LETTERE
CATTOLICHE
Le Lettere
Cattoliche, dette anche apostoliche, perché (impropriamente) attribuite dalla
tradizione agli apostoli: Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda (colonne della
chiesa di Gerusalemme; cfr. Ga 2, 9), completano il canone delle epistole del
Nuovo Testamento. Sono dette cattoliche (cioè universali), perché (ad eccezione
di 2 e 3 Gv) non sono destinate a comunità particolari, come le lettere
paoline, ma alle “chiese” disseminate nel mondo. Redatte verso la fine del
primo secolo, sono da considerare scritture pseudo-epigrafe.
LETTERA DI
GIACOMO
La lettera
c.d. di Giacomo (databile nell’ultimo quarto del primo secolo) si presenta come
un’omelia rivolta alle (mitiche) dodici tribù d’Israele (cioè le comunità
giudaico-cristiane) sparse nel mondo (diaspora). Si propende a considerarla un
compendio da precedenti fonti. Si ritiene d’incerta attribuzione, essendo
l’autore non ben identificato, ancorché la tradizione l’abbia voluta attribuire
a Giacomo il Giusto, uno dei quattro fratelli carnali di Gesù, responsabile e
guida suprema della chiesa di Gerusalemme (At 12, 17) fino all’anno 62 del suo
martirio (fu lapidato) per mano dei Giudei. Si crede che si sia convertito alla
fede di Gesù dopo la sua risurrezione e apparizione ai discepoli (cfr. 1 Co 15,
7). Nelle “Recognitiones”, uno degli scritti apocrifi della letteratura
pseudo-clementina, Giacomo è designato vescovo dei vescovi, successore della
cattedra di Cristo a Gerusalemme (cfr. l’apocrifo “Vangelo di Tommaso”) e da
lui deputato a governare tutte le comunità cristiane sparse nel mondo (cfr.
Lettere di Clemente a Giacomo). Altri studiosi propendono per Giacomo il
Minore, figlio d’Alfeo e fratello di Giuda Taddeo, o per l’atro Giacomo, il
Maggiore, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, giustiziato (fu decapitato)
verso l’anno 43 da Erode Agrippa, oppure per un omonimo autore giudeo-cristiano
(forse un asceta esseno). Dall’esame dei manoscritti scoperti nella località di
Qumran, presso il Mar Morto, dove viveva una comunità di esseni (fino al 70
e.v.), alcuni studiosi hanno ipotizzato che Giacomo, fratello di Gesù, fosse il
loro Maestro di Giustizia e che Gesù fosse il Messia di Aronne atteso dagli
esseni (cfr. “Regola della Comunità”, rotolo 1QS), ossia un profeta predicatore
destinato a soffrire e ad essere ingiustamente accusato, distinto dal Messia
davidico, figura prettamente politica. Nel Vangelo secondo Matteo (11, 14),
invece, si attesta che Elia è il profeta atteso dal popolo ebraico, venuto
nella persona di Giovanni Battista. Nel Vangelo secondo Giovanni (1, 19 seg.),
al contrario, si attesta che il Battista non è Elia, né il profeta (atteso
dalla comunità essena di Qumran), né il Messia salvatore escatologico, ma solo
un precursore del Cristo Gesù.
L’autore
della lettera, che si qualifica servo di Dio e del Signore, il Cristo Gesù,
espone i principi morali che devono guidare la vita dei giudeo-cristiani.
Esorta a non avere riguardo di persona durante le assemblee liturgiche.
Polemizza contro i favoritismi nelle comunità cristiane verso i membri ricchi,
rammentando che il Vangelo è stato annunciato soprattutto per i poveri.
Denuncia sia l’immoralità dell’ingiusto arricchimento, che lede i diritti dei
lavoratori, sia le ingiustizie che opprimono i miseri. Inveisce, inoltre,
contro i ricchi padroni, che sfruttano i loro schiavi e umiliano i poveri,
preconizzando la vendetta del Signore, il cui glorioso ritorno si avvicina
continuamente (vana speranza). Biasima l’uso della parola volta a denigrare il
prossimo. Invita a sopportare la sofferenza, cercando conforto nella preghiera,
affinché i lumi della Sapienza facciano comprendere i misteri divini. Infonde
speranza di guarigione ai malati, esortandoli a farsi somministrare dai
presbiteri il sacramento terapeutico dell’unzione con olio benedetto.
Nell’ebraismo
la fede non basta per essere giustificati davanti a Jahvè; occorrono anche la
pratica delle numerose opere prescritte nella Bibbia. Anche Giacomo, fratello
di Gesù, responsabile della Chiesa di Gerusalemme, nell'omonima lettera insiste
sull’adempimento delle opere, senza le quali la sola fede non giova,
opponendosi a Paolo di Tarso, che riteneva sufficiente per la salvezza la sola
fede. Giacomo, invece, ritiene inseparabili l’una dalle altre. Infatti, anche
ammettendo che la giustificazione si abbia in base alla fede e non alle opere,
egli considera imperfetta la fede che non sia accompagnata dalle opere, essendo
queste espressione della fede (in verità, le buone opere compiute per amore del
prossimo e non in forza della fede in divinità trascendenti, sono senz’altro
più meritorie, in quanto giustificano l’uomo non davanti al Nulla deificato,
bensì davanti alla sua umanità). La fede in Dio, sottolinea l’autore della
lettera, che sembra voler polemizzare con la dottrina paolina della
giustificazione, è fede operante, in quanto l’una (la fede) implica l’altra
(l’opera) e viceversa. Secondo Paolo, invece, la giustificazione del peccatore
è azione congiunta della fede nel Vangelo e della grazia di Dio, piuttosto che
delle opere. Già al tempo di Paolo, infatti, si era verificata una prima
spaccatura tra giudei cristiani, seguaci di Pietro, di Giacomo e di altri
notabili di Gerusalemme, osservanti della legge rituale mosaica, e cristiani
ellenistici, prevalentemente di provenienza pagana (i “gentili”), seguaci di
Paolo (At 11; 15; Ga 2, 11-21; 3, 10-14; 3, 21-28; 5, 1-6). Con la distruzione
di Gerusalemme nell’anno 70, cessò di esistere la primitiva comunità dei
giudeo-cristiani. La lettera termina bruscamente, senza i convenevoli della
chiusura finale.
LETTERE DI
PIETRO
L’analfabeta
Pietro (pastor ovium), l’apostolo “primus inter pares” (primo tra
uguali), è considerato dalla Chiesa la roccia su cui Gesù ha voluto costruire
la sua comunità (cfr. Mt 16, 17-19: questa pericope, che si ritiene aggiunta
successivamente all’originaria scrittura, non è riscontrabile nei testi degli
altri evangelisti). A Pietro, iniziatore (ma non vi sono testimonianze certe)
della successione episcopale della cattedra romana, sono state attribuite due
lettere (databili tra gli anni 70 e 100). La prima è uno scritto pseudonimo,
redatto da un discepolo di Pietro (o da un maestro di scuola paolina),
appartenente alla comunità di Babilonia (che s’interpreta come probabile nome
metaforico di Roma); l’altra è uno scritto pseudoepigrafo (cioè un falso
storico). I destinatari sono gli Israeliti residenti nelle provincie dell’Asia
Minore, convertiti al cristianesimo, eletti pellegrini della dispersione, ma
anche credenti provenienti dal paganesimo, riscattati da una vita insulsa. I
cristiani sono il nuovo popolo eletto scelto da Dio. Si espongono gli aspetti
pratici della vita cristiana e le difficoltà cui è sottoposta la comunità,
vivendo in un ambiente pagano, caratterizzato da un clima di ostilità e dalla
minaccia di un’incombente persecuzione, poiché erano odiati a causa dei loro
presunti delitti (per flagitia invisos).
Secondo una
tradizione, la prima lettera, scritta verosimilmente da un segretario
dell’apostolo, fu spedita da “Babilonia” ai cristiani dell’Asia per avvertirli
dei pericoli di una persecuzione incombente anche nelle lontane provincie
romane (forse in conseguenza dell’accusa di Nerone ai cristiani, responsabili
dell’incendio di Roma del 64, che distrusse per nove giorni il settanta per
cento delle 14 regioni della capitale, com’erano state distinte da Augusto). In
relazione a questa tradizione, si ritiene che l’epistola sia stata scritta
durante il periodo di persecuzione neroniana (non oltre il 68, anno della morte
di Nerone). S’ipotizza che la persecuzione neroniana possa essere stata estesa
in tutto l’impero tramite un editto pubblico (non menzionato dagli storici
pagani, ma soltanto da quelli cristiani; cfr. Orosio, Adv. pag. hist. VII, 5;
Sulpicio Severo, Chron.II,41). Secondo una tradizione, l’apostolo Pietro venne
(o ritornò) a Roma durante il regno di Nerone (tra il 54 e il 68).
Sopravvissuto alla persecuzione (in base all’ipotesi che fu lui a scrivere
l’omonima prima lettera per incoraggiare i fedeli dell’Asia ad affrontare con
coraggio la persecuzione del 64), subì il martirio mediante crocifissione
qualche anno prima del suicidio di Nerone. Vari sono i racconti leggendari sul
martirio di Pietro (come la Passio Petri dello pseudo-Lino). Clemente romano,
papa dall’88 al 97, non indica il modo in cui avvenne il martirio. Nel Vangelo
secondo Giovanni, databile tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo,
si allude alla morte per crocifissione (Gv 21, 18-19). Origene (185-254)
afferma che l’apostolo chiese di essere crocifisso con la testa all’ingiù.
Secondo la tradizione, i resti dell’apostolo furono deposti ai piedi del colle
Vaticano, dove Costantino fece edificare la prima basilica.
I cristiani
dell’Asia soffrono perché sono considerati dalla pubblica opinione al pari dei
malfattori: asociali, omicidi, ladri, spioni. L’autore della lettera si prodiga
in consigli e raccomandazioni. Le tribolazioni che stanno subendo a causa delle
dicerie (rumores) sul loro modo di vivere, vanno considerate come titolo
di gioia e rimedio contro il peccato, perché esse sono una partecipazione alla
sofferenza di Cristo, patita ingiustamente sulla croce. L’autore esorta i
fedeli al lealismo politico (in conformità all’orientamento paolino - cfr. Rm
13, 1-7, ma in contrasto con la requisitoria antiromana dell’Apocalisse
giovannea). Consiglia di sottomettersi alle istituzioni politiche e civili, non
solo per evitare le punizioni, ma perché questo è ciò che Dio vuole (e la
propaganda religiosa pure, giacché mirata a persuadere i pagani per indurli
alla conversione). Ne consegue che l’obbedienza all’autorità politica diventa
dovere imposto da Dio. Se per la filosofia stoica, norma universale era la
legge di natura, cioè la giusta ragione, che insegna agli uomini cosa fare e
cosa evitare, per il cristianesimo legge di natura è la legge divina, data da
Dio agli uomini e contenuta nelle Sacre Scritture. L’autore paragona il diavolo
ad un leone ruggente che vagola in cerca di cristiani da divorare, sui quali,
però, veglia Cristo, pastore supremo del gregge a lui fedele. Gesù, riferisce
l’autore, scese nel regno dei morti (come novello Ercole) per portare
l’annuncio della salvezza anche ai defunti dei tempi remoti. Risorto dalla
morte, ascese verso il regno del Padre, dove ottenne la sovranità sulle potenze
celesti (sembra che prima non l’avesse). La sofferenza di Cristo deve essere
presa a modello dagli schiavi nei rapporti con i loro padroni (la ribellione di
Spartaco, morto nel 71, non sarebbe un esempio da imitare), perché è titolo di
benevolenza divina soffrire ingiustamente servendo perfidi padroni. La
schiavitù è stata giustificata dai tre monoteismi quasi fino ai nostri tempi.
Pio IX e il Santo Uffizio, nel 1866, la consideravano conforme alla legge
naturale e divina. Quanto alle donne, queste (e gli uomini no?) devono ispirare
la loro condotta al timore di Dio ed essere sottomesse ciascuna al suo marito,
obbedendogli e chiamandolo signore (non era quello il tempo per sommovimenti
femministi).
Le due
lettere attribuite a Pietro pongono in rilievo il tema dell’escatologia, cioè
del tempo ultimo in cui avverrà la distruzione del mondo con il fuoco, e quello
della successiva palingenesi del cosmo. L’autore della prima epistola ritiene
imminente la fine di tutto, mentre l’autore della seconda cerca di spiegare,
contro le false dottrine degli eretici, il ritardo della parusia, cioè l’attesa
della ricomparsa di Cristo nel mondo (che si sarebbe dovuta avverare durante
quella generazione), giustificandolo come una prova di fede, che tutti i
cristiani devono testimoniare per un periodo indeterminato. La parusia, pur
essendo stata rinviata “sine die”, può essere affrettata mediante una condotta
di santità e di pietà. La fede nel ritorno glorioso di Cristo alla fine dei
tempi, secondo l’autore della lettera, non è una favola, né un artefatto mito
pagano (come le mitiche storie di esseri divini, uccisi e poi risorti).
L’autore della seconda lettera espone il testamento di Pietro, al quale Gesù ha
rivelato l’ora della morte. Egli è stato (sul monte della Trasfigurazione)
testimone oculare della divina maestà di Cristo e ha udito la voce di Dio che
proclamava Gesù suo diletto Figlio. Polemizza contro la fraudolenta gnosi,
predicata dai falsi profeti e dai falsi maestri, fomentatori di discordie,
propagatori d’eresie, schernitori sarcastici della credenza nel ritorno
glorioso di Cristo. La testimonianza sul Cristo Gesù, attestata dagli apostoli,
ha reso più salda la parola dei profeti, che proviene da Dio. La Sacra
Scrittura, per quanto genuina, giacché fondata su ispirazione divina, non è
tuttavia d’immediata comprensione. Essa, avendo un significato esoterico, non è
suscettibile d’interpretazione soggettiva né di arbitraria spiegazione (2 Pt 1,
20-21). Curiosamente, nella chiesa di Notre-Dame di Parigi, la Vergine seduta
in trono è raffigurata con uno scettro nella mano sinistra e con due libri
nella mano destra, uno dei quali chiuso (simbolo di conoscenza esoterica),
l’atro aperto (simbolo di conoscenza essoterica, da tutti comprensibile). Persino
le lettere scritte da Paolo, in cui parla della parusia, sono di difficile
comprensione senza un’adeguata iniziazione al mistero di Cristo (2 Pt 3,
15-16). Del resto, lo stesso Gesù dei Vangeli (Lc 24, 25-27; 44-45) dovette
aiutare i suoi discepoli a comprendere i profondi misteri della “buona
novella”. La conoscenza che dio dona ai suoi eletti, poiché sorpassa i limiti
dell’umana ragione, può essere compresa, mediante i lumi dello Spirito Santo,
solamente dagli iniziati ai misteri divini. Questi sono i santi a cui è stato
svelato il mistero di Dio, celato alle generazioni passate (Col 1, 26).
L’autore dell’apocrifo gnostico “Apocalisse di Pietro” stigmatizza Paolo come
“uomo della falsità” ed apostata della Legge. In verità, tra il primo degli
apostoli e il tredicesimo apostolo non correva buon sangue. Gli Ebioniti, una
setta di cristiani giudaizzanti, che seguivano il solo vangelo matteano,
rifiutavano quello predicato da Paolo, che consideravano un apostata (cfr.
Ireneo, “Contro gli eretici” 1, 26). Secondo Eusebio di Cesarea (Storia Eccl.
III 27), le sette giudaico-cristiane, che seguivano il “Vangelo secondo gli
Ebrei” (forse si tratta dell’originale Vangelo di Matteo scritto in aramaico),
rifiutavano tutte le lettere dell’apostata Paolo.
LETTERE DI
GIOVANNI
Delle tre
lettere attribuite dalla tradizione all’apostolo Giovanni (databili tra gli
anni 90-100), la prima (che esprime il pensiero d’alcuni discepoli di scuola
giovannea, giacché l’autore s’identifica con un “noi”, un plurale che vuole presumere
l’appartenenza a un’autorevole tradizione), destinata a una comunità pagana
dell’Asia Minore, convertita al cristianesimo, espone un discorso teologico in
cui si dibattono alcuni temi riguardanti la fede. Essa ha lo scopo d’istruire
la comunità sulla conoscenza del mistero divino, mettendola in guardia
dall’erronea cristologia di pseudo-profeti, avanguardia degli anticristi.
Questo è il segno, secondo l’autore, che l’ultima ora è già venuta. Egli
testimonia la voce udita da alcuni apostoli sul monte della trasfigurazione,
dove Dio Padre proclama la divinità del Cristo Gesù. L’autore ammonisce a non
affezionarsi alle cose terrene, perché chi ama queste, non ama Dio, l’amore del
quale è eterno e non transeunte come quello del mondo (Dio, dunque, non gradisce
che si ami il mondo e le cose del mondo). Il sacrificio di Cristo è servito
(quindi, è stato necessario) per espiare i peccati di tutti gli uomini (ma solo
di coloro che accettano di uscire dalle tenebre del mondo, secondo il Vangelo
giovanneo; cfr. Gv 17, 9). Solo chi ha fede e crede in Gesù, Figlio di un Dio
che nessuno ha mai visto, vince il mondo governato dal maligno. Di Gesù hanno
dato testimonianza lo spirito del Padre, il sangue versato dal Figlio, la
grazia profusa dallo Spirito Santo con l’acqua battesimale (che non è ancora la
dottrina della Trinità, cioè dei tre modi di essere dell’unico Dio). Chi nega
il Padre e il Figlio è l’anticristo (1 Gv 2, 22), il menzognero calunniatore
(Ap 12, 10), che non crede alla verità, bensì all’iniquità (2 Ts 2, 3-12).
La seconda e
la terza lettera giovannea sono scritti anonimi, in quanto l’autore si
definisce solamente come presbitero. La seconda è destinata ad una comunità di
fedeli (non specificata), che è messa in guardia dai seduttori gnostici, maestri
d’errori e strumenti di Satana. Questi anticristi non ammettono l’incarnazione
di Cristo, perciò non vanno ascoltati. La terza lettera ha come ricevente un
certo Gaio, elogiato per la generosità con cui accoglie i missionari
itineranti. Parole di rimprovero, invece, sono rivolte all’episcopo (vescovo)
della comunità di cui fa parte Gaio, perché, oltre a non accogliere i suddetti
missionari, ha espulso dalla comunità coloro che li accoglievano e li
ospitavano.
LETTERA DI
GIUDA
La lettera
attribuita a Giuda, servo di Cristo Gesù e fratello di Giacomo, è d’incerta
identificazione (forse fu redatta da un maestro giudeo-cristiano, discepolo
dell’apostolo Giuda, tra gli anni 70-100). Essa è destinata a una comunità
anonima allo scopo di difenderla dalla minaccia di falsi maestri: eretici che
si sono infiltrati nella comunità, partecipando ai banchetti liturgici (agape).
Costoro sono accusati d’empietà e d’immoralità, in quanto vivono nella
dissolutezza, in preda al delirio di una dottrina che rinnega Cristo e fomenta
discordie. L’arrivo di anticristi negli ultimi tempi (creduti imminenti) era
stata già preannunciata dagli apostoli. L’asprezza polemica contro i maestri di
errori si avvale anche di citazioni riprese dagli scritti apocrifi giudaici
(Testamento dei Dodici Patriarchi, Assunzione di Mosè, libro di Enoch, ecc.).
L’epistola si conclude con una lode a Dio, secondo uno schema dossologico,
usuale nella liturgia, tipico delle benedizioni bibliche. Possiamo escludere
che l’autore della lettera sia l’apostolo Giuda Iscariota, il traditore, o
l’altro apostolo omonimo, figlio di Giacomo (Lc 6, 16; At 1, 13). Non è chiaro
se la fratellanza sia da intendere in senso fisico o solo nella fede. Si dubita
che possa essere identificato come fratello di Gesù e di Giacomo (Mc 6, 3, Mt
13, 55), dato che i fratelli di Gesù non credevano in lui (Gv 7, 5). Incerta è
l’identificazione del nome Giacomo, poiché così sono chiamati sia due apostoli,
di cui uno è il figlio di Zebedeo, l’altro è il figlio di Alfeo, sia quel
Giacomo detto il Minore (Mc 15, 40), sia quell’altro Giacomo, responsabile
della Chiesa di Gerusalemme, soprannominato il Giusto (At 12, 17; 15, 13).
Lucio Apulo
Daunio
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