lunedì 26 dicembre 2011


PAOLO  
INVENTORE DEL CRISTIANESIMO



Paolo, l’inventore del cristianesimo, fulminato dalla fede in Cristo sulla via per Damasco, apostatizzò dal giudaismo, sottraendosi al dominio della Legge mosaica. La Legge, infatti, a suo dire, non giustificava l’uomo, perché, se l’avesse giustificato, Cristo sarebbe morto invano (Ga 2, 18-21). Paolo, pur avendo abbandonato il giudaismo per aderire a Cristo, non mancò di ritornare al giudaismo, nonostante i suoi ammonimenti (Ga 5, 1), sottomettendosi al giogo della schiavitù, indotta dall’osservanza scrupolosa della Legge. Che era impossibile, anche per un giudeo rigoroso, osservare le innumerevoli prescrizioni della Legge, se ne rese conto lo steso apostolo Pietro. Egli, infatti, considerò l’inopportunità d’imporre ai pagani convertiti l’osservanza della Legge, ritenendola un giogo duro da sopportare persino dai Giudei (At 15, 10-11). Soave e leggero, invece, era il giogo del vangelo di Cristo (Mt 11, 28-30). Della mitezza e umiltà di cuore proclamate dal vangelo, l’irruente Paolo (ma anche il burbero Pietro) non sempre ne fece tesoro (Ga 5, 12). Del resto, anche l’apocalittico Gesù minacciò e imprecò a destra e a manca.

La Legge - dice Paolo - ha avuto una funzione provvisoria durante il tempo d’attesa del Messia, il Cristo Gesù, il Salvatore. Ora, dopo la comparsa di Gesù, essa non è più utile per la salvezza (Rm 10, 4; Ga 3, 19 seg.).  In verità, essa fu scritta con il pugno di Jahvè e da lui ordinata a perenne vigenza (Es 12, 14-20). Se, dunque, come sostiene Paolo, solo per mezzo di Cristo l’umanità può trovare la salvezza, non essendo più sufficiente essere un buon giudeo, osservante della Legge, perché Dio ha tardato nell’inviarci la panacea della grazia tramite il Figlio? L’illuminato Paolo, il sognatore di Dio, nel suo vaniloquio ai Galati (Ga 4, 1 seg.), afferma che la Legge ha tutelato l’immaturità del popolo giudaico, fino a quando l’insindacabile giudizio di Dio lo ha riconosciuto (bontà sua) maturo. Il ritardo di Dio nel concedere la salvezza all’umanità, Paolo lo giustifica addossando la colpa all’immaturità degli ebrei. Se la speranza (spes ultima dea) di poter vivere dopo la morte nell’estasi eterna della visione di Dio, se questa speranza cristiana diverrà certezza, la vita ultraterrena appare all’umana ragione insopportabile e noiosa. Se, invece, tale speranza è l’illusione d’orditi inganni clericali, dopo la morte tutto finirà (mors ultima ratio). Un eterno sonno, privo di sogni, ci sommergerà nel Lete, il fiume dell’oblio. Dio lo voglia!

Ai Galati (Ga 3, 26-28), Paolo dichiara che dopo il battesimo, patrimonio di tutti i credenti (contrariamente alla circoncisione, eredità esclusiva dei maschi giudei), non esistono più differenze per i seguaci di Cristo: né di popolo né di condizione sociale né di genere. Un principio, questo, non ancora del tutto realizzato né dai cristiani né dalla Chiesa, che è divenuta potenza temporale, istituzionalizzata e legittimata a spacciare per verità il mito cristiano. Ai tempi di Cristo la donna aveva certamente più dignità di quanto non ebbe qualche secolo dopo. Poteva essere dotata di particolari carismi (doni spirituali, cfr. 1 Co 12, 1 seg.; 14, 26; Rm 12, 6-8; Ef 4, 11), avere incombenze religiose ed essere altresì annoverata tra gli apostoli, cioè tra i discepoli impegnati nell’evangelizzazione (Rm 16, 1-24; Fl 4, 2-3). Gesù, del resto, si mescolava con le donne, rispettabili e non, meravigliando persino i discepoli (Gv 4, 27). Le donne facevano parte del suo seguito e lo servivano (finanziando la sua missione). Ai Corinzi (1 Co 11, 3 seg.), invece, Paolo predica la disuguaglianza gerarchica tra Dio e Cristo, tra Cristo e uomo, tra uomo e donna (Eva è una propaggine d'Adamo). Nella scala gerarchica, Paolo colloca Dio come superiorità assoluta, cui subordina prima Cristo, poi l'uomo e infine la donna (meno perfetta rispetto all’uomo). Il luminare Agostino puntualizzerà che la donna non è stata creata come l’uomo a immagine e somiglianza di Dio. Paolo, pur divenendo un seguace di Cristo, restava pur sempre culturalmente un giudeo. Il giudaismo, infatti, proibiva alla donna, ritenendola impura, di occuparsi di cose sacre. La puerpera era soggetta alle norme di purificazione (Lv 12, 1-8). Nelle sinagoghe la donna non aveva il diritto di parlare e quando si presentava in pubblico doveva avere il capo coperto. Paolo, attenendosi ai costumi giudaici, per le donne dispose che nelle assemblee liturgiche avessero il capo coperto con un velo per riguardo agli uomini (non a Dio). Se non volevano indossare il cristiano “chador”, dovevano tagliarsi i capelli (similmente ai fanatici seguaci di culti orientali); se si vergognavano di farsi vedere con la testa rasata, dovevano coprirsi il capo. L’uomo, invece, aveva il dovere di scoprirsi il capo, essendo immagine e gloria di Dio, diversamente dalla donna, che fu creata per la gloria dell’uomo da una sua costola. Per questo la donna doveva portare un segno (marchio) di dipendenza (d’inferiorità) sul capo, anche per rispetto verso gli angeli (mah! Non si sa mai. Potrebbero nuovamente incaponirsi della bellezza delle donne, osservandole con le fluenti chiome scoperte). Non si comprende la ragione per cui queste supposte entità asessuate dovrebbero trovare sconveniente la testa chiomata delle donne, e non anche la folta capigliatura degli uomini. In verità, i “gentili”, uditori delle prediche paoline, non avevano l’abitudine giudaica di coprirsi il capo con un mantello durante la preghiera. Varie furono le giustificazioni (pregiudizi) addotte dalla Chiesa cattolica per negare il sacerdozio femminile. La donna, considerata biologicamente inferiore all’uomo, creato ad immagine di Dio, è vissuta per molti secoli nei paesi cristianizzati in stato di sudditanza del maschio, nel quale si presumeva che predominasse la ragione. Paolo proibì alle donne, durante il raduno agapico della comunità, di prendere la parola, salvo che non fosse dotata di carismi. In tal caso poteva predicare e profetizzare su ispirazione divina, osservando comportamenti decorosi. Se non aveva ispirazione, doveva tacere (1 Co 14, 34-40). Parlare nelle sante assemblee degli uomini era disdicevole per lei. Se voleva apprendere, poteva interrogare in casa il marito, cui era assoggettata, essendo l’uomo capo della donna (Ef 5, 21 seg.; Col 3, 18). La Bibbia, infatti, impone alla donna di sottomettersi all’uomo (Gn 3, 16). Ad avviare le giovani ai loro doveri familiari e domestici, a essere persone sagge, prudenti, buone, caste e docilmente sottomesse ai propri mariti, erano deputate le sante matriarche (Tt 2, 1 seg.). Quanto all’abbigliamento, Paolo (1 Tm 2, 9-15) raccomandava la decenza, proibendo loro di apparire imbellettate, con vesti sontuose e ornamenti preziosi. Ciò che si addiceva alle pie donne era l’ornamento interiore, soprattutto la taciturnità. Paolo non permetteva loro d’insegnare, ma solo d’imparare in silenzio, con perfetta sottomissione all’uomo. Questa sudditanza della donna la giustificava ricorrendo ai primordi della creazione, al mito della nascita primigenia d’Adamo e di quella successiva di Eva da una costola dell’uomo (Gn 2,7. 18. 22). In verità, anche la Bibbia è incerta a chi dei due spetta il primato della nascita. Se Adamo riceve l'aureola da Jahvè, gli Elohim (il Dio concepito dagli ebrei come un insieme di manifestazioni di potenza) la consegnano prima agli animali e poi all’umanità, senza distinzione di sesso (Gn 1, 20-31). Paolo, che si atteggia a maschilista, affetto dalla psicosi del peccato, addebita il primato della colpa originaria a Eva (mito di Pandora), pur di giustificare l’inferiore natura femminile. Il mito del peccato originale, commesso da supposti primi avi in violazione di tabù divini, da cui consegue la colpa da espiare di tutta la loro discendenza, è una pretestuosa corbelleria biblica (Rm 5, 12). I dotti teologi della Chiesa trionfante affibbiarono alla donna il marchio di tentatrice, sostenendo che doveva vergognarsi persino del fatto di essere, in quanto donna, discendente di Eva. La misoginia chiesastica, avvalendosi dei pregiudizi dell’antichità pagana, considerò la donna poco intelligente e inferiore all’uomo, quindi indegna al conferimento del sacramento dell’ordine (sacerdozio). Agostino, santificato e addottorato dalla Chiesa, le voleva ignoranti e segregate tra le pareti domestiche al fine di evitare che la loro peccaminosa bellezza tentasse la purezza dei santi cristiani. Lui le conosceva bene, avendo amoreggiato a lungo con loro. Maometto, addirittura, paragonerà la donna a un campo da arare tutte le volte che l’uomo la desidera. La donna, secondo Maometto, deve essere sempre disponibile a soddisfare l’uomo (al pari di una prostituta). La missione, che Paolo assegna alla donna, strumento dell’uomo, è la generazione di figli, per mezzo della quale anche lei potrà salvarsi, perseguendo le prescritte virtù cristiane. Sulla medesima linea di Paolo si schierò l’apostolo Pietro, che assegnò alla donna il compito di conquistare il marito alla fede in Cristo, osservando un modello di vita esemplare, consono al vangelo di Cristo (1Pt 3, 1 seg.). Il cattolicesimo, nella sua bi-millenaria storia, ha negato pari opportunità alle donne e ha mostrato di non essere immune da comportamenti discriminatori verso persone differentemente credenti.

La nuova legge, decretata da Gesù, libera dal peccato e dalla morte chi con fede la osservi (Rm 8, 2 seg.). Vivere secondo la carne, conduce l’uomo al peccato ed alla morte; vivere secondo la legge dello Spirito, soffocando le debolezze della carne, conduce l’uomo a Dio. Delle cose dello Spirito non si occupa la legge giudaica (Ga 5, 16-26). Essa, secondo Paolo, non si occupa di gioia, pace, amore, bontà, benevolenza, mitezza, fiducia, grandezza d’animo e padronanza di sé. Perché dunque Jahvè non ha infuso tale ricchezza morale nell’animo del suo prediletto popolo? Mistero! Che poi l’uomo, in forza dello Spirito, possa liberarsi totalmente dagli istinti della sua natura e non sottostare alle bramosie della carne (fornicazioni, impurità, dissolutezze, idolatrie, magie, litigi, gelosie, ambizioni, invidie, orge e altre consimili umane debolezze), appare del tutto inattendibile. “Sursum corda”, cristiani! Voi credenti, che patite immani sofferenze a imitazione di Cristo, sarete degni di vita eterna nell’agognato regno dei cieli! Gli altri, diversamente credenti, colpiti dagli inevitabili mali del loro essere nel mondo, sperano nell’eterno riposo nel regno dell’oscura morte, ma non perché colpevoli di essersi abbandonati agli istinti perversi, bensì per aver terminato con dignità un’esperienza singolare di vita, non asservita al credo di un misterioso dio e ai diktat della sua Chiesa. L’unico conforto per i non cristiani è la speranza di aver arricchito l’umanità con valori ispirati a ideali umani, convinti della razionalità propria dell’uomo di decidere insieme le norme di vita con i propri simili. Se credere in Cristo è un dono che l’uomo riceve da Dio (Gv 6, 44. 65), allora occorre fortuna, come vincere un terno al lotto. Chi non è predestinato, non potrà essere giustificato e glorificato. Gli eletti, pieni di grazie, di cui “ab aeterno” è stabilito il destino, che meriti hanno per godersi il regno delle voluttà paradisiache? Pur ammettendo che l’uomo sia libero di scegliere, senza subire condizionamenti, non è assurdo credere in “verità” impossibili da verificare? Ignorare il veto della ragione per abbracciare l’irrazionalità di una fede, è un’offesa alla nostra intelligenza. Se esiste nell’aldilà Lucifero, il ribelle di Dio, abbia almeno lui pietà per tutti i disgraziati morituri, indegni del dono divino! Iniqua appare la somma giustizia (summum ius, summa iniura) del giusto immisericordioso dio cristiano (Rm 8, 28-30), nei confronti di chi, pur non incappando nell’accusa di “asèbeia” (disprezzo degli dei), è colpevole non d’ostilità verso Dio, bensì di “atheos” (negazione degli dei), per sfiducia in ogni fede religiosa trascendente, perciò non probante.

L’amato fratello Paolo, che non era immune da intemperanze e opportunismi, neanche l’apostolo Pietro lo capiva, quando il suo modo d'esprimersi era poco chiaro o incomprensibile (2 Pt 3, 15-16). Beati siano gli illuminati interpreti dei divini misteri! Paolo, ebbro di Cristo, ebreo di stirpe della tribù di Beniamino, circonciso, fariseo quanto alla Legge, zelante persecutore della setta cristiana, irreprensibile quanto a giustizia legale, esempio raro di fenomeno umano, rinuncia al suo brillante stato e ai conseguenti vantaggi per seguire gli invisi accattoni della combriccola nazarena: le vie della fede sono inspiegabilmente misteriose!  Che cosa sarà veramente accaduto a Paolo per compiere questa svolta della sua vita? Che sia stato convertito dalla visione del risorto Gesù, secondo il racconto delle Sacre Scritture, non pare verosimile. Com'è noto, i guai della pentola li conosce il coperchio. Fatto sta che l’apostata Paolo si mise ad abbaiare contro i suoi ex confratelli ebrei, vituperandoli come cani, cattivi operai, falsi circoncisi. Veri circoncisi, non nella carne, ma secondo lo spirito, erano solamente i rampolli cristiani (Fl 3, 1 seg.). Paolo, ricolmo di zelo per Dio, si vantò di essere un giudeo, istruito ai piedi di Gamaliele nella rigorosa osservanza della Legge. Egli, prima di convertirsi a Cristo, perseguitò a morte i cristiani (At 22, 3-4); ma, dopo la conversione, predicò l’inutilità salvifica della circoncisione, simbolo perenne dell’alleanza e servitù a Dio (Ga 5, 1 seg.). Non solo era inutile, ma anche pericolosa, perché i fresconi che non volevano rinunciare a farsi circoncidere il prepuzio erano poi obbligati a mettere in pratica la totale osservanza della Legge (Ga 5, 2-4; Rm 2, 25). Ottemperando a essa, secondo Paolo, non solo rischiavano le maledizioni del burbero Jahvè, ma altresì perdevano la protezione del suo magnanimo Figlio. Paolo malignava contro certi ostinati ebrei, che volevano offrire il loro prepuzio a Dio, provocando scompiglio nella comunità cristiana. Costoro, a suo giudizio, potevano anche farsi mutilare interamente il membro! Che in lui vivesse lo spirito di Cristo (Ga 2, 20), non si dubita, dato che neanche il Messia, Dio professo, era immune da intemperanze verbali. Che poi Paolo portasse nel suo corpo i contrassegni di Cristo (Ga 6, 17), è senz’altro vero, dato che le buscò più volte a causa del suo intemperante caratterino e dell’intransigenza del suo attivismo fideistico. Non sempre esemplari furono i comportamenti di Paolo, e non solo con riferimento alla questione della circoncisione. Egli, infatti, si adattava alle circostanze che di volta in volta si presentavano. Quando aveva paura, mutava opinione, come l’astuto polipo muta il colore. Circoncise Timoteo per timore dei giudei (At 16, 1-3), rendendosi così colpevole di trasgressione (Ga 2, 18). Rinnegò pubblicamente la fede in Cristo per giudaizzare con i giudei in osservanza della legge del nazireato (At 21, 15-26).  La sua presenza nel Tempio fu causa di una sommossa, e poco mancò che lo linciassero. Fu salvato e tratto in arresto dal tribuno della coorte romana (At 21, 27 seg.). Accusato di aver profanato il Tempio e di predicare contro la Legge, dichiarò “coram populo” d'essere giudeo di stretta osservanza. Tuttavia, ammise di aver apostatato dalla fede ebraica a causa della fulminante visione del Nazareno, che lo rapì in estasi e lo convinse a farsi apostolo delle genti (At 22, 1 seg.). Il discorso tenuto in sua difesa (At 23, 1 seg.) non convinse gli accusatori giudei, che andarono in bestia, mentre farneticava di visioni e rapimenti. La sua arringa fu interrotta bruscamente dalle grida del popolo (vox populi, vox Dei), che lo voleva morto. Ormai alle strette, Paolo decise di salvare la pelle con un’astuzia. Chiese protezione alle autorità romane, che presenziavano nel Tempio, dichiarando d’essere cittadino romano (civis romanus sum). In quel frangente ritenne opportuno romanizzare con i Romani. Il giorno seguente, condotto per ordine del tribuno al giudizio del Sinedrio (in cui la maggioranza dei membri erano farisei e sadducei) per l’accertamento delle accuse addebitategli, Paolo, nato cittadino romano, ma di stirpe giudaica, che aveva doppie e triple verità secondo le circostanze, adeguandosi più a Proteo che a Cristo, si dichiarò fariseo puro sangue al fine di attirare su di sé la loro benevolenza (captatio benevolentiae). Poi, allo scopo di aizzare i farisei contro i sadducei (l’aristocrazia giudaica rigidamente conservatrice, che negava la resurrezione dei morti e l’esistenza di angeli e spiriti), aggiunse che l’accusa contro di lui concerneva la sua speranza nella resurrezione di Cristo (la necessità aguzza l’ingegno). Il Sinedrio si divise per una disputa pro o contro la resurrezione dei corpi. La disputa si tramutò in baruffa, che tosto degenerò in tafferugli e ci fu tumulto. Il tribuno, temendo un probabile linciaggio del prigioniero, cittadino romano, per evitare grane, decise di sottrarlo al pandemonio che si era scatenato tra i giudei, riconducendolo in caserma sotto folta scorta di militi. Eppure, in favore dei suoi meritevoli e gloriosi fratelli giudei, Paolo era disposto a votarsi alla maledizione divina e persino ad essere separato da Cristo (Rm 9, 3 seg.). Mah!


Lucio Apulo Daunio



lunedì 5 dicembre 2011



SE IL CRISTIANESIMO POSSA
ESSERE
DEGNO DI FEDE



Non possono esservi presso Dio - afferma il Vangelo predicato da Paolo - favoritismi di persone, come invece ci sono nel mondo, dove tra gli uomini si discrimina tra il povero e il ricco (Pr 22, 2). Paolo dichiara che Dio è tale (quindi imparziale) per tutti gli uomini, che siano giudei o pagani (Rm 3, 29). Nell’Antico Testamento, invece, si legge che Jahvè, Dio degli Ebrei, concesse i suoi favori esclusivamente al popolo giudaico. Egli è l’unico vero Dio e Israele è il figlio suo primogenito (Es 3, 15 e 4, 22 e 5, 3 e 7, 16). Dunque, per l’Antico Testamento, né Gesù è il figlio primogenito di Dio né gli altri popoli sono da lui prediletti. Mosè, infatti, conosce un solo Dio, non anche Figlio e Spirito Santo. Paolo, nella sinagoga d'Antiochia, predicava che il Dio d’Israele esaltò il suo popolo per liberarlo dalla (presunta) schiavitù in terra d’Egitto (At 13, 17-19). Non solo concesse loro il suo aiuto ai danni del faraone e del popolo egiziano (che si buscò il triste flagello delle dieci piaghe), ma distrusse persino sette altri popoli per dare loro la terra, che aveva promesso al patriarca Abramo per la cieca fede da lui professata (Gn 15, 6). Abramo, infatti, trovò gradimento presso Jahvè per non aver disobbedito all’insensato ordine di sacrificargli il figlio Isacco (Gn 22, 1 seg.). A ricompensa della sua incondizionata sottomissione, Jahvè lo giustificò, cioè lo santificò (Rm 4, 3; Ga 3, 6). Ed è proprio in base alla fede che, parola di Paolo, Dio riconoscerà e giustificherà i “figli” d’Abramo, ancorché di stirpe diversa (Ga 3, 7-9). Le tribù della terra, che benediranno Abramo, godranno la benedizione dell’Altissimo ed otterranno in eredità eterna l’ingresso nel santuario celeste. I popoli che invece lo malediranno, saranno maledetti in eterno, parola di Dio (Gn 12, 3). Genti della terra, siete avvertite!

Paolo mente quando dichiara che il Dio di cui predica non concede favoritismi (Rm 2, 11). In realtà, egli consente ai ricchi di opprimere i poveri (Pr 29, 13); ciò nonostante, ha la sfacciataggine di dire che non ha preferenze per gli uni o per gli altri (Gb 34, 19), prendendosi persino cura e degli uni e degli altri (Sp 6, 7). Perché anche dei ricchi oppressori? Perché a questi non preferisce, invece, i poveri oppressi? E’ già tanto se egli non gode per la rovina dei viventi (Sp 1, 13). Si dà per certo che da lui proviene ogni cosa (Sir 11, 14), anche l’esistenza del male (Is 45, 7).  Se la morte è entrata nel mondo, la colpa è del diavolo (Sp 2, 24). Sarà pure colpa di costui; tuttavia, questo funesto spirito manigoldo, insidiatore dell’uomo, è pur sempre una malefica creatura di Dio. Ingannato dal satanasso, l’uomo è stato privato della sua originaria incorruttibilità. Dio, pur sapendo che la sua innocente creatura in Eden era priva della conoscenza del bene e del male, ha consentito che fosse tentata e corrotta da una sua diabolica creatura, ma anziché punire il tentatore, ha castigato l’uomo e tutta la sua discendenza. Tuttavia, in virtù della divina Sapienza, l’uomo potrà riacquistare la sua santità originaria (Sp 2, 23; 6, 17-21). Paolo, intanto, ci avverte che Dio, divino ragioniere, compenserà ogni uomo secondo le opere da lui compiute (Rm 2, 6 seg.). Dio concederà la vita eterna ai giusti (ligi al Vangelo e alla dogmatica del “verbo” clericale), mentre ai non giusti, considerati malvagi, infliggerà opprimenti tribolazioni e angustie in eterno tra le fiamme dell’Inferno. Mah!

La nuova Alleanza (Testamento), sigillata nel Vangelo, non si manifesta, secondo Paolo, nella dimensione pubblica né si basa su segni esteriori, come quello della circoncisione. Essa appartiene al regno spirituale ed invisibile. Consiste, infatti, in una trasfigurazione interiore, mediante la predisposizione ad accogliere nel proprio animo lo Spirito di Dio (Rm 2, 25 seg.). Di fatto, la nuova Alleanza ha abrogato l’antica, che Dio volle perenne e marcata con un segno nella carne, sancendo per il trasgressore la pena della recisione dal suo popolo (Gn 17, 9-14). Questo era il patto che Abramo aveva stilato con Dio e che impose come norma per la sua discendenza. Abramo pendeva dalle labbra di Dio e operava (senza discutere) conformandosi alla sua volontà (Eb 11, 8. 17). Quando arrivò nel mondo Gesù, proclamato “Figlio di Dio”, predicò ai “figli” d’Abramo che le regole erano modificate; che il patto, che suo Padre aveva imposto a Mosè, non aveva funzionato e che perciò era necessaria una nuova e più perfetta legge. Gli si doveva credere sulla parola (sic et simpliciter). Chi gli prestava fede, avrebbe potuto conoscere la sua verità liberatoria, svincolandosi dall’osservanza delle prescrizioni della Legge (Gv 8, 31-59). In verità, alla schiavitù della Legge mosaica è subentrata quella della dottrina cristiana, conformata ai diktat del pontefice massimo, capo indiscusso della Chiesa gerarchizzata.  Non più la manna (che per merito di Mosè scese dal cielo per sfamare il popolo d’Israele), ma la parola annunciata da Cristo, (pretesa) verità assoluta, era il nuovo pane di vita disceso dal cielo, che si doveva ingurgitare per vivere in eterno (Gv 6, 26-59).

La fede è la forza che vincola i fedeli alla parola salvifica di Gesù. Gli si presta fede, e ci si lascia da lui persuadere, perché ritenuto degno di fede. E’ un rapporto reciproco di fedeltà quello che s’instaura tra il fedele, che giura fedeltà, e Gesù, essere divino, che promette fedeltà. E’ una fede nell’altrui fede. In verità, Gesù non professò mai apertamente d’essere la seconda ipostasi della Divina Trinità. Questo guazzabuglio teologico, come altre impareggiabili idiozie pretesche, disquisite in esagitati sinodi e consessi clericali, fu partorito durante dogliose e rissose dispute conciliari su questioni di lana caprina. La fede in una supposta divinità, dispensatrice di supreme verità salvifiche, può mascherare un inganno.

Paolo, nato ebreo, ancorché cittadino romano, non ha dubbi sulla grandezza e superiorità del popolo d’Israele, testimone e custode delle promesse di Dio (Rm 3, 1 seg.). L’attesa liberazione del popolo eletto per opera di un Redentore fa parte dell’eredità dei suoi compatrioti. La malvagità e l’infedeltà di alcuni non intaccano la benefica giustizia divina. Dio è sempre disponibile a perdonare il peccatore penitente. Paolo (2 Tm 2, 8-13), che non mentisce perché dice sempre il vero (in sua fede), testimonia che il Cristo Gesù è Dio, anche se, per quanto riguarda la sua natura umana, discende dalla stirpe di Davide (Rm 9, 1.5). Gesù rimane fedele, anche se l’uomo non lo è, perché non può rinnegare la sua essenza divina, la parola data, immutabile come l’amore che dona a chi è disposto a morire insieme con lui. Essere giudeo e seguire la fede d’Abramo, però, non è un vantaggio rispetto alle altre genti (Rm 3, 9 seg.). Tutti gli uomini, infatti, parola di Paolo, sono sotto il dominio del peccato. La Legge di Mosè, da una parte, e la coscienza degli uomini, dall’altra, non sono una garanzia per la salvezza. L’uomo è debole, ma può riscattarsi dal male, che alligna nella sua natura, mediante la fede in Cristo, l’unico vero Dio che può giustificarlo (santificarlo), consentendogli di operare il bene e vincere il male. La colpa originaria del primo uomo (da cui è scaturita la faida di Dio per tutte le successive generazioni) è stata riscattata con il sacrificio di Cristo (il sangue del quale ha placato l’offesa subita dal Padre). La redenzione dell’uomo per merito di Cristo ha consentito a Dio di scendere nuovamente a patti con la sua inaffidabile creatura. Per la nostra salvezza, non ci resta che abbracciare il “Figlio dell’uomo”, di stirpe giudaica, ipostasi di un trinitario dio, che ha accolto nel suo grembo anche i “gentili”, affinché risplenda in perpetuo un nuovo arcobaleno, simbolo di pace tra Dio e gli uomini d’ogni stirpe. A chi ha fede in lui, sottomettendosi incondizionatamente e operando in conformità del suo Vangelo, di cui è sommo interprete l’infallibile papa della Chiesa cattolica romana, egli elargisce il suo benevolo favore, il dono della giustificazione (l’intervento divino necessario a redimere l’uomo, condannato dalla propria natura al peccato). La fede, piuttosto che le opere prescritte dalla Legge, è ciò che conta per la salvezza dell’anima. Abramo stesso, ancorché incirconciso, ottenne la giustificazione in forza della fede, non della Legge mosaica (che non c’era ancora). Solo in seguito suggellò la giustificazione con il segno della circoncisione. Per essere giustificati, dunque, occorre la fede, incondizionata, non il segno della circoncisione (Rm 4, 1 seg.). In vero, il patto che Dio concesse ad Abramo, convalidandolo con la circoncisione, era eterno e inviolabile, pena la caduta nel peccato (Gn 17, 14). Lo stesso Abramo, del resto, non ebbe sempre una fiducia incondizionata verso Dio. Quando gli fu chiesto l’olocausto del figlio Isacco, egli ubbidì senza battere ciglio (Gn 22, 1 seg.); ma quando Dio gli promise il possesso della terra dal torrente d’Egitto al fiume Eufrate, pretese un segno per potergli credere (Gn 15, 7-8. 17).  Inoltre, quando superò il secolo di vita e Dio promise che sua moglie Sara, ormai novantenne, avrebbe partorito un figlio, Abramo, incredulo, sorrise (Gn 17, 17). Noi, invece, che non siamo padri eletti, che non abbiamo ricevuto il dono della fede, prima di batterci il petto e invocare nell’atto di contrizione il “miserere nostri, Domine!”, dovremmo perlomeno dubitare che l’Eccelso s’è fatto uomo, sacrificando se stesso nella persona del Figlio, per redimerci da un’atavica presunta offesa dei nostri avi. Noi, gente di poca fede, “figli” dell’incredulo apostolo Tommaso, senza uno straccio di prova incontrovertibile, dubitiamo. In assenza di un valido riscontro storico dell’emblematica figura del santone ebreo Gesù, verosimilmente divinizzato “post mortem” dai suoi fanatici epigoni, non possiamo ritenere come vero ciò che appare inverosimile, contraddittorio, assurdo, irrazionale, velato di mistero. La fede paradossale nell’inattendibile sacra storia cristiana rende l’uomo ingannevolmente pago, alienato da sé, sottomesso incondizionatamente all’altrui volontà.

Paolo contrappone Adamo a Gesù, l’uno in funzione inversa dell’altro (Rm 5, 12 seg.). Il primo, commettendo il peccato di disobbedienza, generò la morte fisica e spirituale del genere umano; il secondo, invece, donò la grazia con la quale poter riacquistare la vita eterna. Sulle orme di Paolo, i cristiani contrapposero Eva a Maria, la prima, generatrice di morte come Adamo, l’altra, liberatrice dalla morte per aver ubbidito alla volontà di Dio, offrendo il proprio ventre per generare il Figlio. Maria perciò, qualche tempo dopo la sua morte, fu santificata come donna sempre vergine (ante partum, in partu, post partum: mistero glorioso!), assunta direttamente in cielo (miracolo glorioso!) e venerata come immacolata Madre di Dio (il Cristo Gesù divinizzato). Le feste comandate in onore della Madonna, “turris eburnea”, e “refugium peccatorum”, dal cristiano vanno senza indugio onorate.

Per far parte della schiera di Cristo occorre sottomettersi al rito purificatorio del battesimo, per mezzo del quale si attua la palingenesi: l’uomo vecchio muore per rigenerare l’uomo spirituale. Rivestito dell’usbergo della grazia, il cristiano potrà liberarsi dal peccato (pia illusione). Divenuto servo di Cristo, potrà aspirare alla vita eterna (Rm 6, 1 seg.). La Legge mosaica, per quanto santa, ha suscitato nell’uomo la consapevolezza del peccato (Rm, 7, 1 seg.). Essa consiste in comandi e divieti che obbligano l’uomo a prendere una decisione: osservare o trasgredire i precetti. Se non vi fosse la Legge, non vi sarebbe nemmeno la consapevolezza del peccato. La Legge, inoltre, non dà né la forza necessaria per non trasgredire i suoi precetti, giacché questa forza proviene solamente da Dio, né la giustificazione, che si ottiene in virtù della fede. Per giunta, quelli che si basano sulle opere della Legge, quantunque santa, rischiano una maledizione, se non perseverano nell’adempimento delle varie prescrizioni (Dt 27, 26; Ga 3, 10-11).

Adamo ebbe coscienza del peccato? Dio gli donò la vita nel giardino dell’Eden, proibendogli di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, pena la sua morte. Ogni altro frutto, anche quello dell’albero della vita, poteva mangiarne. L’uomo, dunque, viveva in Eden senza la consapevolezza del male e senza conoscere la morte. Il divieto imposto da Dio ad Adamo era inefficace, non essendo sufficiente a impedire la sua caduta nel peccato. Adamo, infatti, non aveva la consapevolezza della colpa come conseguenza della trasgressione, essendo incapace d’intendere il bene e il male. Ne consegue che la punizione inflitta da Dio a lui e alla sua discendenza è stata ingiusta (Gn 2, 8 seg.; 3, 1 seg.). L’uomo, dopo aver mangiato il frutto dell’albero proibito, disubbidendo a Dio ma senza malizia (e quindi senza che gli si possa addebitare la colpa), scacciato dall’Eden, ha acquisito una coscienza, ancor prima di avere la Legge. L’acquisizione di una coscienza, però, non lo rende immune dal compiere azioni malvagie, essendo indotto a ciò dalla sua fragile natura, del condizionamento della quale è responsabile il Creatore. Non poteva Dio, uno o trino che sia, creare l’umanità senza prendersi, e farci prendere, tanti mal di pancia, evitando anche i mal di testa a tanti dotti teologi, che spremono le loro meningi nel vano tentativo di far quadrare il cerchio delle divine contraddizioni?


Lucio Apulo Daunio



POPOLI E CIVILTA' DELL'ITALIA PRE-ROMANA

 

La ricostruzione storica degli antichi popoli che abitarono l’Italia si desume da tradizioni leggendarie, da fonti scritte indirette (notizie tramandate da storici greci e latini: Erodoto, Tucidide, Diodoro Siculo, Dionigi di Alicarnasso, Polibio, ecc.) e dall’interpretazione di vestigia immobili e reperti mobili scoperti dagli archeologi.

L’Italia pre-romana era abitata da una moltitudine di popoli differenti per lingua e livelli socio-culturale. Di lingua non indoeuropea erano i Liguri, gli Etruschi, i Sicani (che occupavano il centro della Sicilia) e i Reti (stanziati nelle regioni del Trentino e dell’Alto Adige). Tra i popoli di lingua indoeuropea si distinguono quelli non italici: Celti (Insubri, Boi, Senoni) nella pianura padana, Elimi nella regione nord-occidentale della Sicilia, Iapigi in Puglia (distinti in Dauni tra il Gargano e il Tavoliere, Peucezi nella terra di Bari e Messapi nel Salento), da quelli italici: Veneti, Osco-Umbri, Latini, Siculi (stanziati nella Sicilia orientale).

Greci, Micenei e Fenici colonizzarono in più tempi l’Italia meridionale, fondando nuovi insediamenti, politicamente autonomi dalla madrepatria, cui rimasero legati dal sentimento religioso. Magna Grecia (Megàle Ellàs) è il nome dell’Italia meridionale colonizzata dai Greci, detti Italioti. Tra i Greci, intorno al secolo VIII ante era volgare, gli Euboici colonizzarono le coste e le isole della Campania (Cuma, Ischia, Neapolis) e quelle presso Reggio Calabria. Pithecusa sull’isola di Ischia si ritiene che sia il più antico insediamento dei coloni greci in Italia. Gli Achei si attestarono lungo la costa ionica, a Metaponto, Sibari, Crotone. Gli Spartani fondarono Taranto. I coloni Locresi fondarono Locri Epizefiri in Calabria. I Colofoni, in fuga dall’Asia Minore, si stanziarono sulle coste della Basilicata, dove fondarono Siris (in seguito rifondata col nome di Heraclea, attuale Policoro). Gli abitanti di Samo per sfuggire al tiranno emigrarono in Campania dove fondarono Dicearchia (ora Pozzuoli). I Focesi dell’Asia Minore fondarono Elea sulle coste campane, che i Romani denominarono Velia. A queste prime emigrazioni dalla Grecia e dalla Ionia, seguirono altre, indotte da motivi economici e commerciali, ma anche a causa di lotte politiche. Coloni greci approdarono anche in Sicilia. I rapporti con le popolazioni indigene dell’Italia si mantennero amichevoli, almeno fino al VI secolo. Le differenti stirpi dei coloni greci innescarono la rivalità tra le città della Magna Grecia con l’inevitabile conseguenza di guerre e distruzioni. L’intervento dei Romani a protezione di città alleate si concluse con l’egemonia della potenza romana sulle città della Magna Grecia.

I coloni greci fondarono le città in prossimità di corsi d’acqua, lungo le coste italiche, in modo da usufruire dei porti. Le città erano difese da una cinta di muri, oltre i quali si predisponevano le necropoli. Il terreno agricolo circostante era suddiviso tra i coloni. La compagine interna alla città era costituita in modo da distinguere lo spazio riservato alla vita pubblica e religiosa da quello abitativo. L’impianto urbano aveva una struttura a reticolo (secondo una disposizione funzionale, teorizzata da Ippodamo di Mileto): strade larghe con direzione est-ovest, tagliate perpendicolarmente da strade più strette con direzione nord-sud. Lungo i lati dei marciapiedi scorrevano le fogne e i canali per la raccolta delle acque piovane. Le attività artigianali pericolose erano collocate in spazi periferici. Punto focale della città era l’area sacra, dove erano edificati i templi alle divinità, all’esterno dei quali si ponevano le are per i sacrifici e le cerimonie religiose. Una linea di confine delimitava l’area sacra da quella profana. Gli edifici templari, arricchiti con fregi, erano di stile dorico o ionico. Lo spazio pubblico adibito alla politica e agli affari, l’agorà, era collocato in prossimità del santuario per essere sotto la protezione divina. Nell’agorà, libero da edifici, si trovavano particolari monumenti (in onore di divinità protettrici o di eroi fondatori) e l’erario. Il luogo predisposto ad accogliere l’assemblea dei cittadini consisteva in uno spazio centrale circondato da gradini (trasformato poi in teatro). La necropoli era sistemata su un terreno non produttivo. Le sepolture erano a inumazione o a incinerazione. Le ceneri, raccolte in un’urna, erano poste in una fossa con il resto del corredo del defunto. Più tardi compariranno tombe a struttura monumentale. Nelle aree artigianali si producevano manufatti di pregio (ceramiche, gioielli, statuine votive, ecc.).

Filosofi, matematici, poeti, musici e legislatori testimoniarono l’alto valore culturale raggiunto dalla Magna Grecia. A Locri Epizefiri operarono il filosofo Timeo, il poeta lirico Senocrito e le poetesse Teano e Nosside. Il poeta Stesicoro, l’Omero della lirica corale, e il giurista legislatore e storico Caronna, vissero a Catania. A Reggio di Calabria, Ibico, poeta di lirica corale, lo scultore Clearco e lo storico Ippi. A Crotone, il matematico e filosofo Pitagora e il medico e astronomo Alcmeone. I filosofi Senofane (di Colofone), Parmenide e Zenone furono i fondatori della scuola di Elea (la Velia dei Romani, presso Salerno), che diedero impulso al libero pensiero, critico nei confronti della mitologia omerica ed esiodea. Rintone di Siracusa, attivo a Taranto, fu l’inventore della farsa fliacica (commedia popolare improvvisata sulla base di un canovaccio). Di Taranto erano anche lo scienziato Archita, che suscitò ammirazione in tutto il mondo greco, il musicologo Aristosseno, il filosofo Liside e il poeta Leonida. In Sicilia, oltre al poeta siceliota Stesicoro, operarono anche i poeti corali: Pindaro, Simonide e Bacchilide. Il filosofo, poeta e commediografo Epicarmo e il tragediografo Eschilo operarono a Siracusa, città che diede i natali allo storico Antioco. Leontini diede i natali al sofista Gorgia, che visse in Sicilia fino a tarda età, prima di recarsi ad Atene.

Prima dell’arrivo dei coloni greci, l’Italia meridionale era occupata da popoli indigeni di diverse etnie, lingue, culture. Nelle zone interne della Campania erano stanziati gli Osci di ceppo sannitico, appartenenti al gruppo Osco-Umbro. Ausoni e Aurunci, in particolare, abitavano i territori dal basso Lazio fino allo stretto di Messina. In Puglia, erano stanziati gli Iapigi provenienti dall’Illiria. Questi, dopo essersi amalgamati con la popolazione indigena, furono distinti in Dauni (nel foggiano), Peucezi (nel barese), Messapi (nel Salento). I Romani chiamarono Apuli e Apulia rispettivamente popolazioni e territori abitati da Dauni e Peucezi; chiamarono invece Calabria il territorio abitato dai Salentini. Gli Iapigi erano consanguinei degli Enotri, popolazione illirica che viveva nella Basilicata e nella Calabria settentrionale, prima dell’arrivo dei Lucani, italici di lingua osca. I Brettii o Bruzi erano italici che abitavano luoghi fortificati della Calabria con la capitale a Cosenza.

Nella Sicilia orientale, prima che arrivassero i coloni dalla Grecia, abitavano i Siculi (provenienti dal Lazio). I Sicani (autoctoni) occupavano la regione centrale dell’isola. Gli Elmi (provenienti dall’Asia Minore) erano stanziati nella regione occidentale, dove Fenici e Cartaginesi (c.d. Popoli del Mare) avevano colonie a Mozia, Palermo e Solunto. I rapporti tra i coloni greci e le genti del luogo furono spesso conflittuali. I Calcidesi (provenienti dall’isola greca di Eubea) fondarono Zancle, Naxos, Catania, Messina, Reggio Calabria; i Corinzi, Siracusa; i Megaresi, Megara Hyblaea e Selinunte; i Rodiesi e i Cretesi, Gela e Agrigento.

Tra le prime manifestazioni culturali dei coloni greci in Sicilia, si evidenziano quelle inerenti alla costruzione di massicci templi dorici (stile severo), abbelliti con sculture figurative, circondati da colonne, a Siracusa, ad Agrigento, a Selinunte, a Segesta. Durante le ricorrenze festive si apprestavano per più giorni spettacoli nei teatri, edificati nei pressi dei santuari. La recita era eseguita da attori uomini, che sostenevano anche ruoli femminili, calzavano coturni, indossavano particolari maschere che amplificavano la voce, sostituendo alla mimica facciale la gestualità. Si utilizzavano anche appositi macchinari scenici.

Anche la Sardegna, dove era già fiorita la civiltà nuragica (caratterizzata dalla costruzione di monumenti megalitici della cui effettiva funzione si discute), fu colonizzata da Fenici, Cartaginesi e Greci in più tempi, che convissero con la popolazione autoctona sarda.

Sanniti, Latini, Umbri, Piceni, Sabini e altre etnie popolavano l’Italia centrale tra Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo prima della loro sottomissione al dominio romano. Sulla fascia costiera dell’Abruzzo erano dislocati: Petruzi, Vestini, Marrucini, Frentani. All’interno della regione abitavano: Peligni, Equi, Marsi, Sabini e altri. I Sabini, i più potenti, occupavano un territorio che dal centro della penisola si estendeva fino a Roma. I centri abitati da tutte queste popolazioni erano edificati sulle alture e cinte di fortificazioni. Le attività prevalenti erano la caccia, la pastorizia e l’artigianato. Lungo la costa e nelle vallate dei fiumi delle Marche erano dislocati i Piceni, attivi negli scambi commerciali per via mare con gli altri popoli dell’Adriatico. Tra le attività artistiche di questo popolo, particolare rilievo ha avuto la scultura (Guerriero di Capestrano). A Nord del territorio dei Piceni vivevano i Senoni, di stirpe celtica. La più antica popolazione italiana, gli Osco-Umbri, si estendeva in una vasta zona dell’Italia centrale, oltre l’attuale omonima regione, fino a toccare le coste adriatiche e tirreniche. Vivevano sulle alture, in villaggi fortificati, dediti alla pastorizia, all’agricoltura, all’estrazione e lavorazione dei metalli (nella zona di Terni). Punti di aggregazione per decisioni politiche e per celebrare ricorrenze festive erano i santuari. Importante reperto storico per la conoscenza di questo antico popolo sono le bronzee Tavole di Gubbio, scritte in lingua umbra e contenente prescrizioni rituali per il collegio sacerdotale. Il Lazio era abitato dai Latini, popolazione di pastori e agricoltori, federati in una lega sacra. Il più importante centro religioso dei Latini, dedicato a Giove Laziale, si trovava tra i Colli Albani. Secondo la leggenda, nel Lazio approdarono i profughi di Troia sotto la guida di Enea. Gli indomiti Sanniti, di lingua osco-umbra, imparentati con i Sabini, abitavano il territorio del Sannio, nella zona appeninica centro meridionale (Abbruzzo, Molise, Daunia). Erano distinti in Carricini, Pentri, Caudini e Irpini (gli ultimi due erano i più esposti agli influssi della Magna Grecia). I Frentani, che abitavano nella regione del Molise, si unirono ai Sanniti. Di religione e lingua osca erano i Marrucini, dislocati nella zona di Chieti, e i Lucani dislocati nella regione della Basilicata. Questi popoli erano molto fieri, combattivi e strenui difensori della loro libertà. Durante le feste religiose organizzavano giochi di combattimento (importati poi dai Romani nei giochi cruenti dei gladiatori). I centri abitati erano collegati tra loro dai tratturi: larghi percorsi naturali tracciati dal periodico spostamento degli animali in cerca di pascoli verso il Tavoliere (transumanza). Un importante percorso tratturale era quello che dalle zone interne dell’Abruzzo, attraverso il Molise, raggiungeva la Puglia (regione Daunia) nei pressi di Candela.

In Toscana, tra l’Arno e il Tevere, in una regione ricca di risorse naturali (minerarie, boschive, agricole, marittime), dominavano gli Etruschi: un popolo ricco e politicamente organizzato, che viveva in stabili centri urbani e con un valore culturale elevato di stile orientale. Ne sono testimonianza le vestigia delle principesche tombe etrusche e i pregiati manufatti della produzione artigianale. La loro influenza politica e commerciale arrivava a nord nella pianura padana e a sud si spingeva fino alla Campania. Dionisio di Alicarnasso (I sec. a.e.v.), sulla base delle fonti in suo possesso, sosteneva nelle “Antichità romane” che gli Etruschi erano un popolo originario della Toscana, anziché di provenienza orientale (tesi ancora predominante). Centri maggiori lungo la costa tirrenica erano: Populonia, Vetulonia, Vulci, Tarquinia, Cerveteri; nell’interno della regione: Volterra, Arezzo, Cortona, Perugia, Chiusi, Volsinii, Veio, Orvieto.

L’Italia settentrionale era abitata ad ovest dai Liguri e dai Taurini (in Piemonte). Nella pianura padana vivevano popoli Celtici: gli Insubri (in Lombardia), i Boi (in Emilia), i Senoni (in Romagna e nelle Marche). I Camuni, i Veneti e i Carni vivevano tra il Veneto e il Friuli. Lungo l’arco alpino si trovavano gli Alpini, i Salassi, i Leponzi, i Reti. Importanti città celtiche erano Milano (Mediolanum) e Senigallia (Sena Gallica).

Lucio Apulo Daunio