venerdì 11 novembre 2011


LETTERE CATTOLICHE



Le Lettere Cattoliche, dette anche apostoliche, perché (impropriamente) attribuite dalla tradizione agli apostoli: Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda (colonne della chiesa di Gerusalemme; cfr. Ga 2, 9), completano il canone delle epistole del Nuovo Testamento. Sono dette cattoliche (cioè universali), perché (ad eccezione di 2 e 3 Gv) non sono destinate a comunità particolari, come le lettere paoline, ma alle “chiese” disseminate nel mondo. Redatte verso la fine del primo secolo, sono da considerare scritture pseudo-epigrafe.




LETTERA DI GIACOMO



La lettera c.d. di Giacomo (databile nell’ultimo quarto del primo secolo) si presenta come un’omelia rivolta alle (mitiche) dodici tribù d’Israele (cioè le comunità giudaico-cristiane) sparse nel mondo (diaspora). Si propende a considerarla un compendio da precedenti fonti. Si ritiene d’incerta attribuzione, essendo l’autore non ben identificato, ancorché la tradizione l’abbia voluta attribuire a Giacomo il Giusto, uno dei quattro fratelli carnali di Gesù, responsabile e guida suprema della chiesa di Gerusalemme (At 12, 17) fino all’anno 62 del suo martirio (fu lapidato) per mano dei Giudei. Si crede che si sia convertito alla fede di Gesù dopo la sua risurrezione e apparizione ai discepoli (cfr. 1 Co 15, 7). Nelle “Recognitiones”, uno degli scritti apocrifi della letteratura pseudo-clementina, Giacomo è designato vescovo dei vescovi, successore della cattedra di Cristo a Gerusalemme (cfr. l’apocrifo “Vangelo di Tommaso”) e da lui deputato a governare tutte le comunità cristiane sparse nel mondo (cfr. Lettere di Clemente a Giacomo). Altri studiosi propendono per Giacomo il Minore, figlio d’Alfeo e fratello di Giuda Taddeo, o per l’atro Giacomo, il Maggiore, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, giustiziato (fu decapitato) verso l’anno 43 da Erode Agrippa, oppure per un omonimo autore giudeo-cristiano (forse un asceta esseno). Dall’esame dei manoscritti scoperti nella località di Qumran, presso il Mar Morto, dove viveva una comunità di esseni (fino al 70 e.v.), alcuni studiosi hanno ipotizzato che Giacomo, fratello di Gesù, fosse il loro Maestro di Giustizia e che Gesù fosse il Messia di Aronne atteso dagli esseni (cfr. “Regola della Comunità”, rotolo 1QS), ossia un profeta predicatore destinato a soffrire e ad essere ingiustamente accusato, distinto dal Messia davidico, figura prettamente politica. Nel Vangelo secondo Matteo (11, 14), invece, si attesta che Elia è il profeta atteso dal popolo ebraico, venuto nella persona di Giovanni Battista. Nel Vangelo secondo Giovanni (1, 19 seg.), al contrario, si attesta che il Battista non è Elia, né il profeta (atteso dalla comunità essena di Qumran), né il Messia salvatore escatologico, ma solo un precursore del Cristo Gesù.

L’autore della lettera, che si qualifica servo di Dio e del Signore, il Cristo Gesù, espone i principi morali che devono guidare la vita dei giudeo-cristiani. Esorta a non avere riguardo di persona durante le assemblee liturgiche. Polemizza contro i favoritismi nelle comunità cristiane verso i membri ricchi, rammentando che il Vangelo è stato annunciato soprattutto per i poveri. Denuncia sia l’immoralità dell’ingiusto arricchimento, che lede i diritti dei lavoratori, sia le ingiustizie che opprimono i miseri. Inveisce, inoltre, contro i ricchi padroni, che sfruttano i loro schiavi e umiliano i poveri, preconizzando la vendetta del Signore, il cui glorioso ritorno si avvicina continuamente (vana speranza). Biasima l’uso della parola volta a denigrare il prossimo. Invita a sopportare la sofferenza, cercando conforto nella preghiera, affinché i lumi della Sapienza facciano comprendere i misteri divini. Infonde speranza di guarigione ai malati, esortandoli a farsi somministrare dai presbiteri il sacramento terapeutico dell’unzione con olio benedetto.

Nell’ebraismo la fede non basta per essere giustificati davanti a Jahvè; occorrono anche la pratica delle numerose opere prescritte nella Bibbia. Anche Giacomo, fratello di Gesù, responsabile della Chiesa di Gerusalemme, nell'omonima lettera insiste sull’adempimento delle opere, senza le quali la sola fede non giova, opponendosi a Paolo di Tarso, che riteneva sufficiente per la salvezza la sola fede. Giacomo, invece, ritiene inseparabili l’una dalle altre. Infatti, anche ammettendo che la giustificazione si abbia in base alla fede e non alle opere, egli considera imperfetta la fede che non sia accompagnata dalle opere, essendo queste espressione della fede (in verità, le buone opere compiute per amore del prossimo e non in forza della fede in divinità trascendenti, sono senz’altro più meritorie, in quanto giustificano l’uomo non davanti al Nulla deificato, bensì davanti alla sua umanità). La fede in Dio, sottolinea l’autore della lettera, che sembra voler polemizzare con la dottrina paolina della giustificazione, è fede operante, in quanto l’una (la fede) implica l’altra (l’opera) e viceversa. Secondo Paolo, invece, la giustificazione del peccatore è azione congiunta della fede nel Vangelo e della grazia di Dio, piuttosto che delle opere. Già al tempo di Paolo, infatti, si era verificata una prima spaccatura tra giudei cristiani, seguaci di Pietro, di Giacomo e di altri notabili di Gerusalemme, osservanti della legge rituale mosaica, e cristiani ellenistici, prevalentemente di provenienza pagana (i “gentili”), seguaci di Paolo (At 11; 15; Ga 2, 11-21; 3, 10-14; 3, 21-28; 5, 1-6). Con la distruzione di Gerusalemme nell’anno 70, cessò di esistere la primitiva comunità dei giudeo-cristiani. La lettera termina bruscamente, senza i convenevoli della chiusura finale.




LETTERE DI PIETRO



L’analfabeta Pietro (pastor ovium), l’apostolo “primus inter pares” (primo tra uguali), è considerato dalla Chiesa la roccia su cui Gesù ha voluto costruire la sua comunità (cfr. Mt 16, 17-19: questa pericope, che si ritiene aggiunta successivamente all’originaria scrittura, non è riscontrabile nei testi degli altri evangelisti). A Pietro, iniziatore (ma non vi sono testimonianze certe) della successione episcopale della cattedra romana, sono state attribuite due lettere (databili tra gli anni 70 e 100). La prima è uno scritto pseudonimo, redatto da un discepolo di Pietro (o da un maestro di scuola paolina), appartenente alla comunità di Babilonia (che s’interpreta come probabile nome metaforico di Roma); l’altra è uno scritto pseudoepigrafo (cioè un falso storico). I destinatari sono gli Israeliti residenti nelle provincie dell’Asia Minore, convertiti al cristianesimo, eletti pellegrini della dispersione, ma anche credenti provenienti dal paganesimo, riscattati da una vita insulsa. I cristiani sono il nuovo popolo eletto scelto da Dio. Si espongono gli aspetti pratici della vita cristiana e le difficoltà cui è sottoposta la comunità, vivendo in un ambiente pagano, caratterizzato da un clima di ostilità e dalla minaccia di un’incombente persecuzione, poiché erano odiati a causa dei loro presunti delitti (per flagitia invisos).

Secondo una tradizione, la prima lettera, scritta verosimilmente da un segretario dell’apostolo, fu spedita da “Babilonia” ai cristiani dell’Asia per avvertirli dei pericoli di una persecuzione incombente anche nelle lontane provincie romane (forse in conseguenza dell’accusa di Nerone ai cristiani, responsabili dell’incendio di Roma del 64, che distrusse per nove giorni il settanta per cento delle 14 regioni della capitale, com’erano state distinte da Augusto). In relazione a questa tradizione, si ritiene che l’epistola sia stata scritta durante il periodo di persecuzione neroniana (non oltre il 68, anno della morte di Nerone). S’ipotizza che la persecuzione neroniana possa essere stata estesa in tutto l’impero tramite un editto pubblico (non menzionato dagli storici pagani, ma soltanto da quelli cristiani; cfr. Orosio, Adv. pag. hist. VII, 5; Sulpicio Severo, Chron.II,41). Secondo una tradizione, l’apostolo Pietro venne (o ritornò) a Roma durante il regno di Nerone (tra il 54 e il 68). Sopravvissuto alla persecuzione (in base all’ipotesi che fu lui a scrivere l’omonima prima lettera per incoraggiare i fedeli dell’Asia ad affrontare con coraggio la persecuzione del 64), subì il martirio mediante crocifissione qualche anno prima del suicidio di Nerone. Vari sono i racconti leggendari sul martirio di Pietro (come la Passio Petri dello pseudo-Lino). Clemente romano, papa dall’88 al 97, non indica il modo in cui avvenne il martirio. Nel Vangelo secondo Giovanni, databile tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo, si allude alla morte per crocifissione (Gv 21, 18-19). Origene (185-254) afferma che l’apostolo chiese di essere crocifisso con la testa all’ingiù. Secondo la tradizione, i resti dell’apostolo furono deposti ai piedi del colle Vaticano, dove Costantino fece edificare la prima basilica.

I cristiani dell’Asia soffrono perché sono considerati dalla pubblica opinione al pari dei malfattori: asociali, omicidi, ladri, spioni. L’autore della lettera si prodiga in consigli e raccomandazioni. Le tribolazioni che stanno subendo a causa delle dicerie (rumores) sul loro modo di vivere, vanno considerate come titolo di gioia e rimedio contro il peccato, perché esse sono una partecipazione alla sofferenza di Cristo, patita ingiustamente sulla croce. L’autore esorta i fedeli al lealismo politico (in conformità all’orientamento paolino - cfr. Rm 13, 1-7, ma in contrasto con la requisitoria antiromana dell’Apocalisse giovannea). Consiglia di sottomettersi alle istituzioni politiche e civili, non solo per evitare le punizioni, ma perché questo è ciò che Dio vuole (e la propaganda religiosa pure, giacché mirata a persuadere i pagani per indurli alla conversione). Ne consegue che l’obbedienza all’autorità politica diventa dovere imposto da Dio. Se per la filosofia stoica, norma universale era la legge di natura, cioè la giusta ragione, che insegna agli uomini cosa fare e cosa evitare, per il cristianesimo legge di natura è la legge divina, data da Dio agli uomini e contenuta nelle Sacre Scritture. L’autore paragona il diavolo ad un leone ruggente che vagola in cerca di cristiani da divorare, sui quali, però, veglia Cristo, pastore supremo del gregge a lui fedele. Gesù, riferisce l’autore, scese nel regno dei morti (come novello Ercole) per portare l’annuncio della salvezza anche ai defunti dei tempi remoti. Risorto dalla morte, ascese verso il regno del Padre, dove ottenne la sovranità sulle potenze celesti (sembra che prima non l’avesse). La sofferenza di Cristo deve essere presa a modello dagli schiavi nei rapporti con i loro padroni (la ribellione di Spartaco, morto nel 71, non sarebbe un esempio da imitare), perché è titolo di benevolenza divina soffrire ingiustamente servendo perfidi padroni. La schiavitù è stata giustificata dai tre monoteismi quasi fino ai nostri tempi. Pio IX e il Santo Uffizio, nel 1866, la consideravano conforme alla legge naturale e divina. Quanto alle donne, queste (e gli uomini no?) devono ispirare la loro condotta al timore di Dio ed essere sottomesse ciascuna al suo marito, obbedendogli e chiamandolo signore (non era quello il tempo per sommovimenti femministi).

Le due lettere attribuite a Pietro pongono in rilievo il tema dell’escatologia, cioè del tempo ultimo in cui avverrà la distruzione del mondo con il fuoco, e quello della successiva palingenesi del cosmo. L’autore della prima epistola ritiene imminente la fine di tutto, mentre l’autore della seconda cerca di spiegare, contro le false dottrine degli eretici, il ritardo della parusia, cioè l’attesa della ricomparsa di Cristo nel mondo (che si sarebbe dovuta avverare durante quella generazione), giustificandolo come una prova di fede, che tutti i cristiani devono testimoniare per un periodo indeterminato. La parusia, pur essendo stata rinviata “sine die”, può essere affrettata mediante una condotta di santità e di pietà. La fede nel ritorno glorioso di Cristo alla fine dei tempi, secondo l’autore della lettera, non è una favola, né un artefatto mito pagano (come le mitiche storie di esseri divini, uccisi e poi risorti). L’autore della seconda lettera espone il testamento di Pietro, al quale Gesù ha rivelato l’ora della morte. Egli è stato (sul monte della Trasfigurazione) testimone oculare della divina maestà di Cristo e ha udito la voce di Dio che proclamava Gesù suo diletto Figlio. Polemizza contro la fraudolenta gnosi, predicata dai falsi profeti e dai falsi maestri, fomentatori di discordie, propagatori d’eresie, schernitori sarcastici della credenza nel ritorno glorioso di Cristo. La testimonianza sul Cristo Gesù, attestata dagli apostoli, ha reso più salda la parola dei profeti, che proviene da Dio. La Sacra Scrittura, per quanto genuina, giacché fondata su ispirazione divina, non è tuttavia d’immediata comprensione. Essa, avendo un significato esoterico, non è suscettibile d’interpretazione soggettiva né di arbitraria spiegazione (2 Pt 1, 20-21). Curiosamente, nella chiesa di Notre-Dame di Parigi, la Vergine seduta in trono è raffigurata con uno scettro nella mano sinistra e con due libri nella mano destra, uno dei quali chiuso (simbolo di conoscenza esoterica), l’atro aperto (simbolo di conoscenza essoterica, da tutti comprensibile). Persino le lettere scritte da Paolo, in cui parla della parusia, sono di difficile comprensione senza un’adeguata iniziazione al mistero di Cristo (2 Pt 3, 15-16). Del resto, lo stesso Gesù dei Vangeli (Lc 24, 25-27; 44-45) dovette aiutare i suoi discepoli a comprendere i profondi misteri della “buona novella”. La conoscenza che dio dona ai suoi eletti, poiché sorpassa i limiti dell’umana ragione, può essere compresa, mediante i lumi dello Spirito Santo, solamente dagli iniziati ai misteri divini. Questi sono i santi a cui è stato svelato il mistero di Dio, celato alle generazioni passate (Col 1, 26). L’autore dell’apocrifo gnostico “Apocalisse di Pietro” stigmatizza Paolo come “uomo della falsità” ed apostata della Legge. In verità, tra il primo degli apostoli e il tredicesimo apostolo non correva buon sangue. Gli Ebioniti, una setta di cristiani giudaizzanti, che seguivano il solo vangelo matteano, rifiutavano quello predicato da Paolo, che consideravano un apostata (cfr. Ireneo, “Contro gli eretici” 1, 26). Secondo Eusebio di Cesarea (Storia Eccl. III 27), le sette giudaico-cristiane, che seguivano il “Vangelo secondo gli Ebrei” (forse si tratta dell’originale Vangelo di Matteo scritto in aramaico), rifiutavano tutte le lettere dell’apostata Paolo.




LETTERE DI GIOVANNI



Delle tre lettere attribuite dalla tradizione all’apostolo Giovanni (databili tra gli anni 90-100), la prima (che esprime il pensiero d’alcuni discepoli di scuola giovannea, giacché l’autore s’identifica con un “noi”, un plurale che vuole presumere l’appartenenza a un’autorevole tradizione), destinata a una comunità pagana dell’Asia Minore, convertita al cristianesimo, espone un discorso teologico in cui si dibattono alcuni temi riguardanti la fede. Essa ha lo scopo d’istruire la comunità sulla conoscenza del mistero divino, mettendola in guardia dall’erronea cristologia di pseudo-profeti, avanguardia degli anticristi. Questo è il segno, secondo l’autore, che l’ultima ora è già venuta. Egli testimonia la voce udita da alcuni apostoli sul monte della trasfigurazione, dove Dio Padre proclama la divinità del Cristo Gesù. L’autore ammonisce a non affezionarsi alle cose terrene, perché chi ama queste, non ama Dio, l’amore del quale è eterno e non transeunte come quello del mondo (Dio, dunque, non gradisce che si ami il mondo e le cose del mondo). Il sacrificio di Cristo è servito (quindi, è stato necessario) per espiare i peccati di tutti gli uomini (ma solo di coloro che accettano di uscire dalle tenebre del mondo, secondo il Vangelo giovanneo; cfr. Gv 17, 9). Solo chi ha fede e crede in Gesù, Figlio di un Dio che nessuno ha mai visto, vince il mondo governato dal maligno. Di Gesù hanno dato testimonianza lo spirito del Padre, il sangue versato dal Figlio, la grazia profusa dallo Spirito Santo con l’acqua battesimale (che non è ancora la dottrina della Trinità, cioè dei tre modi di essere dell’unico Dio). Chi nega il Padre e il Figlio è l’anticristo (1 Gv 2, 22), il menzognero calunniatore (Ap 12, 10), che non crede alla verità, bensì all’iniquità (2 Ts 2, 3-12).

La seconda e la terza lettera giovannea sono scritti anonimi, in quanto l’autore si definisce solamente come presbitero. La seconda è destinata ad una comunità di fedeli (non specificata), che è messa in guardia dai seduttori gnostici, maestri d’errori e strumenti di Satana. Questi anticristi non ammettono l’incarnazione di Cristo, perciò non vanno ascoltati. La terza lettera ha come ricevente un certo Gaio, elogiato per la generosità con cui accoglie i missionari itineranti. Parole di rimprovero, invece, sono rivolte all’episcopo (vescovo) della comunità di cui fa parte Gaio, perché, oltre a non accogliere i suddetti missionari, ha espulso dalla comunità coloro che li accoglievano e li ospitavano.




LETTERA DI GIUDA


La lettera attribuita a Giuda, servo di Cristo Gesù e fratello di Giacomo, è d’incerta identificazione (forse fu redatta da un maestro giudeo-cristiano, discepolo dell’apostolo Giuda, tra gli anni 70-100). Essa è destinata a una comunità anonima allo scopo di difenderla dalla minaccia di falsi maestri: eretici che si sono infiltrati nella comunità, partecipando ai banchetti liturgici (agape). Costoro sono accusati d’empietà e d’immoralità, in quanto vivono nella dissolutezza, in preda al delirio di una dottrina che rinnega Cristo e fomenta discordie. L’arrivo di anticristi negli ultimi tempi (creduti imminenti) era stata già preannunciata dagli apostoli. L’asprezza polemica contro i maestri di errori si avvale anche di citazioni riprese dagli scritti apocrifi giudaici (Testamento dei Dodici Patriarchi, Assunzione di Mosè, libro di Enoch, ecc.). L’epistola si conclude con una lode a Dio, secondo uno schema dossologico, usuale nella liturgia, tipico delle benedizioni bibliche. Possiamo escludere che l’autore della lettera sia l’apostolo Giuda Iscariota, il traditore, o l’altro apostolo omonimo, figlio di Giacomo (Lc 6, 16; At 1, 13). Non è chiaro se la fratellanza sia da intendere in senso fisico o solo nella fede. Si dubita che possa essere identificato come fratello di Gesù e di Giacomo (Mc 6, 3, Mt 13, 55), dato che i fratelli di Gesù non credevano in lui (Gv 7, 5). Incerta è l’identificazione del nome Giacomo, poiché così sono chiamati sia due apostoli, di cui uno è il figlio di Zebedeo, l’altro è il figlio di Alfeo, sia quel Giacomo detto il Minore (Mc 15, 40), sia quell’altro Giacomo, responsabile della Chiesa di Gerusalemme, soprannominato il Giusto (At 12, 17; 15, 13).


 Lucio Apulo Daunio



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