveva stabilito che sacri e canonici dovevano essere intesi i libri approvati come tali dal Concilio di Trento, giacché autore di essi è Dio, che ha ispirato gli scrittori e che ispira lo stesso papa quando parla “ex cathedra” (infallibilità delle sue decisioni). Il Concilio di Trento, in verità, aveva santificato non i testi originari, ma la traduzione in latino di san Gerolamo (c.d. Vulgata), ritenuta ispirata da Dio al traduttore. Pio X con l’enciclica del 1907 condannò la critica testuale, perché riteneva i testi sacri immutabili e intangibili in conformità al credo tridentino. Già Pio IX tacciava i filologi come nemici della divina rivelazione. Pio XII, invece, con l’enciclica del 1943, promosse la critica testuale, contraddicendo i suoi predecessori e la loro presunta infallibilità. I testi sacri, in realtà, come qualsiasi altro testo antico, possono subire interpolazioni e corruzioni durante il lungo processo storico della loro esistenza.

Il diritto e l’eticità di uno Stato devono fondarsi sulla religione o essere indipendenti da essa, che presume di conoscere la volontà di Dio? Su quale religione e su quale Dio deve fondarsi l'eticità e il diritto, posto che ogni religione ha il suo Dio? Il Gesù dei vangeli sembra voler indicare che vi siano due autorità e due distinte competenze, quella terrena e quella celeste. Il cristianesimo ha interpretato le parole messe in bocca a Gesù, ritenendo che la legge divina, cioè la norma per accedere alla salvezza e alla vita eterna nel Regno di Dio, sia superiore alla legge dello Stato, il cui scopo è limitato al governo della vita terrena. Dunque, i doveri verso Dio, così come prescritti e garantiti dalla Chiesa, sarebbero superiori ai doveri verso lo Stato. La legge morale della religione cristiana, quindi, sarebbe superiore a quella derivante dalle norme giuridiche dello Stato, perché l’una discenderebbe dalla volontà di Dio, l’altra da quella deliberata dagli uomini. Ne consegue che il potere della Chiesa dovrebbe essere superiore a quello dello Stato, che non può ostacolare i doveri che il cristiano ha verso Dio né può limitare l’autorità della Chiesa in merito all’interpretazione della volontà divina. L’autorità dello Stato, quindi, dovrebbe essere subordinata a quella della Chiesa, che può o non legittimare l’altro, secondo che la legge dello Stato sia o non conforme a quella della Chiesa, la cui legittimazione, superiorità e sacralità discenderebbero direttamente da Dio.

 Lucio Apulo Daunio



martedì 2 ottobre 2012


SPIGOLATURE EVANGELICHE

              



               Gli autori dei vangeli canonici (cioè ritenuti ispirati da Dio) narrano i detti, i fatti, i tempi, le persone e altre circostanze della vita di Gesù in modo differente sia gli uni dagli altri sia rispetto agli altri autori dei vangeli apocrifi (quelli che la Chiesa, in seguito, ha ritenuto non ispirati da Dio). Taluni, poi, dicono ciò che altri ignorano. Due vangeli canonici, attribuiti a Matteo e Giovanni, apostoli di Gesù, sono l’uno diverso dall’altro, tanto che il Gesù dell’uno non assomiglia a quello dell’altro. Marco, che ha scritto il vangelo riportando altrui testimonianze, ignora la nascita di Gesù e quella del suo precursore Giovanni Battista. Matteo e Luca, invece, descrivono nei più intimi dettagli la nascita di Gesù. Luca aggiunge quella di Giovanni Battista e un episodio dell’adolescenza di Gesù, che discute con i dotti ebrei nel Tempio. Giovanni, come Marco, nulla dice sulla nascita dell’uno e dell’altro.

Luca fa nascere i due protagonisti al tempo di Erode il Grande, re di Giudea. Un angelo, Gabriele, annuncia prima a Zagaria la nascita del figlio Giovanni, il Battista, e sei mesi dopo, a Maria di Nazareth, la miracolosa concezione di Gesù. Maria, dopo il divino concepimento, parte (da sola?) verso la Giudea per far visita alla parente Elisabetta, moglie di Zagaria. Vi resta per circa tre mesi con loro, facendo esultare Giovanni nel seno di sua madre. L’evangelista Giovanni, invece, fa dire al Battista che non conosceva Gesù, né come parente né come Messia. Luca racconta che, a causa di un (improbabile) censimento disposto dalle autorità romane, Giuseppe e Maria, prossima a partorire, lasciarono la Galilea per recarsi in Giudea, a Betlemme, paese originario della sacra famiglia, dove alloggiarono presso una stalla perché non c’era posto in albergo a causa dell’affollamento (non pare credibile che non avessero più alcun parente che potesse ospitarli). Dopo il parto di Maria, andarono a Gerusalemme nel Tempio per ottemperare alle prescrizioni legali. Luca ignora se andarono a trovare i parenti Zagaria ed Elisabetta ivi residenti. Eppure, il bambino Gesù fu riconosciuto nel Tempio come l’atteso Salvatore di Israele. In tutta Gerusalemme si era sparsa la voce del lieto evento e, qualche tempo prima, anche nella vicina Betlemme e dintorni per opera dei pastori, che andarono ad adorare il bambinello nella mangiatoia. Luca, però, prima dice che Gesù e il Battista erano parenti ed entrambi conoscevano la missione cui l’altro era destinato, poi, nel proseguimento del racconto, dice che il Battista dubitò della messianicità del Cristo, ancorché avesse visto discendere lo Spirito Santo in forma di colomba durante il battesimo dell’altro.

Nel sacro poema epico dell’India, il Mahabharata, si contempla un leggendario episodio analogo alla vicenda di Zagaria. Nascite miracolose annunciate da angeli si riscontrano anche nell’A.T., come quelle di Isacco, di Sansone e di Samuele, che furono consacrati al dio d’Israele. Gli angeli Gabriele, Michele e Raffaele, secondarie figure protagoniste dell’Antico e del Nuovo Testamento (Nuova Alleanza), fanno parte della mitologia persiano-caldea, importata dalla cultura ebraica durante la cattività babilonese.

Matteo, all’inizio del suo racconto, riporta la genealogia di Gesù, iniziando da Abramo, e suddividendola in tre gruppi ciascuno di quattordici generazioni (per un totale effettivo di quarantuno anziché quarantadue generazioni). Questa genealogia presenta imprecisioni e differenze rispetto alle genealogie riportate nei testi ebraici. Lo scopo cui allude l’evangelista è dimostrare la discendenza di Gesù, preteso Messia Salvatore, dalla stirpe di Davide, com’era stato annunziato dai profeti. Luca, invece, che descrive la genealogia di Gesù dopo l’episodio del battesimo, risale fino ad Adamo, differendo in più punti da quella riportata da Matteo. Quanto al padre putativo di Gesù, sia l’uno sia l’altro evangelista lo fanno discendere da persone diverse. Dubbia è in Luca la discendenza di Maria dalla casa di Davide, essendo la stessa stretta parente di Elisabetta, discendente dalla casa di Aronne. Dunque, dubbia è anche la discendenza di Gesù dalla stirpe di Davide, se si afferma dogmaticamente che Giuseppe è padre putativo, anziché naturale di Gesù e che questi è consanguineo di Giovanni Battista. In verità, lo scopo di Luca è dimostrare che Gesù non soltanto apparterebbe alla stirpe davidica nella linea del padre Giuseppe, ma è anche sacerdote e re come Melchisedec , discendente della stirpe di Aronne (in verità, Melchisedec era un sacerdote cananeo), cui apparterebbe la madre Maria. Ne consegue l’assurda discendenza di Maria dalle due stirpi, regale e sacerdotale. Sembra quindi evidente che i perduti testi originari, attribuiti a Matteo e Luca, siano stati in seguito rimaneggiati per avvalorare le interpretazioni ideologiche delle varie comunità religiose dominanti.

Marco tace sulla nascita miracolosa e sulla vita di Gesù fino all’età adulta, quando inizia la sua pretesa missione divina. Egli è il Cristo, ancorché figlio di Maria e del carpentiere Giuseppe, dimoranti in uno sconosciuto villaggio della Galilea. Ha fratelli e sorelle, dunque non è figlio unigenito. Marco quindi ignora ciò che poi diverrà di fondamentale importanza del cristianesimo, anche se il suo vangelo pare che sia tra le più antiche testimonianze sulla vita di Gesù. Anche Giovanni, quantunque divinizzi la figura di Gesù, tace sulla sua vita fino all’età adulta. Egli fa dire a un discepolo che Gesù è figlio di Giuseppe, da Nazareth. Ha fratelli che non credevano in lui. Eppure, secondo Matteo e Luca, la sua nascita soprannaturale divenne un fatto pubblico in Giudea. Matteo asserisce che la dimora della sacra famiglia era in Betlemme (contraddicendo Luca, che pur confermando la nascita di Gesù a Betlemme, in Giudea, a causa di un censimento, dice che sia prima sia dopo la nascita di Gesù la famiglia abitava in Nazareth, nella Galilea).

Secondo Matteo, prima di consumare il matrimonio con Giuseppe, Maria si trovò incinta per opera divina. Accortosi della gravidanza, Giuseppe voleva ripudiarla, ma un angelo apparsogli in sogno lo informò che a mettere incinta Maria era stato lo Spirito Santo. Maria - aggiunse l’angelo - darà alla luce il Salvatore del suo popolo. Giuseppe mangiò la foglia e si tenne Maria, astenendosi dai rapporti sessuali fino alla nascita del primogenito Gesù. Dunque, in seguito, avrebbe generato altri figli. Secondo Luca, fu l’angelo Gabriele che, sei mesi dopo l’annuncio del figlio Giovanni a Zaccaria, apparve a Maria per annunciarle il concepimento miracoloso di Gesù, figlio dell’Altissimo, erede del regno di Davide, destinato a regnare in eterno sulla casa di Giacobbe. Maria rimase turbata non dall’improvvisa apparizione ma dalle parole dello sconosciuto, che era apparso senza dire chi fosse, mentre a Zagaria era apparso presentandosi come angelo Gabriele. Gesù, inoltre, non è descritto come modesto salvatore dei peccati del suo popolo, bensì come re d’Israele. Come la prese Giuseppe l’incresciosa notizia della gravidanza miracolosa di Maria, ciò non è detto. Nessuna inventiva è impossibile alla fervida e contraddittoria fantasia degli evangelisti!

Svetonio, nella vita di Augusto, cita un frammento di Asclepiade di Mendes, secondo il quale Atia (cioè Azia Maggiore), madre di Augusto, fu ingravidata dal dio Apollo. Filostrato racconta che alla madre incinta di Apollonio di Tiana (il Cristo pagano) apparve il dio Proteo. Ella, per nulla intimorita dall’inquietante divinità, le chiese di chi si sarebbe sgravata. E l’altro rispose che si sarebbe sgravata di lui. Nell’opera “Ricognizioni” di un autore anonimo del II secolo, si racconta che Simone Mago, messia dei Samaritani, si vantava di essere nato dalla vergine Rachele prima che costei avesse rapporti sessuali con il marito. Apuleio, nell’opera “Su Platone e la sua dottrina”, narra che Aristone, padre di Platone, fu ammonito da una voce divina di lasciare illibata la sua sposa fino a quando il dio Apollo non la ingravidasse. Nel mito di fondazione di Roma si racconta che la vestale Rea Silvia fu messa in cinta dal dio Marte. Mitra, Adone e altre divinità della Persia, dell’Egitto e della Siria si credevano concepiti da vergini donne rese gravide da uno spirito divino. A simili racconti si dava credito in quei tempi.

Se Matteo fa nascere Gesù nel decennio precedente l’anno zero, Luca lo fa nascere nel successivo decennio. La nascita di Gesù al 25 dicembre, durante il periodo in cui si celebravano a Roma i Saturnali e si festeggiava il natale del dio Mitra, Sole Invitto, è un’invenzione della Chiesa.

Dopo la nascita di Gesù in una grotta a Betlemme – secondo la narrazione di Luca – un angelo avvertì i pastori nei dintorni che era nato in una mangiatoia il Salvatore d’Israele. Intanto una moltitudine dell’esercito celeste inneggiava il “Gloria”. I pastori accorsero ad adorare il Messia-Signore, seguendo le indicazioni dell’angelo. Trascorsi otto giorni, il bambinello fu circonciso e, in seguito, secondo gli usi ebraici, fu portato al Tempio in Gerusalemme per essere riscattato con un’offerta. Nel Tempio fu riconosciuto dal pio Simeone come il Cristo del Signore e dalla profetessa Anna come il liberatore di Gerusalemme. La profezia divenne (o sarebbe dovuta diventare) di pubblico dominio.

Matteo, a differenza di Luca, fa nascere Gesù nella casa paterna, in Betlemme, dove riceve la visita dei Magi guidati sul luogo da una stella (cosa del tutto assurda). I Magi erano verosimilmente sacerdoti caldei, studiosi di astrologia; essi credevano che i sette pianeti allora conosciuti mostrassero i segni degli eventi futuri. L’evangelista aggiunge l’improbabile strage degli innocenti, ordinata da Erode, e la preventiva fuga in Egitto della sacra famiglia, avvertita del pericolo da un angelo.

Pastori, magi e notabili del Tempio divulgarono la lieta notizia dell’avvento del Messia, liberatore d’Israele, rendendola di dominio pubblico e dando così avvio al mito e al mistero di Gesù, noto solamente agli scrittori cristiani.

Plutarco narra che quando nacque Osiride fu udita una voce che lo proclamava Signore di tutto il mondo. La voce stessa comandò a una donna di nome Pamilia, che andava al tempio di Giove per attingere acqua, di divulgare in giro che era nato il gran re e benefattore Osiride.

Svetonio riporta una tradizione secondo la quale, prima della nascita di Augusto, accadde un prodigio in Roma, del quale si congetturò che la natura stava per partorire il re del popolo romano. Ciò diede adito al Senato di emanare un editto, poi non applicato, con cui si ordinava di uccidere tutti i bambini nati durante quell’anno fatidico.

Secondo la tradizione giudaica, Elia doveva comparire alla fine del mondo, precedendo l’avvento del Salvatore d’Israele. Gesù, come testimoniano gli autori dei vangeli sinottici, parlando di Elia, intendeva riferirsi al suo precursore Giovanni Battista. L’evangelista Giovanni, invece, dice che il Battista, interrogato da sacerdoti, leviti e farisei, che gli chiesero se fosse lui il Cristo o Elia o il profeta, cioè se fosse l’atteso salvatore escatologico, rispose di no.

L’ennesimo prodigio occorso durante il battesimo di Gesù sulle rive del Giordano non ebbe effetti persuasivi, al pari degli altri miracoli e portenti operati da Gesù, per la conversione dei giudei alla sua divina missione. Eppure, in molti videro discendere su Gesù da uno squarcio di cielo lo Spirito di Dio sotto la forma di una colomba e udirono la voce tonante di Dio Padre proclamarlo Figlio suo diletto. Secondo alcuni antichi miti, la colomba era venerata come una divinità (Semiramide, regina degli Assiri, ascese tra gli dei sotto forma di una colomba). Gli evangelisti, seguendo la tradizione popolare, simboleggiarono nella colomba l’immagine visibile dello Spirito di Dio.

Secondo una mitologia giudaica, il regno di Satana, che ha potestà sulle tenebre, sarebbe terminato con l’avvento del regno del Messia. Secondo i vangeli sinottici, lo Spirito Santo, disceso su Gesù durante il rito del battesimo, volle mettere alla prova la sua efficacia su Gesù, perciò lo condusse nel deserto, dove si riteneva che abitassero gli spiriti malefici. In quel luogo desolato, vivendo con le fiere, astenendosi dal mangiare, servito dagli angeli (a che pro?), Gesù fu tentato per quaranta giorni da Satana, che evidentemente volle conoscere chi fosse colui che l’avrebbe dovuto spodestare dal suo tenebroso regno. Gesù, ovviamente, ne uscì vittorioso dalla lotta con il principe del male.

Tra i prodigi operati da Gesù, soltanto l’evangelista Giovanni riporta quello della trasformazione dell’acqua in vino durante una festa di nozze nel villaggio di Cana. Epifanio di Salamina, nella sua opera “Panarion” (trattato contro le eresie), racconta che in una città della regione Caria (nell’attuale Turchia) ci fosse una fontana da cui, nel giorno e ora in cui avvenne il prodigio di Cana, scorreva vino anziché acqua. Plinio il Vecchio, nella sua opera “Storia Naturale”, racconta che nell’isola di Andros nelle Cicladi alle idi di gennaio (nel tredicesimo giorno del mese) zampillava vino da una fontana. Altri miti raccontano analoghi portenti.

Se Luca riporta la conversione di Zaccheo, ricco capo dei pubblicani (cioè magistrato che sovrintendeva alle pubbliche rendite), Giovanni riporta quella di Nicodemo, capo dei giudei (cioè un membro del Sinedrio, massimo organo religioso). Soltanto Giovanni dice che quando Gesù venne in Giudea con i suoi discepoli a battezzare, la gente accorreva per farsi da lui battezzare. I discepoli del Battista si lamentarono con il loro maestro della concorrenza dell’altro, ma egli rispose loro che non era lui il Messia, bensì Gesù. Poco più avanti, però, Giovanni si corregge, dicendo che non era Gesù che battezzava ma i suoi discepoli. I Sinottici, invece, dicono che la missione di Gesù consisteva nel predicare; non dicono che lui o i suoi discepoli battezzassero. Giovanni, inoltre, dice che Gesù e i suoi discepoli passarono per la Samaria, dove avvenne l’incontro con la Samaritana al pozzo di Giacobbe. I Sinottici, invece, dicono che Gesù proibì espressamente ai discepoli di andare in Samaria (fra Giudei e Samaritani non correva buon sangue).

Secondo Marco e Matteo, Gesù inizia la sua missione di predicatore nella regione palestinese della Galilea, spostandosi lungo le sponde del lago di Tiberiade. In seguito, va a predicare a Nazareth, dove diede scandalo e, a causa dell’incredulità dei paesani, non poté compiere miracoli. Secondo Luca, invece, Gesù venne prima a predicare a Nazareth, dove indignò i Nazareni che, a furor di popolo, lo trascinarono fino in cima al monte, su cui era situato il loro villaggio, per farlo precipitare giù (l’attuale Nazareth, però, non si trova sul pendio di un monte). Gesù, chi sa come, in quel frangente riuscì a farla franca, trasferendosi definitivamente a Cafarnao, sul lago di Tiberiade. Se per Marco e Matteo i primi discepoli di Gesù erano pescatori, Luca aggiunge che questi si convertirono dopo che Gesù compì il miracolo dell’abbondante pesca. Un analogo miracolo racconta anche Giovanni, ma dopo la resurrezione di Cristo, che si fece riconoscere dai discepoli affranti, dopo aver compiuto il miracolo dell’abbondante pesca. Quanto alle singole conversioni di apostoli e discepoli, gli evangelisti differiscono l’uno dagli altri. Due apostoli, Filippo e Andrea (fratello di Simon Pietro), hanno nomi greci (ciò pare impossibile per un giudeo palestinese). Un altro apostolo, Bartolomeo, sembra un patronimico (bar-tolomeo, cioè figlio di Tolomeo, un nome greco). Luca aggiunge che Gesù elesse anche altri settantadue discepoli e che li inviò in coppia nei luoghi che stava per visitare.

Moltissimi e clamorosi furono i miracoli e i prodigi che, secondo l’immaginazione degli autori dei vangeli, Gesù avrebbe compiuto. Il famoso “Discorso sul monte” (una raccolta di detti morali attribuiti a Gesù), riportato da Matteo, trova qualche accenno in Marco e Luca (Discorso della pianura), non in Giovanni, che a sua volta non conosce il miracolo della guarigione del lebbroso, narrata dai tre sinottici (Luca aggiunge la miracolosa guarigione di altri dieci lebbrosi). Alcuni pretesi miracoli di guarigione sono riferibili a un fatto medesimo narrato in modo differente da ciascun evangelista, come le guarigioni dalle infermità o quelle dalle supposte possessioni demoniache (queste ultime sconosciute a Giovanni). Luca riferisce che quando Gesù guarì l’indemoniata di Gerasa, la popolazione del luogo, anziché inneggiare al miracolo, si spaventò, costringendo Gesù ad allontanarsi da loro. Anche il racconto della guarigione di un paralitico è presentato in modo differente dagli evangelisti. Marco e Luca aggiungono alla narrazione di Matteo un inverosimile episodio. A causa della folla che ostruiva l’ingresso dell’abitazione in cui Gesù operava guarigioni, alcune persone sollevarono il lettuccio, su cui giaceva il paralitico, fin sopra il tetto della casa. Una volta scoperchiate le tegole e praticato un foro, lo calarono giù presso Gesù, da cui fu tosto guarito. Giovanni, invece, cambia i particolari. Il miracolo avvenne non in una casa della Galilea, ma a Gerusalemme, presso la piscina di Betesda.

Quanto all’incredibile e impossibile risuscitazione di morti, Marco, Matteo e Luca riportano l’episodio della risuscitazione della figlia di Giairo, capo della sinagoga. Luca aggiunge la risuscitazione del figlio della vedova di Naim. Giovanni non conosce i prodigi di risuscitamento narrati dai sinottici, né gli autori di questi vangeli conoscono il clamoroso ritorno in vita di Lazzaro, l’amato da Gesù, avvenuto in Betania, villaggio vicino a Gerusalemme, narrato da Giovanni. Lazzaro era il fratello di Marta e di quella Maria che aveva unto il Signore con del profumo costosissimo e gli aveva asciugato i piedi con i capelli. Luca dice che l’unzione di Gesù avvenne in un villaggio della Galilea nella casa di un fariseo, che aveva invitato a pranzo Gesù; aggiunge, inoltre, che l’unzione gli fu fatta da una peccatrice, di cui non indica il nome. Di Marta e Maria, Luca racconta un diverso episodio avvenuto in un villaggio, di cui non specifica il nome. Matteo e Marco riportano l’episodio dell’unzione con unguento prezioso avvenuto in Betania nella casa di Simone il lebbroso da parte di una donna, di cui non specificano il nome.

Circa le guarigioni miracolose di ciechi narrate dai quattro evangelisti, Marco dice che la guarigione miracolosa di un cieco avvenne a Betsaida (villaggio a nord del Lago di Tiberiade, nella regione Gaulanitide, confinante con la Galilea). Betsaida, dove secondo Giovanni erano nati gli apostoli Pietro, Andrea e Filippo, fu aspramente rimproverata da Gesù (secondo Matteo, perché gli abitanti non si erano convertiti, nonostante i numerosi miracoli cui avevano assistito). Matteo dice che Gesù guarì due ciechi a Cafarnao e subito dopo un sordomuto. Aggiunge che guarì un indemoniato cieco e muto e altri due ciechi a Gerico (secondo Luca e Marco era uno; Marco specifica che quel cieco era Bar-timeo, cioè figlio di Timeo). Giovanni dice che Gesù guarì un cieco a Gerusalemme. Marco e Giovanni dicono che Gesù guarì il cieco applicandogli negli occhi un impiastro di fango (Marco aggiunge che il cieco guarì dopo che Gesù applicò due volte le mani sugli occhi; Giovanni, invece precisa che il cieco guarì dopo essersi lavato nella piscina di Siloe). In Matteo, tutti i ciechi sono guariti mediante il tocco delle mani. In Marco, Bartimeo è guarito con la semplice parola, a differenza del cieco di Betsaida. Anche Luca dice che Gesù guarì il cieco con la parola. Lo storico romano Tacito riporta analoghe guarigioni operate dall’imperatore Vespasiano.

Tutti e quattro gli evangelisti raccontano l’inverosimile episodio miracoloso della moltiplicazione di alcuni pani e pesci per sfamare la numerosa folla al seguito di Gesù (più di quattromila o cinquemila persone). Soltanto Marco e Matteo raccontano un altro analogo episodio, quello della seconda moltiplicazione di pochi pani e pesci. Ovviamente, gli evangelisti differiscono tra loro in molti particolari. Per esempio, se nel primo episodio Gesù benedisse e moltiplicò cinque pani e pochi pesci e, dopo la distribuzione, avanzarono dodici ceste (allusione ai dodici apostoli e alle dodici tribù d’Israele); nel secondo episodio egli benedisse cinque pani e pochi pesci e, dopo la distribuzione, avanzarono sette ceste (numero sacro per gli ebrei). Secondo la tradizione giudaica, anche Elia ed Eliseo compirono il miracolo della moltiplicazione di farina e olio. Quanto alle leggende che si raccontano su Maometto, ve ne sono alcune riferite ai suoi supposti prodigi. Per sfamare gli operai che stavano scavando una trincera intorno a Medina per resistere all’assedio dei Meccani, Maometto compì il portento di moltiplicare le provviste di datteri secchi, di un pane d’orzo e di un arrosto di agnello (notizia tratta dal Dizionario storico-mitologico di Giovanni Pozzoli).

Un altro inverosimile episodio, quello di Gesù che cammina sulle acque del lago di Tiberiade per soccorrere gli apostoli durante una tempesta, è narrato da tre autori dei vangeli: Marco, Matteo e Giovanni. Luca, assieme a Marco e Matteo, riporta un altro inverosimile episodio, quello di aver sedato una tempesta, mentre viaggiava in barca con gli apostoli. L’uno e l’altro episodio sono narrati in modi diversi dagli autori dei vangeli. Del resto, nei libri biblici si racconta che Mosè passo a piedi il Mar Rosso senza bagnarsi; anche Giosuè passo a piedi il fiume Giordano senza bagnarsi, e lo stesso fece Eliseo stendendo il mantello di Elia.

Gli autori dei vangeli sinottici riportano la risposta che gli apostoli diedero a Gesù, quando chiese loro cosa pensavano di lui. Gli rispose l’apostolo Pietro, dicendogli che era il Messia (secondo Marco); che era il Messia di Dio (secondo Luca); che era il Messia, figlio del Dio vivente (secondo Matteo). Soltanto l’evangelista Matteo riporta che Gesù elogia Pietro perché il Padre celeste a lui ha rivelato la divinità del Figlio. Poi (continua il racconto di Matteo), seduta stante, lo insignì quale pietra angolare dell’edificante Chiesa, sentenziando che le tenebre non prevarranno mai su di essa. A Pietro (e ai suoi successori) darà le chiavi del Regno dei cieli e ogni cosa che egli avrà legato o sciolto sulla terra, altrettanto avverrà nei cieli. Pare evidente che in Matteo ci sia un’interpolazione aggiunta in tempi successivi dai teologi per dar lustro, autorità, sacralità e supremazia ai successori di Pietro. La facoltà di legare e sciogliere, in verità, Gesù la concesse, come lo stesso Matteo riporta più avanti nel suo vangelo, a tutti gli apostoli. La medesima cosa fa dire Giovanni a Gesù risorto, quando soffiò sugli apostoli lo Spirito Santo.

Gli autori dei vangeli sinottici dicono che l’ultima cena di Gesù con gli apostoli fu consumata durante la ricorrenza della Pasqua (ebraica), in cui -secondo la Chiesa- Gesù istituì il sacramento dell’Eucaristia. Per Marco e Matteo, durante il consumo della cena, Gesù prese del pane, lo benedì, lo spezzo e invitò i discepoli a mangiarne, perché quello era il suo corpo. Luca aggiunge “che è dato per voi” (dunque non per tutti). Prese poi del calice colmo di vino, lo benedì e invitò i discepoli a berne, perché, secondo Marco e Matteo, quello era il suo sangue della nuova alleanza che stava per versare per molti (dunque non per tutti). Matteo aggiunge “in remissione dei peccati” (supponendo una colpa da espiare e una vittima da sacrificare). Luca, invece, fa dire a Gesù, dopo l’offerta del vino ai discepoli, che egli non avrebbe più bevuto vino fino a quando non verrà il Regno di Dio. Questo fan dire a Gesù anche gli altri due evangelisti, precisando, l’uno (Marco), che lo berrà con loro nel Regno di Dio, l’altro (Matteo), nel Regno del Padre mio (qualificando così Gesù come Figlio di Dio). Solamente Luca fa dire a Gesù “Fate questo in memoria di me”, cioè in ricordo dell’imminente morte. Su queste parole la Chiesa ha poi istituito il rituale del sacramento eucaristico.

Giovanni, invece, dice che l’ultima cena avvenne prima della festa di Pasqua, ma non fa alcun accenno all’istituzione dell’Eucaristia. Egli riporta soltanto l’episodio della cerimonia che si riferisce al lavaggio dei piedi agli apostoli, ignorata dai sinottici. Continua la narrazione con una lunga, mistica predica di Gesù, nella quale, fra l’altro, gli fa dire che lui è nel Padre come il Padre è in lui, anche se il Padre è più grande di lui, ma lui è la via, la verità e la luce. Aggiunge la promessa di Gesù ai discepoli, che il Padre manderà un altro Paracleto, cioè lo Spirito Santo, che farà loro ricordare tutto quello che lui ha predicato. In un’altra predica, precedente quella dell’ultima cena, Giovanni fa dire a Gesù che lui è il pane della vita, cioè la sua carne che sacrificherà per la vita del mondo. Chi non mangerà la sua carne e non berrà il suo sangue non avrà la vita eterna.

Se, però, molti sono i chiamati e pochi gli eletti, e se il sangue di Cristo, simbolo della nuova alleanza (e non più il sangue della circoncisione, che sanciva l’antica alleanza tra Dio e gli ebrei sotto il giogo della Legge), è versato per molti (non per tutti), e se il suo corpo è stato sacrificato per la salvezza di pochi eletti, allora l’immolazione di Cristo sulla croce appare essere a esclusivo beneficio dei predestinati alla salvezza.

Di altre invenzioni, incoerenze e assurdità riportate dagli autori dei vangeli circa la cattura, il processo, la condanna, la morte, la sepoltura, la risurrezione, l’apparizione e l’ascensione del risorto Gesù, voglia il lettore curioso, improntato a pazienza e guarnito di spirito critico, dedurle direttamente dal confronto dei contraddittori racconti degli evangelisti.


 Lucio Apulo Daunio



venerdì 28 settembre 2012


IL PENSIERO MUSULMANO NEL MEDIOEVO

 

L’Islàm fonda le sue radici sulla tradizione religiosa ebraico-cristiana, non su quella classica greco-romana. I califfi successori di Maometto assoggettarono ebrei e cristiani, protetti e tollerati in quanto popoli del Libro, cioè credenti nelle rivelazioni di Dio ai profeti che avevano preceduto Maometto. A vescovi e rabbini fu concesso un certo grado di giurisdizione civile, giacché il diritto islamico non si occupava dei non musulmani.

L’Islam ha in comune, con l’ebraismo e il cristianesimo, il monoteismo (escludendo, per quanto concerne il cristianesimo, l’incarnazione del Figlio di Dio e la fede nella Trinità divina), ma anche la creazione dal nulla, l’orazione pubblica e privata, la carità, il digiuno, l’etica sociale e personale. Con l’ebraismo l’Islam ha in comune le restrizioni alimentari e la pratica della circoncisione; con il cristianesimo ha in comune l’universalità del messaggio da promuovere con l’attività missionaria (il Corano, in verità, prescrive la diffusione della fede anche per mezzo della spada) e la credenza nella resurrezione del corpo nell’aldilà (ma il Paradiso islamico è diverso da quello dei cristiani perché prevede ricompense sia materiali sia spirituali). L’Islam ha ereditato dal paganesimo pre-islamico il sistema patriarcale e la concezione dell’inferiorità della donna (socialmente segregata e giuridicamente discriminata, è obbligata a portare il velo in pubblico ed è persino esclusa dai piaceri fisici nel godereccio aldilà musulmano), la poliginia nella forma della poligamia, la legittimità del concubinaggio, il pellegrinaggio al santuario della Mecca, certe forme di superstizione (come la venerazione della pietra nera) e la visione fatalistica della vita. Dalle popolazioni asiatiche assoggettate i musulmani appresero le tecniche del misticismo (sufismo), della contemplazione e dell’estasi.

L’arabo, scrittura del Corano, divenne la lingua ufficiale nei territori musulmani. Nei territori del Medio Oriente ebbe particolare importanza il persiano. Minore influenza ebbero le lingue e le letterature greco-romane a causa delle diversità linguistiche. Soltanto pochi colti mussulmani ebbero interesse per la scienza e la filosofia greca. Essi trovarono sostegno ufficiale e compirono cospicui progressi fino al X secolo. Dall’XI secolo nei territori islamici furono istituite le Madrasse per lo studio avanzato delle materie prettamente religiose. Dal XII secolo in poi la filosofia fu addirittura considerata estranea al pensiero musulmano. Dei progressi del pensiero speculativo musulmano ne beneficiò invece l’Europa occidentale, mediante le traduzioni dei testi scientifici e filosofici nella lingua greca e latina. La formazione culturale musulmana s’incentrava sulla memorizzazione meccanica del Corano e sull’apprendimento della lingua araba. Il processo formativo dei musulmani non prevedeva il confronto libero e diretto tra sostenitori di differenti posizioni.

Dal secolo VIII la letteratura araba pre-islamica, che era trasmessa oralmente e che includeva l’epica, la lirica e la poesia gnomica, fu messa per iscritto. Essa rispecchiava la cultura tribale e seminomade degli arabi e serviva a dare lustro e divertimento presso le corti dei califfi. L’epica era strutturata sulle genealogie dei protagonisti, le faide tra le varie tribù, l’abilità bellica, la fedeltà a un codice d’onore che richiedeva la vendetta delle offese. La lirica trattava argomenti popolari come il vino e l’amore. I poemi gnomici erano costruzioni di un insieme di proverbi. La prima opera araba in prosa ritmica fu il Corano, la divina parola trasmessa in più tempi al profeta Maometto. La trama del Corano non è narrativa come la Bibbia o i Vangeli. Il testo si presenta al lettore in versi senza un ordine tematico e cronologico. I versi più brevi, che furono rivelati prima, si trovano dopo i versi più lunghi di epoca posteriore. Generi nuovi della letteratura araba, come la storia e le favole, furono ereditati dalla letteratura persiana. Le conquiste musulmane nell’ambito delle materie scientifiche, a iniziare dal tardo VIII secolo, trovano fondamento nelle traduzioni in arabo dei testi greci, per il tramite del siriano, eseguite dai sudditi cristiani dei califfi. Il matematico più creativo del medioevo islamico fu al-Kwarizmi (780-850). Egli derivò il concetto dello zero e quello dei numeri (c.d. arabi) dall’India e diede importanti contributi nell’aritmetica e nell’algebra. Un contributo decisivo alla ricerca in musicologia lo diede al-Farabi (870-950). La matematica fu anche applicata all’astronomia, che allora era associata all’astrologia. L’astronomia serviva a predire la cadenza delle feste religiose mobili e dei digiuni nel mese di Ramadan, secondo il calendario lunare. Nel campo delle scienze naturaliste primeggiò al-Biruni (973-1048), il più grande scienziato del medioevo, matematico, astronomo, cartografo, filosofo e studioso di culture straniere; in quello della medicina, al Razi (865-925); nella medicina e nella filosofia, Avicenna (980-1037). La formazione di Avicenna fu conseguita, tramite istruttori privati, nel suo tempo libero dal lavoro, giacché l’Islam non aveva un sistema scolastico nelle materie secolari. La scienza musulmana era esclusivamente finalizzata alle pratiche applicazioni non alla pura ricerca. Nell’Islam è mancata l’integrazione tra filosofia e cultura religiosa. La teologia musulmana aveva già fatto progressi prima che fosse disponibile l’accesso alla filosofia greca. Un importante dibattito teologico riguardava il problema del libero arbitrio, fondato sui versi del Corano, che pongono l’accento sulla giustizia divina nei confronti della volontà virtuosa, quindi del bene, ricompensata nell’aldilà, a differenza di quella disdicevole, quindi del male, severamente punita. In opposizione al libero arbitrio si pone la concezione della predestinazione, in parte derivante dal fatalismo pre-islamico, in parte dai versi del Corano, che inneggiano all’onnipotenza e onniscienza di Dio e al suo controllo su tutto (a tutto provvede e di ogni cosa dispone in modo assoluto: l’uomo non può volere nulla se Dio non lo vuole).

Nel periodo abbaside (a iniziare dall’anno 750), quando la filosofia greca divenne disponibile in arabo, emerse il movimento della teologia mutikallimum, termine derivante da kalam, che significa “argomentazione ragionata”, le cui diverse scuole utilizzarono singole idee filosofiche o per la difesa del monoteismo radicale o per sostenere la predestinazione e negare il libero arbitrio o, viceversa, per affermare il libero arbitrio e negare la predestinazione. Una filosofia separata dalla teologia era il falsafah, che consisteva nei tentativi razionali e intellettuali per comprendere le leggi e i principi universali. Ne fu promotore al-Kindi (800-866), detto “il filosofo degli arabi”, matematico, medico, astronomo, geografo, musicista, sperimentatore e creatore di una metodologia scientifica, che sviluppò un pensiero filosofico fondato sulle dottrine di Plotino e di Porfirio e sul concetto aristotelico dell’intelletto agente. Al-Farabi (870-950) derivò la sua teoria politica da Platone (reinterpretando il califfo come il re filosofo della “Repubbica”), la metafisica e la cosmologia dai neoplatonici, la logica e l’analisi dell’intelletto umano da Aristotele. Avicenna (980-1037) fu il filosofo più originale dell’alto medioevo islamico. Egli per un verso cercò di unire la filosofia alla teologia, senza trascurare la pura ricerca filosofica. Da Aristotele assunse il principio che l’uomo trae informazioni valide dai dati sensibili e li elabora in proposizioni concettuali che mettono in relazione causa ed effetti. Per avere la certezza di qualcosa non è sufficiente avere della medesima un’idea nella mente, se a tale idea non corrisponde la realtà extra-mentale. Lo sforzo sistematico di integrare la filosofia alla teologia e al sufismo (misticismo) fu compiuto da al-Ghazali (1058-1111). Egli obiettò contro taluni filosofi che la loro concezione dell’eternità del mondo portava alla negazione degli attributi divini, come l’onnipotenza e la volontà. Il mondo, invece, è stato creato dalla volontà eterna di Dio, cioè dalla sua eterna determinazione, ma in un momento finito del tempo. Direttamente da Dio, inoltre, è derivata anche la molteplicità del mondo. Ultimo brillante filosofo fu Averroè (1126-1198), fautore dello studio filosofico separato dalla teologia e di una doppia verità. In realtà, con riferimento ai tre modelli di dimostrazione descritti da Aristotele, Egli pensa che ci siano tre strade che conducono a una medesima verità. Il primo tipo di argomentazione è l’esortazione, che consiste nell’aderire per fede alla legge coranica, in quanto verità rivelata da Dio a Maometto. Il secondo tipo di argomentazione è la dialettica, il metodo adottato dai teologi che combina la fede con la ragione mediante premesse probabili e conclusioni altrettanto probabili. Il terzo tipo di argomentazione è la rigorosa dimostrazione, il metodo proprio dei filosofi, basato su prove verificabili deduttivamente ed empiricamente, che generano certezza scientifica. I teologi musulmani ortodossi rigettarono non solo la dottrina di Averroè ma tutto il metodo di argomentazione elaborato dai precedenti filosofi, perché giudicarono il falsafah incompatibile con la fede musulmana.

Lucio Apulo Daunio

sabato 18 febbraio 2012


QUANDO DIO SCOMPARIRA’ DAL MONDO

Dio scomparirà dal mondo quando scomparirà l’uomo




Chiedersi se Dio esista non ha senso, poiché sul concetto ipotetico “esistenza di Dio” nessuno ha conoscenze e certezze assolute. Né è possibile verificare l’esistenza di un supposto ente invisibile (Gv 1,18) e inaccessibile, che nessun uomo ha mai visto né potrà mai vedere (1 Tm 6,16), anche se la fede induce a credere in ciò che riporta la Bibbia, cioè che Giacobbe vide Elohim faccia a faccia (Gn 32,31; 35,9), che Mosè parlava con l’Altissimo faccia a faccia (Es 33,11), che Isaia vide Jahvè con i suoi occhi (Is 6,5).

Secondo la teologia negativa di Dionigi l’Areopagita, di Dio possiamo conoscere ciò che non è. Giambattista Vico notava che se Dio né parla né risponde né si mostra quando si invoca, Dio non esiste. Unica conoscibile verità è la storia dell'uomo (verum ipsum factum). Se Dio non si manifesta, Dio è il Nulla. Dio, perciò, è un concetto astratto, una supposta realtà, elevata a entità trascendente, inventata dal bisogno dell’uomo di avere un patrono in cui cercare conforto e tutela dal timore dei mali del mondo e della vita. Dio, dunque, è un’entità immaginaria, che la mente umana ha sublimato in un essere superiore, perfettissimo, onnipotente, onniscente. Dio, insomma, è un bisogno indotto dalla fragilità della natura umana.

Le istituzioni religiose, facendo leva sull’angoscia esistenziale e sulla naturale paura dell’ignoto, perpetuano l’illusoria credenza dell’esistenza di Dio, proponendolo come scopo ultimo della vita umana transeunte. Il credente, che professa la religione cristiana, invoca Dio per essere liberato dai nemici e soprattutto dagli atei: gente non santa, profana, immorale, inclina a commettere frodi e nequizie (salmo 43). Tutto ciò che non è di Dio, affermano i cristiani, è di Satana, astratta personificazione del male. Gli atei, in verità, sono persone intelligenti, portatori di un umanesimo razionale, indipendente dalle fedi, dalle chiese e dal fanatismo religioso. Gli atei non vogliono avere nulla a che fare né con Satana né con Dio né con i suoi (spesso indegni) sedicenti rappresentanti sulla Terra. Il male, in vero, non è la negazione di Dio ma la negazione della libertà e della dignità dell’uomo, calpestata, come la storia documenta, dal dogmatismo religioso e dall’oppressione clericale. Certi vicari di Cristo, piuttosto che annunciare l’immane tragedia dell’ateismo, che, sciogliendo la fede, fa precipitare l’uomo nel vuoto del nichilismo, rammentino l’atroce tragedia della santa (!) inquisizione, vergogna della cristianità, che per cinque secoli ha torturato e bruciato chi non si conformava all’ortodossia del credo cattolico romano. Sant’Agostino, secoli prima, quando il cristianesimo divenne unica e incontestabile religione di stato, arrivò persino a giustificare lo sterminio degli eretici, ritenendolo non un omicidio, giacché – a suo dire - non si uccideva la persona, bruciandola viva sul rogo, ma il male che in lui allignava. Bernardo, il santo dei Cavalieri Templari, predicatore della seconda crociata contro l’Islam, riprendendo la tesi di Agostino, giustificherà l’uccisione dei musulmani. Non gli atei o gli eretici, ma la santa (!) Chiesa, vissuta per secoli nell’ignominia, deve rispondere dei crimini commessi contro l’umanità nel nome di un Dio ignoto. Un Dio, come quello ebraico–cristiano, descritto nella Bibbia (Antico e Nuovo Testamento), che incita a sterminare popoli e invoca maledizioni, non può essere uno stinco di santo. Che tipo di santità è quella professata da un Dio vendicativo, spietato, sanguinario, che impreca e maledice, che predilige un solo popolo, che onora solo chi lo onora e castiga chi lo disprezza, che esorta a compiere stragi, che beatifica uccisioni di pargoli (Salmo 137,9), che incute terrore e che minaccia chi non crede in lui? Questo Dio è un criminale. Questo Dio, peraltro, non mantiene ciò che promette: né il regno messianico della pace, dove il lupo abiterà insieme all’agnello (Isaia 11,1-9), né il regno universale di Jahvè (Michea 4,1seg), dove non si eserciterà più la guerra. Le illusorie promesse del Dio giudaico-cristiano sono un imbroglio a danno della buona fede dei credenti. Il Figlio di Dio, invenzione cristiana, non è da meno del Padre guerrafondaio dell’Antico Testamento. Gesù, infatti, come lasciano intendere gli evangelisti, si circonda di discepoli armati di spade. Egli, se per un verso impartisce beatitudini, per un altro verso invoca maledizioni contro chi non ascolta la sua parola. Altro che amore incondizionato verso il prossimo! Del resto, egli dice che è venuto nel mondo a portare la guerra, non la pace. Questo Dio cristiano, uno o trino che sia, non è capace a togliere il male dal mondo, vanificando secoli d’invocazione da parte dei fedeli della sua onorata (!) Chiesa. La religione ebraico-cristiana, come quella islamica da essa derivata, appare più simile a un’associazione per delinquere, che a una comunità di santi, giacché, più che l’amore, le tre religioni monoteistiche hanno predicato l’odio contro i diversamente credenti.

Nella nostra epoca post-moderna e post-cristiana, caratterizzata dal secolarismo, si proclama la scomparsa di Dio e di ogni divinità trascendente facente parte della combriccola olimpica. Sempre più si stanno affermando concezioni propagate dai movimenti teologici teotanatologici (theos-thanatos-logos), che discutono sulla morte di Dio. Volge ormai al termine un processo storico: quello determinato dalla pretesa di doversi conformare a una presunta volontà, manifestata a uomini eletti, da un essere trascendente, ossia inesistente. Già con la credenza cristiana dell’incarnazione del Padre nella persona del Figlio (l’ebreo Cristo Gesù), Dio cessa di essere sovrumano, trascendente, onnipotente, onniscente, immortale, giacché diventa un essere limitato, finito, mortale. Dio muore quando diventa uomo.

Ateo (a-theos = senza Dio, cioè che non crede in Dio) è un termine spregiativo nato nel Cinquecento, il secolo in cui si manifesta l’irreligiosità e l’eterodossia, dopo il lungo periodo, denominato dagli storici “medioevo”, caratterizzato dal predominio religioso politico culturale della Chiesa cattolica romana. Tuttavia, non mancarono voci di dissenso, come quelle dei filosofi Boezio di Dacia e Sigieri di Brabante, accusati di essere sostenitori della dottrina della doppia verità (la fede e la ragione portano a due diverse verità), e prima di loro, quella di Guglielmo di Conches, che aprì la strada alla panteistica identificazione di Dio con la natura, separando il momento della creazione del mondo dalla successiva fase della formazione degli esseri naturali, spiegati in termini fisici. Il vero e proprio ateismo, però, si manifesta nel Seicento, il secolo della rivoluzione scientifica, del razionalismo, del metodo matematico-sperimentale (Galileo, Cartesio, Bacone, Newton e altri). Questo è anche il secolo del pensiero libertino, che afferma l’autonomia della ragione da ogni forma di autorità (come l’assolutismo politico e l’impostura della religione), e concepisce l’universo retto da leggi fisiche, necessarie e necessitanti. Giulio Cesare Vanini, filosofo libertino del libero pensiero, denuncia pubblicamente l’impostura delle tre religioni monoteistiche. Accusato di ateismo è condannato a essere bruciato sul rogo. Il curato ateo Jean Meslier scrive il “Testamento”, pubblicato dopo la sua morte, in cui spiega che le religioni sono invenzioni dell’uomo per illudere, ingannare, opprimere. Nel Seicento, secolo della controriforma cattolica, della censura, della repressione inquisitoria, intellettuali e filosofi fanno circolare clandestinamente i loro scritti, con cui criticano la religione e difendono le leggi di natura. In questi scritti anonimi si affermano concezioni deistiche, materialistiche, atee (Theophrastus redivivus; Colloquium Heptaplomeres; Esprit de Monsieur Benoit de Spinosa; Symbolum; ecc.). Circola pure il leggendario “De Tribus Impostoribus”, stampato poi nel Settecento come “Trattato dei tre impostori”, attribuito a Spinoza o a un suo allievo.

Gli atei, insomma, non vogliono avere nulla a che fare con Dio, che sia ebraico o cristiano o islamico o di qualsiasi altra fede, né tanto meno tollerano le imposizioni dogmatiche di qualunque chiesa. Figuriamoci poi se possono credere a un Dio forsennato, vendicativo, spietato, sanguinario, omicida; che impreca e maledice; che ordina stermini di popoli e massacri. Questo Dio assassino sarebbe un santo? Non è punto credibile. L’ateo pone la sua fiducia nel metodo logico matematico sperimentale della scienza, sempre falsificabile, mai assoluto. La scienza rivendica l’autonomia del pensiero e considera irrilevante, ai fini dell’indagine sulle leggi della natura, l’ipotesi del soprannaturale e di ogni concezione religiosa. Se la fede è fiducia e speranza in ciò di cui si crede sia certo, non per questo ciò che appare certo debba necessariamente essere anche vero. Perciò la fede, che presume di conoscere supposte inverificabili verità, assolutizzandole, è credenza irrazionale, che mortifica la ragione e la ricerca scientifica.

Gli dei e le loro multiformi trasformazioni (Jahvè, Gesù, Allah, ecc.), invenzioni dell’umana gente, scompariranno definitivamente dal mondo quando scomparirà l’ultimo uomo alla fine dei tempi.


Lucio Apulo Daunio


mercoledì 25 gennaio 2012


  ILLUSIONI CRISTIANE




Gli autori delle Sacre Scritture cristiane affermano che l’ebreo Gesù operò secondo le profezie dell’Antico Testamento. Queste annunciavano la venuta di un messia: il cristo, l’unto del Signore, il re consacrato d’Israele, che avrebbe riscattato il popolo ebraico dai mali del mondo. Questo messia, parola del Nuovo Testamento, sarebbe Gesù, elevato dai suoi epigoni a “Figlio di Dio”, l’essere divino che si è fatto uomo per salvare dal peccato originale l’umana gente. Gli ebrei, invece, che avevano adottato un dio tutto per loro, e che in forza di questa supposta potenza si consideravano privilegiati rispetto agli altri popoli della terra, non crederono al “verbo” predicato dall'apostata Gesù e ai presunti miracoli da lui compiuti. Negavano che egli fosse l’atteso messia e, tanto meno, che fosse figlio divino di Dio. Figuriamoci poi se potevano accettare che fosse consustanziale al Padre celeste, da cui, secondo la dottrina dogmatica cristiana, “procederebbe” (cioè, generato e non creato) assieme allo Spirito Santo. Al più potevano considerare Gesù come uno dei tanti profeti del tempo. Sospettarono che fosse un seguace del partito degli zeloti, i patrioti che in Israele fomentavano rivolte contro il dominio romano, mettendo in pericolo la sopravvivenza dell’intera nazione.

Che cosa ha fatto di rilevante durante la sua vita terrena il sedicente Cristo, Figlio di Dio, per farsi accreditare presso il suo popolo? Quali mirabili imprese egli ha realizzato per il benessere e la felicità dell’umana specie? Pur essendo in suo potere convertire il prossimo con l’aiuto dello Spirito Santo, pare che non godesse stima tra la sua gente e persino tra i propri famigliari. I suoi paesani, che lo conoscevano bene, poco mancarono che lo linciassero, tanto che dovette emigrare da Nazareth a Cafarnao, che pure maledisse per la pochezza di fede dei suoi abitanti. I dotti ebrei non credevano in lui, né che fosse l’atteso messia né un uomo saggio; figuriamoci poi se potevano credere che fosse un dio incarnato, figlio di un dio padre: roba da stracciarsi le vesti per la bestemmia pronunciata. La sua condotta non poté essere più tollerata dall’autorità giudaica. Abbandonato dai suoi discepoli, denunciato alle autorità religiose e politiche come empio sovversivo, Gesù fu condannato a una pena infamante: la crocifissione. I suoi compagni di sventura, dopo qualche tempo, fantasticarono su di lui, asserendo che egli in vita aveva predetto la sua resurrezione, della quale, peraltro, sono gli unici che ne danno testimonianza. Solo con la fede si può credere a ciò che la ragione dubita, in mancanza di prove concrete. In verità, in fede degli evangelisti, neanche i discepoli di Gesù crederono alla sua resurrezione, almeno fino a quando, in fede loro, ne ebbero la prova vedendolo apparire in carne e ossa. Tommaso si convinse solo quando toccò le sue piaghe. In realtà, ciò che appare verosimile della storia del Galileo, è l’ingloriosa fine della sua vita, la sua “passione”, del resto prevedibile dalla sua alterigia nei confronti dell’autorità costituita. Contestazioni, arroganze, dottrine eterodosse, imprecazioni (poco cristiane) lo resero inviso alle autorità religiose giudaiche. Morendo appeso sulla croce, da maledetto (Dt 21, 22-23), Gesù contaminò il suolo benedetto, che Jahvè aveva donato in eredità al popolo prediletto. Egli, condannato a morire sulla croce, non ha liberato il genere umano da un’atavica, biblica, leggendaria maledizione, annullandola (Ga 3, 12-14). Al contrario, s’è macchiato d’ignominia e di saccenteria, predicando dottrine velleitarie, contrastando le prescrizioni della Legge, apostatando dall’ebraismo. Di lui, persino gli apostoli dubitarono. Uno di loro lo ha persino tradito; un altro, il principe degli apostoli, pietra angolare dell’edificante chiesa cristiana, lo ha rinnegato. Tutti i fedelissimi fuggirono a gambe levate nell’ora più triste. In molti lo videro morire, ma solo pochi, in fede loro, lo videro risorto e di lui favoleggiarono, lasciando ai posteri contraddittorie testimonianze. Il mito del Cristo-Dio risorto, propagandato dall’incipiente cristianesimo in tempi in cui germogliavano credenze superstiziose, ha dato gloria immortale alle sue eroiche, tragiche gesta, a tutto vantaggio di un clero gerarchizzato, costituitosi in monarchia di diritto divino, il cui sovrano si reputa responsabile solo verso la divinità. I cristiani, in realtà, adorano un uomo divinizzato, che hanno proclamato re del cielo e della terra e triplicato in un dio uni-trino, ligio a condannare nel tribunale del suo regno celeste, con tremendo e inappellabile giudizio sommario, chi rifiuterà di credere e di sottomettersi ai diktat del suo terrestre vicario. Il papa, pontefice massimo della cristianità, giacché presume di rappresentare Dio sulla terra, si arroga il potere di sciogliere e legare “ad libitum” con validità in questo e nell’altro mondo (Lc 19, 27-28). Se Jahvè gioiva nel comminare maledizioni agli ebrei infedeli durante la loro esistenza terrena (Dt 28, 15 seg.), non da meno gioirono secoli addietro i cristiani, degni figli di un dio indegno, perseguitando e gettando alle fiamme i rami secchi (Gv 15, 6), cioè infedeli, eretici, streghe. La santa alleanza del clero con le autorità civili, l’intolleranza e il fanatismo degli inquisitori appartenenti agli ordini servili dei frati domenicani e francescani, la milizia gesuitica papalina: tutti si prodigarono a smorzare le ribellioni contro l’egemonia del potere ecclesiastico, mediante il terrore, le torture, la violenza morale e fisica.

Pia illusione è voler credere che possa esistere un dio giusto e benevolo, un padre che tutto può, tutto vede e a tutto provvede. Lo smentiscono i devastanti cataclismi, che diffondono sgomento e sofferenze nel mondo, senza distinguere i buoni dai cattivi. Se il mondo appare fatto per i furbi senza scrupoli, agli onesti non resta che scegliere: o rassegnarsi ai mali del mondo, illudendosi in una fede religiosa che predica la speranza di una futura ricompensa nell’aldilà; oppure attivarsi nell’aldiquà per migliorare la vita di tutti nel mondo reale, rispettando la natura che ci ospita. Non in Dio, bensì nella concretezza del nostro essere e agire nel mondo che va trovata la spiegazione alla nostra breve esistenza. Non esiste la “Verità”, ma una verità controllabile, verificabile, falsificabile. Il senso della vita è vivere un’esistenza singolare, senza eccessivo egoismo, immedesimandosi nei bisogni del prossimo. Cercare verità evanescenti nel trascendente, credere alle favole teistiche, è la conseguenza di un atavico bisogno di protezione, che accompagna l’umanità dalla notte dei tempi, spaventata dai terrificanti eventi della natura e da tutto ciò che ignora. L’alienazione prodotta dal cristianesimo genera il mito dell’eterna felicità in un fantomatico regno celeste, lontano dalla concretezza della vita reale. Le ultramondane beatitudini sono riservate a esclusivo beneficio degli eletti. Per la massa dei dannati, invece, si prospetta una penosa eternità. Il ricorso alla religione è un mezzo irrazionale per trovare conforto alle difficoltà del vivere. L’irrazionalità, peraltro, pervade anche la cultura laica, laddove sconfina dai valori razionali dell’agire umano, ed esalta quelli istintivi, emotivi, immaginifici, che portano a credere in realtà inesistenti.

L’umanità non ha bisogno di virtù soprannaturali, infuse da un dio misterioso e invisibile, correlate a un premio in un mondo irreale. Virtù umane sono quelle proprie di un’etica laica, trasfuse in un sistema di regole giuridiche, che educano alla responsabilità.  Guida utile per l’umana gente non è la virtù teologale della fede nella verità rivelata in tempi remoti da un dio trascendente agli eletti suoi fedeli, bensì la fiducia nel progresso della ricerca scientifica, da cui acquisire conoscenze e relative certezze immanenti a beneficio dell’umanità. Ciò che l’umanità deve perseguire, consapevole dei propri limiti, non è la virtù teologale della speranza nell’eterna visione beatifica di un dio ignoto, bensì la concretezza di una singolare, responsabile esperienza di vita. Utile non è la virtù teologale della carità verso il prossimo per amore di Dio, bensì l’impegno politico a rimuovere le cause che determinano la sperequazione della ricchezza e l’ingiustizia sociale. Il reciproco rispetto, la tolleranza nei riguardi delle altrui idee, l’interrelazione con le altre interiorità umane in un reciproco accrescimento di valori comuni, denota il carattere di formazione laica e civile delle persone e l’indelebile impronta di civiltà raggiunta da un popolo.

Penso, dunque posso dubitare delle mie certezze, dei miei parametri di giudizio. Sono un essere razionale, dunque indago la realtà con l’uso della ragione, affidandomi al metodo scientifico, avvalendomi del senso critico, controllando l’attendibilità delle conoscenze acquisite. Pensare è anche riflettere, ragionare, dimostrare, mettendo in discussione i valori in cui si crede, raffrontandoli con quelli cui non si aderisce. Questo processo dialettico, di confronto fra una pluralità di valori, caratterizza la libertà di un popolo in un determinato periodo storico. L’assolutizzazione, invece, genera l’intolleranza e il pensiero unico. Solo il reciproco, critico confronto con le altrui scelte, nei limiti di una civile tolleranza, e la ricerca di valori condivisibili potrà consentire la convivenza tra popoli che hanno diverse culture, favorendone la convivenza. Il progresso civile deve fondarsi sulla ragione e sulla conoscenza scientifica. Regresso è l’irrazionale spreco di risorse per innalzare templi in onore di divinità immaginarie, come anche il finanziamento della casta sacerdotale, che perpetua il proprio dominio propagando superstiziose credenze metafisiche alienanti le coscienze con illusorie speranze nell’aldilà. Non templi ma edifici idonei ai bisogni di vita dell’uomo servono a migliorare la qualità della vita. A che pro onorare la santità di una vita spesa per un’illusione, trascurando chi reca effettivi benefici all’umanità? Il bene supremo non va cercato nella cristiana illusione del regno dei cieli, né tanto meno nella speranza di una ricompensa da parte di un dio ignoto, ma nel coraggio di affrontare un mondo reale, costruendo la propria vita assieme a quelle altrui.

Allorquando la scienza dimostrò che la Terra è rotonda (anche se in paesi arretrati potrebbe esserci chi ancora crede che la terra sia piatta), fu definitivamente revocata in dubbio la validità delle verità propagate dalla fede giudaico-cristiana, i cui errori madornali, imposti con la violenza fisica e morale, hanno denotato l’atteggiamento settario dei seguaci del Nazareno. Lo stesso Agostino, il retore santificato e addottorato dalla Chiesa, ammise che, se fosse stata dimostrata la sfericità della Terra, le asserite verità del cristianesimo sarebbero falsità. Il cattolicesimo pseudo ecumenico del Vaticano, in preda a deliri di grandezza, si crede depositario dell’unica verità, ossia dell’unica falsità tutelata dalla legge per un comune sentire di un popolo educato religiosamente. Lo Stato ha legalizzato una superstizione che la Chiesa continua impunemente a propagandare con ingenti mezzi al mondo intero, abusando della credulità popolare. La complicità dello Stato, al riguardo, è riprovevole, perché, anziché salvaguardare i cittadini dagli altrui inganni, tutela giuridicamente gli ingannatori dagli attacchi demolitori dei liberi pensatori. La Chiesa dei cristiani, ancorché si copra sotto il vello del mite agnello, deve rispondere al tribunale dell’umanità d’efferati crimini e violenze. La cristianità si è macchiata di colpe scellerate: guerre di religione, genocidi, omicidi politici, violenza psicologica, aggressioni processuali, persecuzioni (pogrom), fanatismi (come l’uccisione della neoplatonica Ipazia per mano di esaltati e ignoranti monaci cristiani), processi inquisitori, torture, autodafé, condanne al rogo, divieti al controllo delle nascite, impedimenti al progresso culturale e scientifico, interdizioni all’esplicazione del libero pensiero (indice dei libri proibiti), discriminazioni, castrazioni, perversioni sessuali (pedofilia), distruzioni, incendi di biblioteche (come quella famosa d’Alessandria d’Egitto), tratta degli schiavi, sradicamenti d’antiche culture, simonie, vendita d’indulgenze, commercio di false reliquie, truffe, falsificazioni di documenti (come la falsa Donazione di Costantino per giustificare la scalata al potere secolare; o come le Decretali dello pseudo Isidoro per avvalorare la tesi della sottomissione del potere temporale a quello ecclesiastico), e altre simili nefandezze. Le scuse del papa, per i misfatti compiuti dai cristiani nel nome del loro dio, non potranno giammai zittire le coscienze né essere obliate dalla memoria storica dell’umanità.     

Si diffuse nell’antichità la voce che il grande Pan, il dio che rideva e danzava, simbolo della forza vitale, era morto. Assieme a lui scomparvero anche gli antropomorfici dei dell’Olimpo. Deserto divenne il Pantheon, giacché l’Ellade era morta. Non scomparvero però altre imposture. Esse ancora pervadono le contrade del mondo, contaminando le coscienze con meste superstizioni. Tristi figure corvine gracchiano lodi a un uomo deificato. Oppressa è la libertà dell’uomo dal tirannico dominio delle religioni.

La gioia divamperà quando ogni illusoria divinità sarà rimossa dai sogni degli uomini.                                                                                                                                                                                                                                                                            
  Lucio Apulo Daunio