sabato 12 novembre 2011



PAOLO
APOSTOLO CRISTOPATICO



Paolo, il tredicesimo apostolo cristo-patico, inventore del cristianesimo, iniziatore del lungo processo di riforma e distacco della nuova fede dall’ebraismo, nella sua esaltazione cristologica, si onora d’essere il servo (schiavo) di Cristo (Kyrios), Messia d’Israele, Figlio dell’uomo, Signore onnipotente, immagine vivente dell’Altissimo. Paolo, vaso d’elezione, tramortito lungo la via per Damasco da convulsioni allucinatorie (At 9,1 seg. e 22,6 seg.), fu gratificato dalla Grazia del Cristo risorto (non del Cristo storico). In verità, i compagni di viaggio udirono il suono di una voce, ma non videro nessuno (cfr. At 9, 7); o videro una luce, ma non udirono voci (cfr. At 22, 9): dunque, nell’uno o nell’altro caso, non compresero il fenomeno occorso al loro compagno Paolo. Questi, verosimilmente, essendo sofferente di epilessia, ebbe una crisi commista a una visione mistica durante un viaggio. Può anche darsi, invece, che un’umana passione a noi ignota gli abbia reso invisa la fede dei suoi padri, inducendolo ad abbracciare quella dei nazareni, seguaci di Gesù. Ad ogni modo, in seguito alla conversione, si sentì deputato a compiere la missione di apostolo delle genti non ebraiche: i gentili, pagani, stigmatizzati dalle Scritture come impuri cani infedeli (cfr. Salmi 22, 16; Mt 15, 21-28). L’autorità, in fede sua, non gli deriva da uno dei dodici apostoli o da qualche comunità cristiana, ma dal Cristo stesso, dal quale, durante la visione, apprese direttamente la “buona novella” (Ga 1, 1-20). Anche Maometto rivendica di aver ricevuto, attraverso la voce dell’arcangelo Gabriele, il verbo di Dio, che i suoi seguaci hanno poi incartato nel Corano. Diffusa era in molte antiche civiltà la convinzione che la volontà degli dei potesse essere interpretata da taluni sedicenti messaggeri, anche mediante l'osservazione di segni specifici, da cui trarre auspici. Paolo non dubita che il Vangelo che lui predica sia stato annunciato, prima della venuta del Messia, tramite gli oracoli dei profeti (Rm 1, 1-7). Ancor meno dubbi ha riguardo al Cristo, che crede essere venuto ad esistenza con umana natura dalla stirpe di Davide e poi costituito Figlio di Dio con natura divina in base alla risurrezione dai morti. Sembra, dunque, che, durante la sua umana esistenza, il Cristo abbia temporaneamente rinunciato alla natura divina, per riacquistarla soltanto temporaneamente con l’episodio della trasfigurazione (Mc 9, 1-7) e definitivamente con la resurrezione. Paolo, quindi, sembra che distingua in Gesù due stadi: quello dell’uomo privo d’attributi divini e quello posteriore alla resurrezione, quando l’uomo Gesù recupera la pienezza della sua divinità. Crediamo, invece, che le cose stiano diversamente, e cioè che un uomo di nome Gesù, stimato come un profeta, sia stato divinizzato dai suoi seguaci dopo la sua morte e insignito dell’altisonante titolo "Figlio di Dio" (non nel senso di filiazione fisica, ma come titolo prestigioso, essendogli stata conferita una importante missione da Dio). Per l’autore del Vangelo secondo Giovanni, invece, Gesù è il Verbo (il Logos divino), che si è fatto carne (vale a dire uomo, senza rinunciare ai suoi attributi divini) e ha preso dimora in mezzo agli uomini (Gv 1, 14). In altri termini, Dio Padre concepisce un “alter ego”, il Figlio, che si manifesta nel mondo come Dio, nonostante nasca come uomo (il mito di Zeus, come padre di figli divini, si ripete). Se paolo distingue le due nature attribuite al Cristo Gesù, Giovanni è categorico riguardo alla pienezza della natura divina dell’uomo Gesù. Nella Lettera ai Filippesi (Fl 2, 5-11), Paolo, il teologo della croce, afferma che Gesù, nascendo simile agli uomini, annientò la sua essenza divina, facendosi servo di Dio e a lui obbedendo in tutta umiltà fino a morire per gli altri (una virtù stoica, prima che cristiana) nell’ignominia della crocifissione (che, umanamente, mal sopportò). Per questo il Padre lo ha esaltato ed insignito della dignità del titolo di “Signore”, superiore ad ogni altro. Gesù, quindi, in quanto uomo, pare che abbia bisogno, come i re della terra, di segni distintivi e titoli onorifici per la sua gloria. Che Gesù sia persona divina e che in sé racchiuda tutti i tesori della sapienza e della conoscenza (Col 2, 3), non pare punto vero, giacché dichiara espressamente di non conoscere né il giorno né l’ora degli eventi escatologici e della sua parusia (Mt 24, 34-37; Mc 13, 32). Se neppure gli angeli del cielo ne sono a conoscenza, dato che l’onniscienza è un requisito che possiede esclusivamente il Padre, l’ignoranza di Gesù è quindi da attribuire alla mancanza della sua natura divina. Dunque, viene anche meno la presunta consustanzialità del Figlio con il Padre. Fatto sta che sulla misteriosofia cristiana è preferibile lasciare la parola (senza prestarvi cieca fede) alla speculazione dei teologi, ingegnosi costruttori di laboriose costruzioni mentali di genere fantastico. Certo è che Gesù non è onnipotente come il Padre, non potendo superare i limiti che gli sono stati assegnati nel suo essere nel mondo. Egli può modificare la parte assegnata a ciascuna vita umana solo con l’autorizzazione del Padre. Da questo punto di vista sembra che abbia un potere maggiore di quello attribuito a Zeus, sopra il quale imperava Moira, la dea filatrice degli umani ineludibili destini.

La notizia che Paolo fosse un persecutore dei cristiani prima della conversione e che fosse stato inviato in missione a Damasco, capitale della Siria, per arrestare i cristiani e tradurli a Gerusalemme, appare priva di fondamento, non avendo il Sinedrio effettivo potere di coercizione nell’ambito di una diversa amministrazione. C’è chi congettura che “Damasco” indicherebbe il nome del luogo in cui gli asceti Esseni di Qumran si erano esiliati. Sia questi sia i cristiani, fatte le debite differenze, avevano in comune l’atteggiamento di dissenso religioso-messianico nei confronti della corrotta classe sacerdotale e politica d’Israele (gli Erodiani), volta a salvaguardare i propri interessi in combutta con le autorità romane. Gli Esseni si caratterizzavano per il loro rigorismo cultuale, il celibato, la comunione dei beni, l’organizzazione gerarchica, il nazionalismo, l’attesa escatologica e l’opposizione alla classe sacerdotale dominante. I proto-cristiani, ebrei messianici, che credevano nell’imminente arrivo di un re proveniente dalla stirpe davidica per riscattare Israele dalla dominazione straniera, avevano delle affinità con gli Esseni.

Paolo crede d’essere strumento di Gesù, da lui arruolato sulla strada verso Damasco per portare il “verbo” divino ai gentili (i pagani), ai re della terra e ai figli d’Israele (At 9, 3-6. 15). Il dio paolino non ha più confini: è ecumenico, spoliticizzato. Nel discorso che fa in sua difesa di fronte al re Agrippa ed al governatore Festo, Paolo dichiara che Gesù (di cui nega la morte, cfr. At 25, 19) lo ha consacrato apostolo, incaricandolo di annunciare il Vangelo ai gentili per condurli all’obbedienza della fede in Cristo (At 26, 12-18). Veramente Gesù l’aveva incaricato di convertire anche i figli d’Israele, ma i notabili della Chiesa di Gerusalemme, Giacomo, Pietro e Giovanni, erano di diverso avviso. Si riservarono per loro il compito di evangelizzare i Giudei e assegnarono Paolo e Barnaba al servizio missionario presso i popoli non circoncisi (Ga 2, 7-9). Forse in considerazione del fatto che Paolo, commerciante di stoffe, era più avvezzo a trattare con i “gentili”. Gesù, sicuramente, non si adombrò. Ciò che importava era arruolare reclute da inquadrare nella sua milizia. Paolo diventava così l’antesignano di una nuova fede, il cristianesimo, da lui plasmato ammorbidendo il rigido formalismo giudaico. La nuova religione sarà consolidata e riadattata ai vari contesti culturali dall’opera assidua dei padri apostolici, dei dottori della chiesa, degli apologeti e degli intellettuali organici dediti al servizio della fiorente istituzione cristiana, tesa alla conquista (conversione) dei ceti pagani, oltre che giudaici. Il cristianesimo storico, nonostante la pretesa di fondarsi sulla divina rivelazione, è in realtà un prodotto culturale dell’uomo, come ogni altra religione. Fondamentalmente intollerante è il cristianesimo religioso, giacché fondato sul mono-triteismo giudaico-cristiano, che esclude l’esistenza di altre divinità e, quindi, di altre religioni. Se unico è il vero Dio, unica è anche la vera fede; ne consegue che se non possono esistere altre divinità, neanche possono essere veritiere altre fedi. Se le altre fedi possono essere benevolmente accreditate, in quanto possibile strumento per conoscere l’Altissimo, il Vangelo, invece, è dogmaticamente creduto vera rivelazione di Dio annunciata agli uomini dal figlio Gesù. In realtà, ciò che le Sacre Scritture rivelano sono soltanto testimonianze prefabbricate da manipolatori ideologici e fondate su astratti concetti teistici, che la dogmatica ecclesiale garantisce come verità annunciate da Dio. In verità, mancano le prove incontrovertibili atte a testimoniare l’eccezionale storica teofania di Dio, che invece di mostrarsi direttamente al mondo e contemporaneamente a tutti gli esseri umani, si racconta che sarebbe apparso sotto le spoglie di un santone ebreo di nome Gesù, trasformato dai suoi fedeli in Figlio di Dio. Le bibliche scritture, in sostanza, intendono avvalorare una “veritas” fondata sulla divina “illuminatio”, cioè sulla testimonianza d’uomini che si accreditano come illuminati dalla divina sapienza, ma che, di fatto, attestano una loro convinzione in una fede irrazionale e contraddittoria, accidentalmente determinatasi nel corso della storia. Il cristianesimo, come tutte le fedi religiose, è una superstizione, e per giunta goffa e truculenta, simboleggiata dal sacrificio della sofferenza sulla croce di un uomo, abbandonato da Dio e dai suoi discepoli. Si fonda sull’innaturale risuscitazione di un cadavere e sull’apoteosi di un uomo redivivo, la cui immagine, adorata in chiese-museo, rappresenta una lugubre testimonianza di una deprivazione culturale, offensiva della dignità umana. Sulla mistificata divinazione di un uomo, su una credenza non storicamente accertabile, si fonda il potere sovrano, ecumenico, millantato dalla Chiesa cattolica come voluto dal Cristo-Dio. Un potere concreto, supportato da un apparato economico-politico, da tecnologie massmediatiche e da scenografiche rappresentazioni rituali, pregne di simboli, di addobbi sontuosi e grotteschi, di vocalità noiose, di nenie tediose. Il tutto diretto da un cadaverico regista, assiso sul trono regale di un monumentale e sfarzoso edificio rinascimentale, dove pontifica al mondo intero, propagando “urbi et orbi” la spettacolare mercanzia della mondana Chiesa cattolica a esclusivo profitto degli addetti, ipocritamente celato sotto le mentite spoglie della sete millenaria di giustizia, che sarà attuata nella notte dei tempi ultimi mediante l’intervento nella scena del mondo del “deus ex machina”, il Cristo redentore, inflessibile giustiziere.

Paolo non si vergogna di annunciare il Vangelo (Rm 1, 16 seg.), ossia la fede in un uomo messaggero di Dio, trasformato poi in suo “alter ego”. Egli crede che Gesù sia venuto tra gli uomini ad annunciare la divina parola e a indicare la strada da seguire per garantirsi l’eterna salvezza, dopo la morte, nel paradisiaco regno dei cieli. Egli ha apportato la salvezza non solo per gli ebrei (i soliti raccomandati), ma anche per i greci (ai quali saranno assimilati i romani e gli altri popoli della terra). Gli ebrei, invece, non hanno voluto riconoscere Gesù (i soliti ingrati) né come l’atteso Messia né tantomeno come essere divino. Anzi, stracciatesi le vesti, lo accusarono d’essere un sobillatore, un malfattore, un bestemmiatore, un sacrilego, che si spacciava non solo per “Re dei Giudei”, ma addirittura per “Figlio di Dio”. Gesù non si difese dalle accuse né s’avvalse della retorica dello Spirito Santo. Fu condannato alla pena di morte per crocifissione, come un infame. Questo era il destino che il Padre gli aveva riservato, il prezzo da pagare per riscattare i peccati dell’umanità. Nel Regno di Dio vigono leggi deterministiche. Le colpe degli uomini dovevano essere espiate con il sacrificio del Figlio Redentore. Dio non ha rinunciato alla nèmesi (vendetta) per ripristinare l’ordine distrutto dalla “hybris” (tracotanza) dell’uomo. Perciò s’è macchiato di un grave delitto contro se stesso, essendo colpevole dello spargimento del sangue del Figlio. Il sacro rito della messa, officiato dai sacerdoti, commemora l’espiazione di Gesù (“homo sacer”), simbolicamente offerto al Padre come vittima (“hostia”) sacrificale (“sacrificium”). Quale novello Dioniso, Gesù diventa salvatore e dispensatore di libertà, potendo sciogliere ogni legame. L’umanità - a giudizio di Paolo - s’è mostrata poco riconoscente del sacrificio di Cristo, del sangue da lui versato per la liberazione dell’uomo dal male e dalla prigionia del peccato. Essa non ha voluto riconoscere Dio, che pure s’è manifestato con le opere del creato e non solo (in modo più diretto) nella storia d’Israele (dove, in verità, s’è connotato quale imperioso Dio degli eserciti, regnante e legiferante). Seguendo la loro sciocca sapienza, anziché la coscienza, gli uomini lo hanno mortificato, preferendo glorificare degli idoli, piuttosto chi parlava ai loro cuori. Adombrati dalla malvagità e con la coscienza ottenebrata, gli uomini hanno proseguito a vivere nell’immoralità (come la concupiscenza dell’omosessualità femminile e maschile) e nell’idolatria, scatenando nuovamente l’ira divina e la conseguente condanna all’eterna morte. A questa punizione non sfuggiranno, nel giorno del giudizio universale, neanche quei giudei che avranno compiuto identiche azioni malvagie (Rm 3, 1 seg.). Questa è la morale della favola cristiana, secondo l’apostolo Paolo, servo (schiavo) di Cristo.


Lucio Apulo Daunio



venerdì 11 novembre 2011


LETTERE CATTOLICHE



Le Lettere Cattoliche, dette anche apostoliche, perché (impropriamente) attribuite dalla tradizione agli apostoli: Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda (colonne della chiesa di Gerusalemme; cfr. Ga 2, 9), completano il canone delle epistole del Nuovo Testamento. Sono dette cattoliche (cioè universali), perché (ad eccezione di 2 e 3 Gv) non sono destinate a comunità particolari, come le lettere paoline, ma alle “chiese” disseminate nel mondo. Redatte verso la fine del primo secolo, sono da considerare scritture pseudo-epigrafe.




LETTERA DI GIACOMO



La lettera c.d. di Giacomo (databile nell’ultimo quarto del primo secolo) si presenta come un’omelia rivolta alle (mitiche) dodici tribù d’Israele (cioè le comunità giudaico-cristiane) sparse nel mondo (diaspora). Si propende a considerarla un compendio da precedenti fonti. Si ritiene d’incerta attribuzione, essendo l’autore non ben identificato, ancorché la tradizione l’abbia voluta attribuire a Giacomo il Giusto, uno dei quattro fratelli carnali di Gesù, responsabile e guida suprema della chiesa di Gerusalemme (At 12, 17) fino all’anno 62 del suo martirio (fu lapidato) per mano dei Giudei. Si crede che si sia convertito alla fede di Gesù dopo la sua risurrezione e apparizione ai discepoli (cfr. 1 Co 15, 7). Nelle “Recognitiones”, uno degli scritti apocrifi della letteratura pseudo-clementina, Giacomo è designato vescovo dei vescovi, successore della cattedra di Cristo a Gerusalemme (cfr. l’apocrifo “Vangelo di Tommaso”) e da lui deputato a governare tutte le comunità cristiane sparse nel mondo (cfr. Lettere di Clemente a Giacomo). Altri studiosi propendono per Giacomo il Minore, figlio d’Alfeo e fratello di Giuda Taddeo, o per l’atro Giacomo, il Maggiore, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, giustiziato (fu decapitato) verso l’anno 43 da Erode Agrippa, oppure per un omonimo autore giudeo-cristiano (forse un asceta esseno). Dall’esame dei manoscritti scoperti nella località di Qumran, presso il Mar Morto, dove viveva una comunità di esseni (fino al 70 e.v.), alcuni studiosi hanno ipotizzato che Giacomo, fratello di Gesù, fosse il loro Maestro di Giustizia e che Gesù fosse il Messia di Aronne atteso dagli esseni (cfr. “Regola della Comunità”, rotolo 1QS), ossia un profeta predicatore destinato a soffrire e ad essere ingiustamente accusato, distinto dal Messia davidico, figura prettamente politica. Nel Vangelo secondo Matteo (11, 14), invece, si attesta che Elia è il profeta atteso dal popolo ebraico, venuto nella persona di Giovanni Battista. Nel Vangelo secondo Giovanni (1, 19 seg.), al contrario, si attesta che il Battista non è Elia, né il profeta (atteso dalla comunità essena di Qumran), né il Messia salvatore escatologico, ma solo un precursore del Cristo Gesù.

L’autore della lettera, che si qualifica servo di Dio e del Signore, il Cristo Gesù, espone i principi morali che devono guidare la vita dei giudeo-cristiani. Esorta a non avere riguardo di persona durante le assemblee liturgiche. Polemizza contro i favoritismi nelle comunità cristiane verso i membri ricchi, rammentando che il Vangelo è stato annunciato soprattutto per i poveri. Denuncia sia l’immoralità dell’ingiusto arricchimento, che lede i diritti dei lavoratori, sia le ingiustizie che opprimono i miseri. Inveisce, inoltre, contro i ricchi padroni, che sfruttano i loro schiavi e umiliano i poveri, preconizzando la vendetta del Signore, il cui glorioso ritorno si avvicina continuamente (vana speranza). Biasima l’uso della parola volta a denigrare il prossimo. Invita a sopportare la sofferenza, cercando conforto nella preghiera, affinché i lumi della Sapienza facciano comprendere i misteri divini. Infonde speranza di guarigione ai malati, esortandoli a farsi somministrare dai presbiteri il sacramento terapeutico dell’unzione con olio benedetto.

Nell’ebraismo la fede non basta per essere giustificati davanti a Jahvè; occorrono anche la pratica delle numerose opere prescritte nella Bibbia. Anche Giacomo, fratello di Gesù, responsabile della Chiesa di Gerusalemme, nell'omonima lettera insiste sull’adempimento delle opere, senza le quali la sola fede non giova, opponendosi a Paolo di Tarso, che riteneva sufficiente per la salvezza la sola fede. Giacomo, invece, ritiene inseparabili l’una dalle altre. Infatti, anche ammettendo che la giustificazione si abbia in base alla fede e non alle opere, egli considera imperfetta la fede che non sia accompagnata dalle opere, essendo queste espressione della fede (in verità, le buone opere compiute per amore del prossimo e non in forza della fede in divinità trascendenti, sono senz’altro più meritorie, in quanto giustificano l’uomo non davanti al Nulla deificato, bensì davanti alla sua umanità). La fede in Dio, sottolinea l’autore della lettera, che sembra voler polemizzare con la dottrina paolina della giustificazione, è fede operante, in quanto l’una (la fede) implica l’altra (l’opera) e viceversa. Secondo Paolo, invece, la giustificazione del peccatore è azione congiunta della fede nel Vangelo e della grazia di Dio, piuttosto che delle opere. Già al tempo di Paolo, infatti, si era verificata una prima spaccatura tra giudei cristiani, seguaci di Pietro, di Giacomo e di altri notabili di Gerusalemme, osservanti della legge rituale mosaica, e cristiani ellenistici, prevalentemente di provenienza pagana (i “gentili”), seguaci di Paolo (At 11; 15; Ga 2, 11-21; 3, 10-14; 3, 21-28; 5, 1-6). Con la distruzione di Gerusalemme nell’anno 70, cessò di esistere la primitiva comunità dei giudeo-cristiani. La lettera termina bruscamente, senza i convenevoli della chiusura finale.




LETTERE DI PIETRO



L’analfabeta Pietro (pastor ovium), l’apostolo “primus inter pares” (primo tra uguali), è considerato dalla Chiesa la roccia su cui Gesù ha voluto costruire la sua comunità (cfr. Mt 16, 17-19: questa pericope, che si ritiene aggiunta successivamente all’originaria scrittura, non è riscontrabile nei testi degli altri evangelisti). A Pietro, iniziatore (ma non vi sono testimonianze certe) della successione episcopale della cattedra romana, sono state attribuite due lettere (databili tra gli anni 70 e 100). La prima è uno scritto pseudonimo, redatto da un discepolo di Pietro (o da un maestro di scuola paolina), appartenente alla comunità di Babilonia (che s’interpreta come probabile nome metaforico di Roma); l’altra è uno scritto pseudoepigrafo (cioè un falso storico). I destinatari sono gli Israeliti residenti nelle provincie dell’Asia Minore, convertiti al cristianesimo, eletti pellegrini della dispersione, ma anche credenti provenienti dal paganesimo, riscattati da una vita insulsa. I cristiani sono il nuovo popolo eletto scelto da Dio. Si espongono gli aspetti pratici della vita cristiana e le difficoltà cui è sottoposta la comunità, vivendo in un ambiente pagano, caratterizzato da un clima di ostilità e dalla minaccia di un’incombente persecuzione, poiché erano odiati a causa dei loro presunti delitti (per flagitia invisos).

Secondo una tradizione, la prima lettera, scritta verosimilmente da un segretario dell’apostolo, fu spedita da “Babilonia” ai cristiani dell’Asia per avvertirli dei pericoli di una persecuzione incombente anche nelle lontane provincie romane (forse in conseguenza dell’accusa di Nerone ai cristiani, responsabili dell’incendio di Roma del 64, che distrusse per nove giorni il settanta per cento delle 14 regioni della capitale, com’erano state distinte da Augusto). In relazione a questa tradizione, si ritiene che l’epistola sia stata scritta durante il periodo di persecuzione neroniana (non oltre il 68, anno della morte di Nerone). S’ipotizza che la persecuzione neroniana possa essere stata estesa in tutto l’impero tramite un editto pubblico (non menzionato dagli storici pagani, ma soltanto da quelli cristiani; cfr. Orosio, Adv. pag. hist. VII, 5; Sulpicio Severo, Chron.II,41). Secondo una tradizione, l’apostolo Pietro venne (o ritornò) a Roma durante il regno di Nerone (tra il 54 e il 68). Sopravvissuto alla persecuzione (in base all’ipotesi che fu lui a scrivere l’omonima prima lettera per incoraggiare i fedeli dell’Asia ad affrontare con coraggio la persecuzione del 64), subì il martirio mediante crocifissione qualche anno prima del suicidio di Nerone. Vari sono i racconti leggendari sul martirio di Pietro (come la Passio Petri dello pseudo-Lino). Clemente romano, papa dall’88 al 97, non indica il modo in cui avvenne il martirio. Nel Vangelo secondo Giovanni, databile tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo, si allude alla morte per crocifissione (Gv 21, 18-19). Origene (185-254) afferma che l’apostolo chiese di essere crocifisso con la testa all’ingiù. Secondo la tradizione, i resti dell’apostolo furono deposti ai piedi del colle Vaticano, dove Costantino fece edificare la prima basilica.

I cristiani dell’Asia soffrono perché sono considerati dalla pubblica opinione al pari dei malfattori: asociali, omicidi, ladri, spioni. L’autore della lettera si prodiga in consigli e raccomandazioni. Le tribolazioni che stanno subendo a causa delle dicerie (rumores) sul loro modo di vivere, vanno considerate come titolo di gioia e rimedio contro il peccato, perché esse sono una partecipazione alla sofferenza di Cristo, patita ingiustamente sulla croce. L’autore esorta i fedeli al lealismo politico (in conformità all’orientamento paolino - cfr. Rm 13, 1-7, ma in contrasto con la requisitoria antiromana dell’Apocalisse giovannea). Consiglia di sottomettersi alle istituzioni politiche e civili, non solo per evitare le punizioni, ma perché questo è ciò che Dio vuole (e la propaganda religiosa pure, giacché mirata a persuadere i pagani per indurli alla conversione). Ne consegue che l’obbedienza all’autorità politica diventa dovere imposto da Dio. Se per la filosofia stoica, norma universale era la legge di natura, cioè la giusta ragione, che insegna agli uomini cosa fare e cosa evitare, per il cristianesimo legge di natura è la legge divina, data da Dio agli uomini e contenuta nelle Sacre Scritture. L’autore paragona il diavolo ad un leone ruggente che vagola in cerca di cristiani da divorare, sui quali, però, veglia Cristo, pastore supremo del gregge a lui fedele. Gesù, riferisce l’autore, scese nel regno dei morti (come novello Ercole) per portare l’annuncio della salvezza anche ai defunti dei tempi remoti. Risorto dalla morte, ascese verso il regno del Padre, dove ottenne la sovranità sulle potenze celesti (sembra che prima non l’avesse). La sofferenza di Cristo deve essere presa a modello dagli schiavi nei rapporti con i loro padroni (la ribellione di Spartaco, morto nel 71, non sarebbe un esempio da imitare), perché è titolo di benevolenza divina soffrire ingiustamente servendo perfidi padroni. La schiavitù è stata giustificata dai tre monoteismi quasi fino ai nostri tempi. Pio IX e il Santo Uffizio, nel 1866, la consideravano conforme alla legge naturale e divina. Quanto alle donne, queste (e gli uomini no?) devono ispirare la loro condotta al timore di Dio ed essere sottomesse ciascuna al suo marito, obbedendogli e chiamandolo signore (non era quello il tempo per sommovimenti femministi).

Le due lettere attribuite a Pietro pongono in rilievo il tema dell’escatologia, cioè del tempo ultimo in cui avverrà la distruzione del mondo con il fuoco, e quello della successiva palingenesi del cosmo. L’autore della prima epistola ritiene imminente la fine di tutto, mentre l’autore della seconda cerca di spiegare, contro le false dottrine degli eretici, il ritardo della parusia, cioè l’attesa della ricomparsa di Cristo nel mondo (che si sarebbe dovuta avverare durante quella generazione), giustificandolo come una prova di fede, che tutti i cristiani devono testimoniare per un periodo indeterminato. La parusia, pur essendo stata rinviata “sine die”, può essere affrettata mediante una condotta di santità e di pietà. La fede nel ritorno glorioso di Cristo alla fine dei tempi, secondo l’autore della lettera, non è una favola, né un artefatto mito pagano (come le mitiche storie di esseri divini, uccisi e poi risorti). L’autore della seconda lettera espone il testamento di Pietro, al quale Gesù ha rivelato l’ora della morte. Egli è stato (sul monte della Trasfigurazione) testimone oculare della divina maestà di Cristo e ha udito la voce di Dio che proclamava Gesù suo diletto Figlio. Polemizza contro la fraudolenta gnosi, predicata dai falsi profeti e dai falsi maestri, fomentatori di discordie, propagatori d’eresie, schernitori sarcastici della credenza nel ritorno glorioso di Cristo. La testimonianza sul Cristo Gesù, attestata dagli apostoli, ha reso più salda la parola dei profeti, che proviene da Dio. La Sacra Scrittura, per quanto genuina, giacché fondata su ispirazione divina, non è tuttavia d’immediata comprensione. Essa, avendo un significato esoterico, non è suscettibile d’interpretazione soggettiva né di arbitraria spiegazione (2 Pt 1, 20-21). Curiosamente, nella chiesa di Notre-Dame di Parigi, la Vergine seduta in trono è raffigurata con uno scettro nella mano sinistra e con due libri nella mano destra, uno dei quali chiuso (simbolo di conoscenza esoterica), l’atro aperto (simbolo di conoscenza essoterica, da tutti comprensibile). Persino le lettere scritte da Paolo, in cui parla della parusia, sono di difficile comprensione senza un’adeguata iniziazione al mistero di Cristo (2 Pt 3, 15-16). Del resto, lo stesso Gesù dei Vangeli (Lc 24, 25-27; 44-45) dovette aiutare i suoi discepoli a comprendere i profondi misteri della “buona novella”. La conoscenza che dio dona ai suoi eletti, poiché sorpassa i limiti dell’umana ragione, può essere compresa, mediante i lumi dello Spirito Santo, solamente dagli iniziati ai misteri divini. Questi sono i santi a cui è stato svelato il mistero di Dio, celato alle generazioni passate (Col 1, 26). L’autore dell’apocrifo gnostico “Apocalisse di Pietro” stigmatizza Paolo come “uomo della falsità” ed apostata della Legge. In verità, tra il primo degli apostoli e il tredicesimo apostolo non correva buon sangue. Gli Ebioniti, una setta di cristiani giudaizzanti, che seguivano il solo vangelo matteano, rifiutavano quello predicato da Paolo, che consideravano un apostata (cfr. Ireneo, “Contro gli eretici” 1, 26). Secondo Eusebio di Cesarea (Storia Eccl. III 27), le sette giudaico-cristiane, che seguivano il “Vangelo secondo gli Ebrei” (forse si tratta dell’originale Vangelo di Matteo scritto in aramaico), rifiutavano tutte le lettere dell’apostata Paolo.




LETTERE DI GIOVANNI



Delle tre lettere attribuite dalla tradizione all’apostolo Giovanni (databili tra gli anni 90-100), la prima (che esprime il pensiero d’alcuni discepoli di scuola giovannea, giacché l’autore s’identifica con un “noi”, un plurale che vuole presumere l’appartenenza a un’autorevole tradizione), destinata a una comunità pagana dell’Asia Minore, convertita al cristianesimo, espone un discorso teologico in cui si dibattono alcuni temi riguardanti la fede. Essa ha lo scopo d’istruire la comunità sulla conoscenza del mistero divino, mettendola in guardia dall’erronea cristologia di pseudo-profeti, avanguardia degli anticristi. Questo è il segno, secondo l’autore, che l’ultima ora è già venuta. Egli testimonia la voce udita da alcuni apostoli sul monte della trasfigurazione, dove Dio Padre proclama la divinità del Cristo Gesù. L’autore ammonisce a non affezionarsi alle cose terrene, perché chi ama queste, non ama Dio, l’amore del quale è eterno e non transeunte come quello del mondo (Dio, dunque, non gradisce che si ami il mondo e le cose del mondo). Il sacrificio di Cristo è servito (quindi, è stato necessario) per espiare i peccati di tutti gli uomini (ma solo di coloro che accettano di uscire dalle tenebre del mondo, secondo il Vangelo giovanneo; cfr. Gv 17, 9). Solo chi ha fede e crede in Gesù, Figlio di un Dio che nessuno ha mai visto, vince il mondo governato dal maligno. Di Gesù hanno dato testimonianza lo spirito del Padre, il sangue versato dal Figlio, la grazia profusa dallo Spirito Santo con l’acqua battesimale (che non è ancora la dottrina della Trinità, cioè dei tre modi di essere dell’unico Dio). Chi nega il Padre e il Figlio è l’anticristo (1 Gv 2, 22), il menzognero calunniatore (Ap 12, 10), che non crede alla verità, bensì all’iniquità (2 Ts 2, 3-12).

La seconda e la terza lettera giovannea sono scritti anonimi, in quanto l’autore si definisce solamente come presbitero. La seconda è destinata ad una comunità di fedeli (non specificata), che è messa in guardia dai seduttori gnostici, maestri d’errori e strumenti di Satana. Questi anticristi non ammettono l’incarnazione di Cristo, perciò non vanno ascoltati. La terza lettera ha come ricevente un certo Gaio, elogiato per la generosità con cui accoglie i missionari itineranti. Parole di rimprovero, invece, sono rivolte all’episcopo (vescovo) della comunità di cui fa parte Gaio, perché, oltre a non accogliere i suddetti missionari, ha espulso dalla comunità coloro che li accoglievano e li ospitavano.




LETTERA DI GIUDA


La lettera attribuita a Giuda, servo di Cristo Gesù e fratello di Giacomo, è d’incerta identificazione (forse fu redatta da un maestro giudeo-cristiano, discepolo dell’apostolo Giuda, tra gli anni 70-100). Essa è destinata a una comunità anonima allo scopo di difenderla dalla minaccia di falsi maestri: eretici che si sono infiltrati nella comunità, partecipando ai banchetti liturgici (agape). Costoro sono accusati d’empietà e d’immoralità, in quanto vivono nella dissolutezza, in preda al delirio di una dottrina che rinnega Cristo e fomenta discordie. L’arrivo di anticristi negli ultimi tempi (creduti imminenti) era stata già preannunciata dagli apostoli. L’asprezza polemica contro i maestri di errori si avvale anche di citazioni riprese dagli scritti apocrifi giudaici (Testamento dei Dodici Patriarchi, Assunzione di Mosè, libro di Enoch, ecc.). L’epistola si conclude con una lode a Dio, secondo uno schema dossologico, usuale nella liturgia, tipico delle benedizioni bibliche. Possiamo escludere che l’autore della lettera sia l’apostolo Giuda Iscariota, il traditore, o l’altro apostolo omonimo, figlio di Giacomo (Lc 6, 16; At 1, 13). Non è chiaro se la fratellanza sia da intendere in senso fisico o solo nella fede. Si dubita che possa essere identificato come fratello di Gesù e di Giacomo (Mc 6, 3, Mt 13, 55), dato che i fratelli di Gesù non credevano in lui (Gv 7, 5). Incerta è l’identificazione del nome Giacomo, poiché così sono chiamati sia due apostoli, di cui uno è il figlio di Zebedeo, l’altro è il figlio di Alfeo, sia quel Giacomo detto il Minore (Mc 15, 40), sia quell’altro Giacomo, responsabile della Chiesa di Gerusalemme, soprannominato il Giusto (At 12, 17; 15, 13).


 Lucio Apulo Daunio




LETTERA AGLI EBREI

             
          Agli Ebrei, convertiti al cristianesimo, è indirizzata l’ultima missiva di scuola paolina, assimilabile a un’omelia. Redatta (intorno agli anni 70) in conformità alle regole della retorica, secondo lo stile c.d. “rodiano” (una sintesi tra lo stile barocco degli oratori “asiani” e quello classico degli “atticisti”), è finalizzata alla persuasione. L’autore è sconosciuto. Forse, è un discepolo degli apostoli, di buona formazione culturale (ellenistica) e teologica. Egli consola la comunità che è stata oggetto di persecuzione, esortandola a perseverare nella fede. Annuncia il sacerdozio eterno di Cristo, secondo l’ordine non trasmissibile di Melchisedech (che non è stato costituito secondo la Legge ed è superiore al sacerdozio levitico). Gesù, infatti, ha sacrificato se stesso sull’altare del mondo per la salvezza dei credenti una volta per tutte, abolendo il rituale ebraico dell’offerta di vittime in espiazione dei peccati. Il suo efficace olocausto espiatorio (rispetto ai sacrifici della precedente tradizione) è irripetibile (dunque è incongruo ripeterlo simbolicamente nella celebrazione quotidiana della messa). L’antica alleanza, fondata sul rituale del culto e sulle norme di purità, è stata sostituita con la nuova alleanza, fondata sul sacrificio espiatorio di Cristo (e con il formalismo rituale liturgico cattolico). Il sangue di Cristo, sommo sacerdote che sacrifica se stesso, ha surrogato il sangue delle vittime dell’antico rituale (Lv 23, 27-32, Nm 29, 7-11). Il sacerdozio levitico e i relativi riti sono abrogati, perché inefficaci ai fini della salvezza (salvo i nuovi riti decretati dalla Chiesa trionfante). Tutto il precedente ordinamento (la legge mosaica e la sua morale), essendo pervenuto a perfezione con il messaggio salvifico di Cristo, giudicato superiore a Mosè (Eb 3, 3), è abrogato e sostituito dal Vangelo (di contrario avviso è l’evangelista Giovanni, cfr. 10,35, laddove rileva che la Scrittura non si può abolire). Cristo, neo-sacerdote, ha sacrificato se stesso in espiazione dei peccati degli uomini. Nel tempo antico, Dio progettò di vivere in mezzo al suo prescelto popolo (Lv 26, 12; Gr 30, 22), generato da Abramo e Sara (Gn 17), cui concesse di avere in tarda età il figlio Isacco (Ismaele, il figlio primogenito che il poligamo Abramo ebbe congiungendosi con la schiava di Sara, non fu meritevole agli occhi di Dio di appartenere al suo eletto popolo). Per istruire il suo amato popolo, Dio si servì dei profeti (Eb 1, 1 seg.). Ora, invece, parla a un nuovo popolo per mezzo del Figlio, che ha elevato sopra gli angeli e mandato in missione sulla terra. E’ un figlio obbediente, fedele, remissivo, disposto al sacrificio di se stesso per espiare i peccati degli uomini. Egli è divenuto perfetto attraverso la sofferenza (dunque non aveva tutti gli attributi divini), perciò ha la capacità di soccorrere quelli che soffrono. Il cristiano deve perseverare nella fede, che è sia garante dei beni celesti, che si sperano, sia certezza di realtà invisibili. Queste affermazioni, in verità, appaiono paradossali, poiché fondate sulla certezza di una credenza (pìstis) che è speranza di cose invisibili. Dante, infatti, nel “Paradiso” (XXIV, 64-65) definirà la fede “sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi”. L’autore esorta a non disertare le riunioni liturgiche, essendo imminente il giorno dell’ira del Dio vivente. Il cristiano inoltre, conclude l’autore dell’epistola, deve evitare di apostatare, perché non ci sarà più un altro Cristo, prono al sacrificio per espiare i peccati commessi dagli uomini contro la Maestà divina e ottenerne il perdono.

L’autore della lettera avverte: senza la fede non si è graditi a Dio. Solamente chi crede in lui sarà ricompensato (Eb 11,6). Chi poi sarà giudicato reo di aver calpestato Gesù, Figlio di Dio, e di aver oltraggiato lo Spirito della grazia, meriterà un castigo maggiore di quello che la legge mosaica riserva agli inadempienti, cioè la condanna a morte sulla base della testimonianza di due o tre persone (Eb 10,28; Dt 19, 15-20). Nel dettare la legge a Mosè, dunque, Dio si dimentica del quinto comandamento, che vieta di uccidere? Giammai! Il divieto di uccidere riguarda solamente innocenti e giusti (Es 23,7), non chi è giudicato colpevole (tesi confermata dal Catechismo della Chiesa cattolica al punto 2267). Nel concetto di colpevolezza Dio contempla ampie fattispecie; tuttavia, quanto ordina al suo amato popolo di sterminare i nemici d’Israele, include anche innocenti e giusti (Lv 27, 28 seg.; Nm 21, 2-3; Dt 7, 1-6.16; 20, 10-18; Gs 6, 17-21; 8, 22-24; 10, 28-42 e sim.; 1 Sm 15,2; 22,19). Per favorire l’esodo di Mosè dall’Egitto, castiga gli Egiziani e uccide persino i loro primogeniti (Es 12,12). Con il diluvio universale affoga tutta l’umanità, salvo alcuni suoi protetti (Gn 6,17). Queste e altre bibliche nefandezze testimoniano che Dio non è migliore dell’uomo.
       
                  
  Lucio Apulo Daunio
                  

mercoledì 9 novembre 2011


LETTERE PSEUDOEPIGRAFE PAOLINE



AGLI EFESINI


Questa, come la seconda Lettera ai Tessalonicesi, la Lettera ai Colossesi e le Lettere Pastorali, sono tutte da considerare pseudoepigrafe (cioè redatte da collaboratori o discepoli di Paolo e a lui attribuite per conferirne autorità), ancorché la tradizione le attribuisca interamente a Paolo. La lettera ecclesiologica “agli Efesini” (così denominata perché ritrovata nella Chiesa d’Efeso, in Asia Minore), scritta tra gli anni 60-62, durante la prigionia di Paolo a Roma, ha come destinatari i santi fedeli in Cristo, senza ulteriore specificazione. Efeso era un importante centro commerciale, avente un famoso tempio, dedicato alla dea Artemide, che era considerato una delle sette meraviglie del mondo. Fu distrutto e ricostruito più volte, fino alla definitiva distruzione nel 401 e.v. da parte dei cristiani, guidati da Giovanni Crisostomo. L’autore della Lettera agli Efesini si sofferma sul tema della via della salvezza, conseguibile con la fede nella grazia divina (predestinazione). Accogliendo il vangelo predicato da Paolo, il cristiano può concretare l’unione con Cristo, capo della Chiesa e padrone dell’universo. Nella concezione di Paolo, infatti, Gesù risorto domina dalla sommità dei cieli, assiso alla destra del Padre. Davanti a Cristo non vi sono distinzioni tra padroni e servi, ma ognuno riceverà la retribuzione (quando soggiornerà nel celeste impero di Dio) in funzione del bene o del male che avrà fatto in terra. Nella vita terrena, però, vale la sottomissione in tutto della donna all’uomo, dei figli ai genitori, degli schiavi ai padroni. Gli schiavi cristiani, in particolare, devono obbedire ai padroni con timore e rispetto, come lo stesso Gesù ubbidisce a Dio Padre (cfr. 6,1seg). La salvezza, per Paolo, consiste nel liberarsi dalle potenze malvagie, che dominano nei bassi e tenebrosi fondi del cosmo. Tale scopo si consegue spogliandosi dell’uomo vecchio (il modo di vivere pagano) e rivestendosi dell’uomo nuovo (cioè il vivere cristianamente). Il corpo della Chiesa è l’armatura protettiva di Dio, l’egida con cui difendere i fedeli, predestinati ad essere i suoi figli spirituali, dai dardi del maligno. L’autore rivolge una preghiera al Dio del Signore nostro Gesù Cristo (qui pare che l’autore dubiti della divinità di Gesù; cfr. Ef 1,17), affinché conceda alla comunità i doni della sapienza e della comprensione del mistero divino. Dio ha voluto estendere il suo progetto salvifico a tutti gli uomini, mediante il Cristo Gesù, di cui Paolo si dichiara suo prigioniero. I divini misteri, infatti, non furono svelati agli uomini nei tempi passati (qualcosa, però, Jahvè rivelò a patriarchi e profeti appartenenti al suo popolo eletto). Solamente con l’avvento di Cristo, lo Spirito di Dio ha comunicato l’arcano ai santi della Chiesa, tramite apostoli e profeti (ma ha anche illuminato visionari e sedicenti vicari del Cristo Re). Anche Paolo, il più piccolo di tutti i santi, ha ricevuto la rivelazione del mistero divino e la grazia di evangelizzare i pagani.



AI COLOSSESI


La missiva alla Chiesa di Colosse (città della Frigia, nell’Asia Minore, divenuta provincia romana), che si suppone scritta da Paolo durante gli anni della prigionia (58-62), mette in guardia la comunità da chi insegna una filosofia di salvezza (caratterizzata da un sincretismo religioso, ossia dalla fusione di diverse culture). Questa filosofia si discosta dall’insegnamento degli apostoli. Essa è fatuo inganno, che s’ispira alle tradizioni umane. E’ superstizione, che si contrappone all’autentica religione. E’ una filosofia che si pone in contrasto con il Vangelo di Cristo: la misteriosa parola di Dio finalmente rivelata e annunciata da Paolo alle genti in tutto il mondo. Solo l’insegnamento di Cristo, Dio visibile, giacché immagine nella carne dell’invisibile Dio, è vera sapienza. Il cristiano deve perciò vivere una nuova vita in Cristo, il Dio risorto, spogliandosi del suo uomo vecchio, intriso di vizi, sui quali piomba l’ira divina. Il redattore della lettera ritiene che i Colossesi, essendo ormai rivestiti dell’uomo nuovo, in virtù della fede nella potenza di Cristo, siano diventati gli eletti, i santi amati da Dio, che attendono l’imminente parusia (il ritorno di Cristo) per essere anche loro rivestiti di gloria (la discesa dal cielo di Gesù, a cavalcioni delle nubi, si attende ancora; cfr. Mt 24,14.30; 26,64; 16,27). Essi, perciò, devono rifuggire i vizi indotti dalla debolezza della “carne” e continuare a praticare le virtù cristiane (che erano anche quelle della cultura pagana, anche se priva della pretesa grazia divina). Riguardo ai rapporti interpersonali, l’autore comanda alle donne di sottostare all’autorità dei mariti; ai figli, di obbedire all’autorità dei genitori; agli schiavi, di obbedire ai loro padroni, che devono servire con docilità e nel timore del Signore (cfr. Col 3,22 seg.). Gli schiavi, in concreto, restando umilmente asserviti ai padroni della terra (Dio lo vuole!), onorano il Signore. L’autore della lettera identifica Cristo con la creazione (una sorta di panteismo?). In lui - afferma - sono racchiusi tutti i tesori della sapienza e della conoscenza (contrariamente in Mt 24, 36 e in Mc 13, 32, dove la conoscenza di Gesù appare lacunosa).










LETTERE PASTORALI



A TIMOTEO


Fanno parte della raccolta epistolare paolina tre lettere pastorali, così denominate perché dirette a dei capi di comunità (due indirizzate a Timoteo, una a Tito), che la tradizione attribuisce a Paolo (ma che la critica testuale le ritiene di scuola paolina e databili verso la fine del I sec.). Paolo, apostolo di Cristo per comando di Dio, invia dalla Macedonia al discepolo prediletto Timoteo, una lettera con cui lo esorta a vigilare sull’ortodossia della fede, a guardarsi dai falsi dottori e dalle loro fantasiose speculazioni, ad attingere sapienza dalla lettura delle Sacre Scritture, che tutte e in tutto sono ispirate da Dio (su questa credenza si fonda l’interpretazione mistico-spirituale della Bibbia). La legge mosaica, su cui insistono quei falsi dottori – dice l’autore - non è stata istituita per i giusti, ma per combattere il male delle persone inique. Con la venuta di Cristo, unico mediatore fra Dio e gli uomini, vige una nuova legge: quella che lui ha annunciato tramite il vangelo. Paolo raccomanda a Timoteo di pregare per i re e per tutti quelli che sono in autorità, dimostrando così ai pagani che i cristiani sono una comunità religiosa, non politica. Come responsabile della Chiesa di Efeso, Timoteo riceve anche disposizioni riguardo all’atteggiamento che devono assumere i fedeli durante le assemblee liturgiche, come devono pregare gli uomini e come devono vestire le donne. A queste, inoltre, non è concesso insegnare (contrariamente, in 1 Co 11, 5, dove si consente loro di predicare o profetizzare nelle assemblee; invece, contraddittoriamente, in 1 Co 14, 34-35, s’impone loro di tacere), bensì imparare in silenzio e in perfetta sottomissione. Le donne, insomma, non devono né insegnare né dominare l’uomo, ma… zittire e ascoltare. La sudditanza della donna è giustificata con due argomentazioni. L’una è fondata sul mitico racconto della creazione, descritto nel libro “Genesi”. Adamo - si racconta - fu creato per primo, a somiglianza di Dio; Eva, invece, fu formata prelevando una costola da Adamo. L’altra argomentazione è riferita alla (falsa) convinzione della fragilità morale della donna: non Adamo, bensì Eva, insidiata dal demonio, cadde nel peccato, trascinando anche (l’ingenuo) Adamo. Autentica missione della donna è la maternità, e questa quanto più è feconda tanto più è benedetta (secondo la visuale biblica). Anche il dio islamico, al pari di quello biblico, antepone nel Corano l’uomo alla donna a causa della preferenza che concede al primo (sura IV, 34). In materia ereditaria, Allah ordina che al maschio spetti la parte di due femmine (sura IV, 11). Paolo (o l’anonimo autore dell’epistola) sottolinea le qualità (irreprensibilità morale; divieto della poligamia) che occorrono per esercitare degnamente i ministeri di vescovo (episcopo), di diacono e di diaconessa. Suggerisce le norme sul modo di comportarsi con le vedove e con i presbiteri. Raccomanda il buon uso delle ricchezze a favore del prossimo, al fine di costituirsi un capitale nel mitico paradisiaco aldilà. I ricchi, infatti, devono la loro ricchezza alla benevolenza di Dio (!). L’autore invita gli schiavi a contentarsi del giogo servile (anziché protestare per la loro condizione di sfruttamento, perché la liberazione dalle ingiustizie e dall’oppressione non fa parte del programma evangelico da attuare in questo mondo, avendolo demandato post mortem nell’altro mondo). La lettera termina con l'esortazione a Timoteo di schivare le false dottrine gnostiche (consistenti nella fusione di quelle ellenistiche e di quelle giudaiche).

La seconda lettera a Timoteo è l’ultima scritta da Roma prima di subire il martirio (avvenuto nel 67 d.C., secondo una tradizione). Paolo, da buon soldato di Gesù, il dio risorto dalla morte, deve tutto soffrire per lui e immolarsi per la redenzione del prossimo (e per ottenere la sua ricompensa nell’aldilà). Proprio a causa della verità del vangelo da lui predicato, egli subisce le sofferenze e porta le catene come un malfattore. Il suo fanatismo religioso lo porta a glorificare se stesso, perseguitato per la fede in Cristo, datore di verità, non di favole. Mette in guardia Timoteo dai falsi maestri, attivi negli ultimi giorni, essendo già cominciata l’era escatologica, evocante l’imminenza della parusia, il glorioso trionfo del ritorno di Gesù nel mondo come giustiziere. Lo esorta a guardarsi da un certo Alessandro, il ramaio, che gli ha procurato molti guai, contrastando la sua predicazione del vangelo. Egli invoca contro di lui la giustizia (vendetta) divina. Si lamenta di sentirsi abbandonato dagli altri confratelli e discepoli (ricorda che nessuno lo sostenne durante la sua difesa in tribunale). Non dà notizie di un’eventuale presenza di Pietro a Roma. Verosimilmente, questi si trovava in quel torno di tempo a Babilonia, come indica chiaramente la lettera attribuita a Pietro (1Pt 5, 13). L’ipotesi che Babilonia sia un nome simbolico, riferibile alla città di Roma, è un’interpretazione sostenuta dalla Chiesa al fine di avvalorare la successione pietrina dei papi e la supremazia della cattedra romana. Gli Atti degli apostoli (scritti intorno agli anni 80) e gli altri testi canonici nulla dicono sulla morte di Pietro e su quella di Paolo. Secondo una tradizione, Pietro avrebbe subito il martirio nel 64 durante la persecuzione di Nerone. Leggendaria è la descrizione della morte di Paolo, riportata nell’apocrifo “Atti di Paolo”, databile alla fine del II secolo (sarebbe stato decapitato presso la località “Aquae Salviae” della capitale, forse nel 67, per ordine di Nerone).





A TITO


A Tito, il discepolo di Paolo preposto alla comunità dell’isola di Creta, è indirizzata l’epistola con la quale si danno disposizioni sull’organizzazione interna della Chiesa locale, sugli obblighi che i fedeli devono osservare, sulle qualità morali che devono avere i ministri della fede. L’autore esorta Tito a guardarsi dagli eretici, uomini perversi da evitare (la scomunica paolina contro gli eretici, in tempi successivi, si aggraverà con le pene comminate dal braccio secolare a conclusione dell’iniquo processo inquisitorio), e dai falsi dottori provenienti dal mondo giudaico, che sono insubordinati, parolai, ingannatori e narratori di fole. Per stigmatizzare le fandonie di costoro, l’autore della missiva riporta nella sua dura invettiva il detto di un poeta cretese secondo cui i Cretesi sono sempre bugiardi (incappando involontariamente nel paradosso del mentitore). Rammenta altresì a Tito di sorvegliare sia i comportamenti dei cristiani nel loro insieme, riguardo ai doveri che devono adempiere verso le autorità costituite, sia i contegni di ciascuna categoria di persona nei confronti dei loro fratelli, che devono essere improntati ai dettami del Vangelo. Gli suggerisce le virtù e le qualità morali che le matriarche devono utilizzare per indottrinare le giovinette ai doveri coniugali: essere caste, sottomettendosi ai propri mariti (non più valeva il costume pagano di delegare alla Venere Verticordia il compito di volgere il cuore delle ragazze alla costumatezza). Quanto agli schiavi, questi devono restare asserviti in ogni cosa ai loro padroni, persino compiacerli, mai contraddirli o derubarli (giacché l’ora della parusia e della fine dei tempi era ormai vicina). I liberi cittadini, invece, devono restare sottomessi ai magistrati e alle autorità. Tutti devono, durante l’attesa (vana speranza!) del ritorno glorioso di Cristo (di cui l’autore esalta la natura divina), evitare i litigi, le ribellioni e le mondane passioni per non incorrere nell’empietà e nel castigo divino.

La teologia paolina non ha carattere politico, volto alla liberazione dalle ingiustizie e dall’oppressione. L’ideale dell’eguaglianza è una conquista di là da venire. Il Cristo del vangelo di Paolo è spoliticizzato: parla di redenzione e salvezza nell’altro mondo. Per giunta, chi non si converte alla fede paolina è tacciato come persona abominevole agli occhi di Dio (e anche a quelli dei cristiani).


Lucio Apulo Daunio


venerdì 4 novembre 2011


LETTERA DI PAOLO AI ROMANI



Nella lettera dottrinale (databile all’anno 58) alla “chiesa” di Roma (cioè alla comunità, “ekklesiéa”, di giudei e pagani convertiti al cristianesimo), Paolo esordisce con un’iperbole. Ringrazia Dio, tramite il Cristo Gesù (che - dice Paolo - è venuto a esistenza secondo la natura umana dalla stirpe di Davide ed è stato costituito Figlio di Dio secondo la natura spirituale dopo la sua risurrezione dai morti), per la fama che i cristiani di Roma godono in tutto il mondo. Si tratta evidentemente di un’esagerazione, stante l’esiguità dei cristiani nella Roma imperiale di quei tempi. Contrariamente a quanto afferma l’evangelista Giovanni, che in Gesù sono riunite due nature: quella umana e quella divina, Paolo sostiene che Gesù ha la sola natura umana (oltre i doni ricevuti dallo Spirito Santo con il battesimo), mentre la natura divina la riacquista con la risurrezione e l’ascensione in cielo. L’uomo Gesù dunque, secondo Paolo, è differente dal Cristo celeste.

Dopo i convenevoli dell’esordio, Paolo, servo di Cristo, espone la sua tesi generale: la giustificazione si attua mediante la fede in Cristo Gesù, senza l’osservanza delle opere prescritte dalla legge mosaica. Si è giustificati, dunque, solamente se si vive in equilibrio con il vangelo annunciato da Gesù. Il vangelo, infatti, è potenza di Dio per la salvezza del credente. Nessun giusto - dice Paolo - esiste davanti a Dio. Tutti gli uomini, che siano giudei o pagani, hanno peccato: gli uni, ancorché consapevoli degli interventi di Dio e del suo amore a favore del popolo eletto, perché non hanno agito in conseguenza; gli altri, pur essendo affascinati dalla grandezza del creato, perché non hanno riconosciuto il Creatore con i loro vuoti ragionamenti (Sp 13, 1-9). Tutto il mondo, perciò, si trova sotto il castigo di Dio. Tuttavia, in virtù della sua azione salvifica nei confronti dell’umanità peccatrice, compiuta tramite il sacrificio del Cristo Gesù, l’umanità può riconciliarsi con Dio (paradosso del vanto cristiano!). L’uomo, giudeo o pagano, nella concezione teologica paolina, è condannato dalla sua natura al peccato. Egli con le sue sole forze non può ottenere la salvezza, perché non è in grado di ubbidire alla legge divina, mosaica o naturale che sia. Dunque, è necessario l’intervento di Dio: la grazia, mediante la quale l’uomo è redento. La redenzione, quindi, si attua per mezzo della fede e della grazia, accogliendo il messaggio di salvezza, non con l’ossessiva osservanza delle opere prescritte dalla legge mosaica. Sarebbe dunque inutile limitarsi a seguire pedissequamente le prescrizioni rituali e morali della legge.

In verità, le prescrizioni mosaiche, svalutate dalla dogmatica paolina, erano state comandate da Jahvè e sancite come perenni, immodificabili, perentorie, non trasgredibili, pena la maledizione divina (Es 12, 14-15, Dt 4, 2; 27, 26). Paolo, invece, ritiene sufficiente che l’uomo abbia fede nella morte e resurrezione di Cristo e si converta al suo messaggio salvifico per meritare la giustificazione di Dio. Da essa riceverà una nuova vita, una rinascita spirituale santificante (palingenesi), che gli darà la forza per adempiere la nuova legge di Cristo (concepito come Adamo redivivo, avente funzione inversa al primo). Il credente deve accettare con fede il mistero e la dottrina di Cristo; deve essere remissivo e obbedire alla disciplina della Chiesa, cui è stato svelato il piano misterioso di Dio, taciuto nei secoli precedenti. Oggetto della fede, dunque, è la parola di Dio, testimoniata dal Cristo Gesù, trascritta nelle Sacre Scritture su ispirazione dello Spirito Santo. Al concetto di Adamo redivivo, è stato in seguito affiancato quello di Eva rediviva: Maria, che dando ascolto all’angelo, generò Gesù, che ha liberato l’uomo dalla morte, a differenza della prima Eva, che diede ascolto al demonio, generando disubbidienza e morte. La speranza di Paolo, di una rinascita spirituale dell’umanità, è stata vanificata, come testimoniano duemila anni di cristianesimo criminale.

La violazione dell’ordine morale, il peccato, è una conseguenza della natura dell’uomo, della condanna alla morte perpetua, ereditata dalla colpa di Adamo (di qui prende avvio la concezione agostiniana del “peccato originale” e dell’ereditarietà legata a una colpa). Non solo Adamo, ma tutti gli uomini - dice Paolo - sono colpevoli. La debolezza umana è responsabile della trasgressione sia della legge data da Dio a Mosè (per quanto riguarda gli ebrei) sia della legge naturale, comune a tutti gli uomini. L’uomo non ha dunque la forza per essere giusto, ossia in armonia con la norma morale. Questa forza può provenire soltanto dalla fede in Cristo, dal quale l’uomo, iniziato ai misteri cristiani, è giustificato (cioè assolto dalla colpa), giacché riceve la forza per resistere alla debolezza della sua natura, conformandosi alla norma divina (cioè vivendo nello stato di grazia). Questa norma non è più quella della legge mosaica, bensì quella perfezionata da Gesù. Dunque, non sarebbero più applicabili ai cristiani, rei di trasgressione della legge mosaica, le pene da scontare nell’aldiquà, correlate alle maledizioni di Jahvè. Solamente chi non si pente dei peccati commessi, violando i precetti cristiani, sarà condannato nell’aldilà all’eterna sofferenza delle pene nell’inferno.

Paolo è tormentato dalla sua “carne”, incontrollabile, che lo rende schiavo del peccato (soprattutto di concupiscenza e di sensualità erotica). In essa non abita il bene, ma il male. Chi potrà mai liberarlo dal corpo peccaminoso? Semplice! L’intervento salvifico di Cristo, che lo aiuta a mortificare la “carne” e a vivere secondo lo Spirito, in intimità con chi solamente può donare la speranza della vita eterna.

Dio, secondo la fede cristiana, si è incarnato in Gesù, un uomo al pari degli altri, che si fa battezzare per ricevere i doni dello Spirito Santo, avendo rinunciato a ogni attributo divino. Egli, dopo la risurrezione dalla morte, recuperando i suoi attributi divini, è costituito Figlio di Dio (diversa opinione, come già detto, ha l’evangelista Giovanni, secondo il quale in Gesù sono riunite entrambe le nature, umana e divina). La missione di Gesù sulla terra consiste nel liberare (perdonare) gli uomini dai loro peccati, nefanda conseguenza della trasgressione di Adamo ed Eva all’ordine imposto da Dio (assurda responsabilità, ereditaria e collettiva, della colpa personale altrui). Se a causa della disubbidienza dei primi avi il peccato è entrato nel mondo, e con esso anche la morte, ora, in virtù dell’obbedienza di Gesù alla volontà del Padre, l’uomo può beneficiare del dono della vita eterna mediante il battesimo, che libera dal peccato originale e dalla morte eterna. Agostino esulterà per questa (assurda) “felice colpa”, meritevole di cotanto Salvatore. Così, questo strano dio cristiano, che ha consentito a Satana di dominare l’uomo, abbandonandolo con la sua discendenza al castigo di una vita di sofferenze, ora, bontà sua, si presenta come salvatore e misericordioso nella persona del Figlio Messia. Dio, tuttavia, è libero nel concedere o meno la sua misericordia. La speranza di essere meritevoli della grazia divina è una virtù teologale cristiana, come la fede e l’amore caritatevole.

Nel libro “Genesi” dell’A.T., si attesta che solo l’Essere (entità divina) esiste e che la realtà è una creazione dal nulla attuata dall’Essere. Dalla materia del creato Dio ha formato l’uomo, donandogli l’alito di vita. Per Paolo, la ragion d’essere di tutte le cose è Dio. Il cosmo, secondo la scienza, che si avvale del calcolo matematico e dell’osservazione sperimentale, non è una creazione dal nulla voluta da un Essere trascendente, ma, verosimilmente, il prodotto derivante da un caos originario esistente indipendentemente da supposte divinità. La materia dell’universo è in continua trasformazione ed espansione nella dimensione spazio-tempo (secondo l’accreditata teoria della grande esplosione o big bang). In “Isaia” (Is 45, 5-7) si proclama che Dio è l’autore d’ogni cosa, persino del male. Satana, personificazione del male, è stato concepito come angelo ribelle alla divina volontà. Dio, incredibilmente, gli assegna il principato sulla terra (Gv 12, 31), nominandolo suo emissario con l’incarico di indurre in tentazione gli uomini, ai quali tuttavia insegna come pregarlo, affinché li liberi dal male. Satana, infatti, nella visione di Paolo, sarà presto schiacciato dal Dio della pace sotto i piedi dei fedeli in Cristo Gesù (Rm 16, 20). La spiegazione dell’origine divina del male, della conseguente sofferenza degli uomini per una colpa degli avi, della successiva incarnazione di un dio come rimedio per la salvezza dell’uomo nell’atro mondo, sono concezioni che offendono l’intelligenza umana che non ragiona con il metro della fede. La mitica colpa descritta in “Genesi”, causa della caduta dell’uomo da un originario stato di perfezione, non può essere ereditaria, perché la responsabilità dell’uomo è personale e dipende, in parte, dalla sua volontà, per il resto da condizionamenti storicamente determinati dal suo essere nel mondo. Assurda è la concezione della trasmissione della colpa degli avi ai discendenti. Jahvè, dio dell’A.T., puniva le colpe dei padri fino alla quarta generazione. Gesù, invece, demanda l’espiazione delle colpe di tutte le generazioni nell’aldilà, esortando gli uomini nell’aldiquà a convertirsi a una nuova vita, conforme al suo modello etico. Ciò che non spiega è perché fin da principio il suo alter-ego, Dio-Padre, ebbe cura solamente degli ebrei, a scapito degli altri popoli.

Nella parte finale della lettera, Paolo si sofferma a esortare i cristiani di Roma, invitandoli alla moderazione, al reciproco amore fraterno (agape), all’amichevole accoglienza nella comunità anche di chi è debole nella fede, all’osservanza dei comandamenti di Dio. Prosegue, esortandoli a rifuggire dai vizi (come l’ubriachezza), dalle dissolutezze di natura sessuale (condanna dell’omosessualità maschile e femminile), dalle orge (spesso legate ai culti dionisiaci), dalle risse (conseguenti a discordie e gelosie). Provvede altresì a consolare la comunità con la speranza dell’attesa escatologica: la parusia del giorno del Signore, il suo ritorno nella gloria, creduta imminente. Invita alla sottomissione verso le autorità civili precostituite, in base all’assunto che ogni autorità è legittimata da Dio (visione teocratica). Chi si ribella all’autorità, sostiene Paolo, si contrappone a un ordine stabilito da Dio (Rm 13, 2), perciò ne subisce le conseguenze punitive dall’una e dall’altro. Gesù stesso si sottomise al potere di Pilato, da cui fu condannato a morire sulla croce, perché tale potere gli era stato concesso dall’alto (Gv 19, 10-11).

Sembra quindi che nella concezione di Paolo vi sia una stretta relazione fra l’autorità civile e Dio (piuttosto che una netta distinzione tra i due poteri, come nel contesto evangelico marciano; cfr. Mc 12, 17). Ne consegue che chi si ribella alle autorità civili si contrappone a un ordine stabilito da Dio. Da ciò risulterebbe che la legge civile va comunque osservata, anche se appare in contrasto con i precetti etici o non si concilia con i principi del cristianesimo, statuiti dalla Chiesa docente. Ciò però implicherebbe una netta indipendenza tra i due poteri, quello politico e quello spirituale. L’autonomia del potere politico, tuttavia, non può essere assoluta e indipendente dal rispetto di principi etici. La storia, in verità, è testimone della collusione tra cristianesimo e autorità civile, cui era demandato il compito di preservare la fede con la conseguenza che il dissenso religioso era equiparato all’indisciplina civica.

Si discute sull’autenticità del capitolo 15, l’ultimo della lettera, che alcuni studiosi datano al II secolo, sulla base di manoscritti brevi di quel periodo, terminanti in 14,23.


LUCIO APULO DAUNIO


mercoledì 2 novembre 2011


LETTERA DI PAOLO A FILEMONE



La lettera è scritta da Paolo (databile tra gli anni 54-63) durante il periodo di prigionia (nel carcere di Efeso, tra il 54-55, o in quello del pretorio di Roma, tra il 61-63) a causa del vangelo che predicava. Destinatario è il ricco Filemone e la comunità romana che si riunisce nella sua casa, la chiesa domestica dei primi cristiani. La lettera è improntata a captare la benevolenza di Filemone e dell’intera comunità a favore di Onesimo, lo schiavo pagano da lui fuggito e convertito dall’Apostolo, affinché trovi buona accoglienza al momento del ritorno dall’antico padrone e gli sia perdonata la colpa per il grave reato commesso contro la proprietà. Gli schiavi, infatti, nell’ordinamento e nel costume di quei tempi erano considerati non come persone ma come cose di proprietà del padrone. Paolo non chiede la liberazione dello schiavo, giacché nessuna rilevanza ha la condizione sociale degli uomini in vista dell’avvento, creduto imminente, del Regno di Dio. Del resto, lui stesso si considera servo, prigioniero del Cristo Gesù. Onesimo, in concreto, pur essendo divenuto come il suo padrone fratello in Cristo, non può eludere la sua condizione di schiavo, che lo obbliga a prestare gratuitamente il suo lavoro. Unica speranza per Onesimo sarà di essere accolto dal suo padrone con clemenza e con spirito di fratellanza per la sua conversione alla fede in Cristo.

Nei saluti finali alla comunità romana, Paolo non menziona Pietro (forse perché a Roma il Principe degli Apostoli non ha mai messo piede). In nessuna delle lettere attribuite a Paolo, si dice che la “chiesa” romana è stata evangelizzata da Pietro. Paolo, anzi, afferma che Pietro è l’apostolo dei giudei, essendo stato demandato a lui l’apostolato presso i “gentili”. Gli “Atti”, che trattano della storia della Chiesa fino al sessantuno, quantunque ispirati dallo Spirito Santo, tacciono sull’apostolato a Roma di Pietro. Sembra, dunque, che solo dopo gli anni 61-63 si potrebbe ipotizzare l’improbabile arrivo di Pietro a Roma. Secondo l’inattendibile tradizione della Chiesa, Pietro avrebbe subito il martirio a Roma nel 64, durante la persecuzione di Nerone; Paolo invece tre anni dopo, nel 67. Né le epistole di Paolo né quelle di Giovanni e di Giacomo e neanche gli Atti degli Apostoli attribuiti a Luca, trattano della missione di Pietro a Roma e, tantomeno, della pretesa primazia di Pietro. Nemmeno le lettere attribuite a Pietro fanno riferimento al suo apostolato a Roma, anche se nella parte finale della prima lettera Pietro invia i saluti della comunità radunata in Babilonia (città che si è voluta interpretare come indicante Roma). Occorre però considerare che i destinatari dell’epistola pietrina non avrebbero potuto capire che Babilonia significasse Roma. Inattendibili e di carattere agiografico sono gli apocrifi Atti di Pietro (scritti intorno al 200) e le Pseudo-clementine (databili fra il secondo e il terzo secolo), falsamente attribuite a Clemente Romano, il papa vissuto nel primo secolo. Lo stesso Clemente, nella sua lettera ai Corinzi, nulla dice riguardo alla presenza di Pietro a Roma. Né può dedursi tale circostanza dalle lettere attribuite a Ignazio, discepolo degli apostoli, morto nell’anno 110. Dubbia è anche la testimonianza dell’anno 180 di Ireneo, vescovo di Lione, la cui opera contro gli eretici è pervenuta in traduzione da una copia in latino, essendosi smarrito l’originale scritto in greco. Si sospetta (se si esclude una probabile contraffazione del testo) che Ireneo, giunto in missione a Roma, sia stato influenzato dalle autorità locali, interessate a sostenere il primato della Chiesa di Roma (cfr. Ernesto Buonaiuti, Storia del Cristianesimo). La supposta presenza di Pietro a Roma, in realtà, risale a tradizioni e leggende create tra il III e IV secolo. False sono le convinzioni che taluni oggetti e monumenti attesterebbero la pretesa presenza a Roma di Pietro, come la cattedra conservata in Vaticano o le catene con cui l’apostolo fu incatenato nel carcere Mamertino. Il sacro primato della Chiesa di Roma, la successione apostolica e lo stesso papato sono evidenti acquisizioni storiche, dedotte da leggende, false testimonianze e invenzioni costruite per affermare il potere primaziale del papa e l’autorità della Chiesa romana, fondata sul sistema gerarchico dogmatico. Riguardo all’episodio narrato dagli evangelisti sul mistero che circonda la persona di Gesù, solamente in Matteo (cfr.16,17-20) si accenna alla glorificazione di Pietro, come pietra vivente su cui Gesù edificherà la sua chiesa e a lui consegnerà le chiavi per accedere nel regno dei cieli. Sulla base di questa pericope (verosimilmente aggiunta in tempi successivi) la Chiesa romana ha voluto dedurre il titolo legale della sua autorità. Pietre viventi (come riporta la prima lettera attribuita a Pietro; cfr.1Pt, 2,4-8) sono invece tutti i cristiani formanti l’organismo sacerdotale della Chiesa. Pietro, infatti, non si è mai attribuito il titolo di massima autorità della Chiesa. Peraltro, la primitiva chiesa di Gerusalemme era guidata da Giacomo, fratello del Signore, non da Pietro. Quanto alle scoperte dell’archeologa cattolica Margherita Guarducci, circa gli scavi effettuati nel sotterraneo cimitero pagano del colle Vaticano, dove è stata trovata un’epigrafe su cui è inciso “Pietro è qui” e una cassa con dei resti umani, la stessa presume di aver trovato la reliquia dei resti di Pietro e la prova del suo soggiorno a Roma. Le sue argomentazioni, giacché basate su supposizioni, non hanno nulla di scientifico. Quanto al presunto teschio di Pietro, che per secoli era stato custodito nella chiesa di san Giovanni in Laterano, la stessa archeologa Guarducci ha dichiarato che si tratta di un falso. Il fatto che il teschio sia stato accettato e venerato come autentica reliquia di Pietro, sarebbe da attribuire all’aver prestato fede a una primitiva tradizione. E’ verosimile invece che Pietro sia stato sepolto a Gerusalemme, non a Roma. Infatti, dagli scavi effettuati nel 1953 a Gerusalemme sul monte degli Ulivi da due archeologi francescani, è stato trovato in un cimitero cristiano un ossario e un’epigrafe con la scritta in aramaico “Simone figlio di Giona” (così Gesù chiamava Pietro nel Vangelo matteano; cfr. Mt 16,17). La clamorosa scoperta, sottaciuta per ovvie ragioni dalle gerarchie ecclesiastiche romane, può essere addotta come verosimile prova della sepoltura di Pietro nel cimitero cristiano di Gerusalemme.


Lucio Apulo Daunio



LETTERA DI PAOLO AI FILIPPESI



La lettera alla “chiesa” di Filippi (città della Macedonia), governata da un collegio di episcopi e diaconi, Paolo la scrive durante una prigionia (forse nel carcere di Efeso o di Cesarea, cfr. At 23,25, o di Roma). La carcerazione è il prezzo che paga per il suo zelo nel propagandare la fede del Cristo Gesù, per il quale è pronto anche a morire (teorizzazione del martirio per il trionfo della fede).  La data di composizione della lettera potrebbe oscillare tra gli anni dal 54 al 62. Si tende ultimamente ad ammetterne l’autenticità, ma si ritiene che sia una combinazione di più lettere scritte dall’apostolo in più tempi. Dubbi si hanno riguardo all’inno sulla passione e glorificazione di Cristo (2,5-11), che mostra una distinzione di Dio nelle due persone del Padre e del Figlio.

L’apostolo raggiunge la Macedonia durante il suo secondo viaggio missionario (anni 48-51), sospinto da una visione del Signore (At 16,9). A Filippi si sofferma parecchi giorni con Sila e Timoteo, riuscendo a creare la prima comunità di cristiani in Europa, convertendo una certa Lidia e la sua famiglia. Paolo libera dal maligno una schiava indovina. In seguito a un tumulto sono bastonati e incarcerati, ma il sopraggiungere di un terremoto consente ai tre missionari di essere liberati. Prima di lascare Filippi, convertono il carceriere (cfr. At 16,1 seg.) e la sua famiglia.

Paolo si qualifica nella lettera servo (schiavo) di Cristo. Si apre ai Filippesi esprimendo personali sentimenti, non questioni dottrinali o rimproveri. Promette loro d’inviare il valente collaboratore Timoteo. Intanto manda subito Epafrodito, ristabilitosi da una grave malattia, a causa della quale ha rischiato di morire. Dio ha avuto pietà di lui, guarendolo, ma anche di Paolo, sottraendolo da un aggravio di afflizioni.

Non era in potere degli apostoli risanare seduta stante le infermità? Non si doveva rattristare della morte solo chi non aveva speranza alcuna nella risurrezione dei corpi?

Paolo esorta i Filippesi a non lasciarsi atterrire dagli avversari e a sopportare le sofferenze, come fa lui, per amore di Cristo. Soffrire per lui è una gioia, un dono concesso da Dio per la salvezza dei cristiani. Risalta nella lettera l’inno a Cristo. Tutti i popoli della Terra devono proclamarlo Signore dell’universo. Gesù, pur essendo uguale a Dio (contrariamente in 1 Co 15, 27, dove appare subordinato al Padre), ha rinunciato alla sua natura divina (kenosis) per venire a vivere insieme agli uomini, divenendo simile a loro, servo tra i servi di Dio, umiliandosi fino a morire sulla croce. Per questo il Padre lo ha esaltato e glorificato, attribuendogli la signoria degli esseri celesti, terrestri e sotterranei, proclamandolo padrone dell’universo. Per mezzo della fede in Cristo, l’uomo è ora giustificato. Il cristiano, parola di Paolo, non appartiene più al mondo in cui vive, ma al Regno di Dio.


Lucio Apulo Daunio