LETTERA DI
PAOLO AI ROMANI
Nella
lettera dottrinale (databile all’anno 58) alla “chiesa” di Roma (cioè alla
comunità, “ekklesiéa”, di giudei e pagani convertiti al cristianesimo),
Paolo esordisce con un’iperbole. Ringrazia Dio, tramite il Cristo Gesù (che -
dice Paolo - è venuto a esistenza secondo la natura umana dalla stirpe di
Davide ed è stato costituito Figlio di Dio secondo la natura spirituale dopo la
sua risurrezione dai morti), per la fama che i cristiani di Roma godono in tutto
il mondo. Si tratta evidentemente di un’esagerazione, stante l’esiguità dei
cristiani nella Roma imperiale di quei tempi. Contrariamente a quanto afferma
l’evangelista Giovanni, che in Gesù sono riunite due nature: quella umana e
quella divina, Paolo sostiene che Gesù ha la sola natura umana (oltre i doni
ricevuti dallo Spirito Santo con il battesimo), mentre la natura divina la
riacquista con la risurrezione e l’ascensione in cielo. L’uomo Gesù dunque,
secondo Paolo, è differente dal Cristo celeste.
Dopo i
convenevoli dell’esordio, Paolo, servo di Cristo, espone la sua tesi generale:
la giustificazione si attua mediante la fede in Cristo Gesù, senza l’osservanza
delle opere prescritte dalla legge mosaica. Si è giustificati, dunque,
solamente se si vive in equilibrio con il vangelo annunciato da Gesù. Il
vangelo, infatti, è potenza di Dio per la salvezza del credente. Nessun giusto
- dice Paolo - esiste davanti a Dio. Tutti gli uomini, che siano giudei o
pagani, hanno peccato: gli uni, ancorché consapevoli degli interventi di Dio e
del suo amore a favore del popolo eletto, perché non hanno agito in
conseguenza; gli altri, pur essendo affascinati dalla grandezza del creato,
perché non hanno riconosciuto il Creatore con i loro vuoti ragionamenti (Sp 13,
1-9). Tutto il mondo, perciò, si trova sotto il castigo di Dio. Tuttavia, in
virtù della sua azione salvifica nei confronti dell’umanità peccatrice,
compiuta tramite il sacrificio del Cristo Gesù, l’umanità può riconciliarsi con
Dio (paradosso del vanto cristiano!). L’uomo, giudeo o pagano, nella concezione
teologica paolina, è condannato dalla sua natura al peccato. Egli con le sue
sole forze non può ottenere la salvezza, perché non è in grado di ubbidire alla
legge divina, mosaica o naturale che sia. Dunque, è necessario l’intervento di
Dio: la grazia, mediante la quale l’uomo è redento. La redenzione, quindi, si
attua per mezzo della fede e della grazia, accogliendo il messaggio di
salvezza, non con l’ossessiva osservanza delle opere prescritte dalla legge
mosaica. Sarebbe dunque inutile limitarsi a seguire pedissequamente le
prescrizioni rituali e morali della legge.
In verità,
le prescrizioni mosaiche, svalutate dalla dogmatica paolina, erano state
comandate da Jahvè e sancite come perenni, immodificabili, perentorie, non trasgredibili,
pena la maledizione divina (Es 12, 14-15, Dt 4, 2; 27, 26). Paolo, invece,
ritiene sufficiente che l’uomo abbia fede nella morte e resurrezione di Cristo
e si converta al suo messaggio salvifico per meritare la giustificazione di
Dio. Da essa riceverà una nuova vita, una rinascita spirituale santificante
(palingenesi), che gli darà la forza per adempiere la nuova legge di Cristo
(concepito come Adamo redivivo, avente funzione inversa al primo). Il credente
deve accettare con fede il mistero e la dottrina di Cristo; deve essere
remissivo e obbedire alla disciplina della Chiesa, cui è stato svelato il piano
misterioso di Dio, taciuto nei secoli precedenti. Oggetto della fede, dunque, è
la parola di Dio, testimoniata dal Cristo Gesù, trascritta nelle Sacre
Scritture su ispirazione dello Spirito Santo. Al concetto di Adamo redivivo, è
stato in seguito affiancato quello di Eva rediviva: Maria, che dando ascolto
all’angelo, generò Gesù, che ha liberato l’uomo dalla morte, a differenza della
prima Eva, che diede ascolto al demonio, generando disubbidienza e morte. La
speranza di Paolo, di una rinascita spirituale dell’umanità, è stata
vanificata, come testimoniano duemila anni di cristianesimo criminale.
La
violazione dell’ordine morale, il peccato, è una conseguenza della natura
dell’uomo, della condanna alla morte perpetua, ereditata dalla colpa di Adamo
(di qui prende avvio la concezione agostiniana del “peccato originale” e
dell’ereditarietà legata a una colpa). Non solo Adamo, ma tutti gli uomini -
dice Paolo - sono colpevoli. La debolezza umana è responsabile della
trasgressione sia della legge data da Dio a Mosè (per quanto riguarda gli
ebrei) sia della legge naturale, comune a tutti gli uomini. L’uomo non ha
dunque la forza per essere giusto, ossia in armonia con la norma morale. Questa
forza può provenire soltanto dalla fede in Cristo, dal quale l’uomo, iniziato
ai misteri cristiani, è giustificato (cioè assolto dalla colpa), giacché riceve
la forza per resistere alla debolezza della sua natura, conformandosi alla
norma divina (cioè vivendo nello stato di grazia). Questa norma non è più
quella della legge mosaica, bensì quella perfezionata da Gesù. Dunque, non
sarebbero più applicabili ai cristiani, rei di trasgressione della legge
mosaica, le pene da scontare nell’aldiquà, correlate alle maledizioni di Jahvè.
Solamente chi non si pente dei peccati commessi, violando i precetti cristiani,
sarà condannato nell’aldilà all’eterna sofferenza delle pene nell’inferno.
Paolo è
tormentato dalla sua “carne”, incontrollabile, che lo rende schiavo del peccato
(soprattutto di concupiscenza e di sensualità erotica). In essa non abita il
bene, ma il male. Chi potrà mai liberarlo dal corpo peccaminoso? Semplice!
L’intervento salvifico di Cristo, che lo aiuta a mortificare la “carne” e a
vivere secondo lo Spirito, in intimità con chi solamente può donare la speranza
della vita eterna.
Dio, secondo
la fede cristiana, si è incarnato in Gesù, un uomo al pari degli altri, che si
fa battezzare per ricevere i doni dello Spirito Santo, avendo rinunciato a ogni
attributo divino. Egli, dopo la risurrezione dalla morte, recuperando i suoi
attributi divini, è costituito Figlio di Dio (diversa opinione, come già detto,
ha l’evangelista Giovanni, secondo il quale in Gesù sono riunite entrambe le
nature, umana e divina). La missione di Gesù sulla terra consiste nel liberare
(perdonare) gli uomini dai loro peccati, nefanda conseguenza della
trasgressione di Adamo ed Eva all’ordine imposto da Dio (assurda
responsabilità, ereditaria e collettiva, della colpa personale altrui). Se a
causa della disubbidienza dei primi avi il peccato è entrato nel mondo, e con
esso anche la morte, ora, in virtù dell’obbedienza di Gesù alla volontà del
Padre, l’uomo può beneficiare del dono della vita eterna mediante il battesimo,
che libera dal peccato originale e dalla morte eterna. Agostino esulterà per
questa (assurda) “felice colpa”, meritevole di cotanto Salvatore. Così, questo
strano dio cristiano, che ha consentito a Satana di dominare l’uomo, abbandonandolo
con la sua discendenza al castigo di una vita di sofferenze, ora, bontà sua, si
presenta come salvatore e misericordioso nella persona del Figlio Messia. Dio,
tuttavia, è libero nel concedere o meno la sua misericordia. La speranza di
essere meritevoli della grazia divina è una virtù teologale cristiana, come la
fede e l’amore caritatevole.
Nel libro
“Genesi” dell’A.T., si attesta che solo l’Essere (entità divina) esiste e che
la realtà è una creazione dal nulla attuata dall’Essere. Dalla materia del
creato Dio ha formato l’uomo, donandogli l’alito di vita. Per Paolo, la ragion
d’essere di tutte le cose è Dio. Il cosmo, secondo la scienza, che si avvale
del calcolo matematico e dell’osservazione sperimentale, non è una creazione
dal nulla voluta da un Essere trascendente, ma, verosimilmente, il prodotto
derivante da un caos originario esistente indipendentemente da supposte
divinità. La materia dell’universo è in continua trasformazione ed espansione
nella dimensione spazio-tempo (secondo l’accreditata teoria della grande
esplosione o big bang). In “Isaia” (Is 45, 5-7) si proclama che Dio è l’autore
d’ogni cosa, persino del male. Satana, personificazione del male, è stato
concepito come angelo ribelle alla divina volontà. Dio, incredibilmente, gli
assegna il principato sulla terra (Gv 12, 31), nominandolo suo emissario con
l’incarico di indurre in tentazione gli uomini, ai quali tuttavia insegna come
pregarlo, affinché li liberi dal male. Satana, infatti, nella visione di Paolo,
sarà presto schiacciato dal Dio della pace sotto i piedi dei fedeli in Cristo
Gesù (Rm 16, 20). La spiegazione dell’origine divina del male, della
conseguente sofferenza degli uomini per una colpa degli avi, della successiva
incarnazione di un dio come rimedio per la salvezza dell’uomo nell’atro mondo,
sono concezioni che offendono l’intelligenza umana che non ragiona con il metro
della fede. La mitica colpa descritta in “Genesi”, causa della caduta dell’uomo
da un originario stato di perfezione, non può essere ereditaria, perché la
responsabilità dell’uomo è personale e dipende, in parte, dalla sua volontà,
per il resto da condizionamenti storicamente determinati dal suo essere nel
mondo. Assurda è la concezione della trasmissione della colpa degli avi ai
discendenti. Jahvè, dio dell’A.T., puniva le colpe dei padri fino alla quarta
generazione. Gesù, invece, demanda l’espiazione delle colpe di tutte le
generazioni nell’aldilà, esortando gli uomini nell’aldiquà a convertirsi a una
nuova vita, conforme al suo modello etico. Ciò che non spiega è perché fin da
principio il suo alter-ego, Dio-Padre, ebbe cura solamente degli ebrei, a
scapito degli altri popoli.
Nella parte
finale della lettera, Paolo si sofferma a esortare i cristiani di Roma,
invitandoli alla moderazione, al reciproco amore fraterno (agape),
all’amichevole accoglienza nella comunità anche di chi è debole nella fede,
all’osservanza dei comandamenti di Dio. Prosegue, esortandoli a rifuggire dai
vizi (come l’ubriachezza), dalle dissolutezze di natura sessuale (condanna
dell’omosessualità maschile e femminile), dalle orge (spesso legate ai culti
dionisiaci), dalle risse (conseguenti a discordie e gelosie). Provvede altresì
a consolare la comunità con la speranza dell’attesa escatologica: la parusia
del giorno del Signore, il suo ritorno nella gloria, creduta imminente. Invita
alla sottomissione verso le autorità civili precostituite, in base all’assunto
che ogni autorità è legittimata da Dio (visione teocratica). Chi si ribella
all’autorità, sostiene Paolo, si contrappone a un ordine stabilito da Dio (Rm
13, 2), perciò ne subisce le conseguenze punitive dall’una e dall’altro. Gesù
stesso si sottomise al potere di Pilato, da cui fu condannato a morire sulla
croce, perché tale potere gli era stato concesso dall’alto (Gv 19, 10-11).
Sembra
quindi che nella concezione di Paolo vi sia una stretta relazione fra
l’autorità civile e Dio (piuttosto che una netta distinzione tra i due poteri,
come nel contesto evangelico marciano; cfr. Mc 12, 17). Ne consegue che chi si
ribella alle autorità civili si contrappone a un ordine stabilito da Dio. Da
ciò risulterebbe che la legge civile va comunque osservata, anche se appare in
contrasto con i precetti etici o non si concilia con i principi del
cristianesimo, statuiti dalla Chiesa docente. Ciò però implicherebbe una netta
indipendenza tra i due poteri, quello politico e quello spirituale. L’autonomia
del potere politico, tuttavia, non può essere assoluta e indipendente dal
rispetto di principi etici. La storia, in verità, è testimone della collusione
tra cristianesimo e autorità civile, cui era demandato il compito di preservare
la fede con la conseguenza che il dissenso religioso era equiparato
all’indisciplina civica.
Si discute
sull’autenticità del capitolo 15, l’ultimo della lettera, che alcuni studiosi
datano al II secolo, sulla base di manoscritti brevi di quel periodo,
terminanti in 14,23.
LUCIO APULO DAUNIO
Nessun commento:
Posta un commento