venerdì 4 novembre 2011


LETTERA DI PAOLO AI ROMANI



Nella lettera dottrinale (databile all’anno 58) alla “chiesa” di Roma (cioè alla comunità, “ekklesiéa”, di giudei e pagani convertiti al cristianesimo), Paolo esordisce con un’iperbole. Ringrazia Dio, tramite il Cristo Gesù (che - dice Paolo - è venuto a esistenza secondo la natura umana dalla stirpe di Davide ed è stato costituito Figlio di Dio secondo la natura spirituale dopo la sua risurrezione dai morti), per la fama che i cristiani di Roma godono in tutto il mondo. Si tratta evidentemente di un’esagerazione, stante l’esiguità dei cristiani nella Roma imperiale di quei tempi. Contrariamente a quanto afferma l’evangelista Giovanni, che in Gesù sono riunite due nature: quella umana e quella divina, Paolo sostiene che Gesù ha la sola natura umana (oltre i doni ricevuti dallo Spirito Santo con il battesimo), mentre la natura divina la riacquista con la risurrezione e l’ascensione in cielo. L’uomo Gesù dunque, secondo Paolo, è differente dal Cristo celeste.

Dopo i convenevoli dell’esordio, Paolo, servo di Cristo, espone la sua tesi generale: la giustificazione si attua mediante la fede in Cristo Gesù, senza l’osservanza delle opere prescritte dalla legge mosaica. Si è giustificati, dunque, solamente se si vive in equilibrio con il vangelo annunciato da Gesù. Il vangelo, infatti, è potenza di Dio per la salvezza del credente. Nessun giusto - dice Paolo - esiste davanti a Dio. Tutti gli uomini, che siano giudei o pagani, hanno peccato: gli uni, ancorché consapevoli degli interventi di Dio e del suo amore a favore del popolo eletto, perché non hanno agito in conseguenza; gli altri, pur essendo affascinati dalla grandezza del creato, perché non hanno riconosciuto il Creatore con i loro vuoti ragionamenti (Sp 13, 1-9). Tutto il mondo, perciò, si trova sotto il castigo di Dio. Tuttavia, in virtù della sua azione salvifica nei confronti dell’umanità peccatrice, compiuta tramite il sacrificio del Cristo Gesù, l’umanità può riconciliarsi con Dio (paradosso del vanto cristiano!). L’uomo, giudeo o pagano, nella concezione teologica paolina, è condannato dalla sua natura al peccato. Egli con le sue sole forze non può ottenere la salvezza, perché non è in grado di ubbidire alla legge divina, mosaica o naturale che sia. Dunque, è necessario l’intervento di Dio: la grazia, mediante la quale l’uomo è redento. La redenzione, quindi, si attua per mezzo della fede e della grazia, accogliendo il messaggio di salvezza, non con l’ossessiva osservanza delle opere prescritte dalla legge mosaica. Sarebbe dunque inutile limitarsi a seguire pedissequamente le prescrizioni rituali e morali della legge.

In verità, le prescrizioni mosaiche, svalutate dalla dogmatica paolina, erano state comandate da Jahvè e sancite come perenni, immodificabili, perentorie, non trasgredibili, pena la maledizione divina (Es 12, 14-15, Dt 4, 2; 27, 26). Paolo, invece, ritiene sufficiente che l’uomo abbia fede nella morte e resurrezione di Cristo e si converta al suo messaggio salvifico per meritare la giustificazione di Dio. Da essa riceverà una nuova vita, una rinascita spirituale santificante (palingenesi), che gli darà la forza per adempiere la nuova legge di Cristo (concepito come Adamo redivivo, avente funzione inversa al primo). Il credente deve accettare con fede il mistero e la dottrina di Cristo; deve essere remissivo e obbedire alla disciplina della Chiesa, cui è stato svelato il piano misterioso di Dio, taciuto nei secoli precedenti. Oggetto della fede, dunque, è la parola di Dio, testimoniata dal Cristo Gesù, trascritta nelle Sacre Scritture su ispirazione dello Spirito Santo. Al concetto di Adamo redivivo, è stato in seguito affiancato quello di Eva rediviva: Maria, che dando ascolto all’angelo, generò Gesù, che ha liberato l’uomo dalla morte, a differenza della prima Eva, che diede ascolto al demonio, generando disubbidienza e morte. La speranza di Paolo, di una rinascita spirituale dell’umanità, è stata vanificata, come testimoniano duemila anni di cristianesimo criminale.

La violazione dell’ordine morale, il peccato, è una conseguenza della natura dell’uomo, della condanna alla morte perpetua, ereditata dalla colpa di Adamo (di qui prende avvio la concezione agostiniana del “peccato originale” e dell’ereditarietà legata a una colpa). Non solo Adamo, ma tutti gli uomini - dice Paolo - sono colpevoli. La debolezza umana è responsabile della trasgressione sia della legge data da Dio a Mosè (per quanto riguarda gli ebrei) sia della legge naturale, comune a tutti gli uomini. L’uomo non ha dunque la forza per essere giusto, ossia in armonia con la norma morale. Questa forza può provenire soltanto dalla fede in Cristo, dal quale l’uomo, iniziato ai misteri cristiani, è giustificato (cioè assolto dalla colpa), giacché riceve la forza per resistere alla debolezza della sua natura, conformandosi alla norma divina (cioè vivendo nello stato di grazia). Questa norma non è più quella della legge mosaica, bensì quella perfezionata da Gesù. Dunque, non sarebbero più applicabili ai cristiani, rei di trasgressione della legge mosaica, le pene da scontare nell’aldiquà, correlate alle maledizioni di Jahvè. Solamente chi non si pente dei peccati commessi, violando i precetti cristiani, sarà condannato nell’aldilà all’eterna sofferenza delle pene nell’inferno.

Paolo è tormentato dalla sua “carne”, incontrollabile, che lo rende schiavo del peccato (soprattutto di concupiscenza e di sensualità erotica). In essa non abita il bene, ma il male. Chi potrà mai liberarlo dal corpo peccaminoso? Semplice! L’intervento salvifico di Cristo, che lo aiuta a mortificare la “carne” e a vivere secondo lo Spirito, in intimità con chi solamente può donare la speranza della vita eterna.

Dio, secondo la fede cristiana, si è incarnato in Gesù, un uomo al pari degli altri, che si fa battezzare per ricevere i doni dello Spirito Santo, avendo rinunciato a ogni attributo divino. Egli, dopo la risurrezione dalla morte, recuperando i suoi attributi divini, è costituito Figlio di Dio (diversa opinione, come già detto, ha l’evangelista Giovanni, secondo il quale in Gesù sono riunite entrambe le nature, umana e divina). La missione di Gesù sulla terra consiste nel liberare (perdonare) gli uomini dai loro peccati, nefanda conseguenza della trasgressione di Adamo ed Eva all’ordine imposto da Dio (assurda responsabilità, ereditaria e collettiva, della colpa personale altrui). Se a causa della disubbidienza dei primi avi il peccato è entrato nel mondo, e con esso anche la morte, ora, in virtù dell’obbedienza di Gesù alla volontà del Padre, l’uomo può beneficiare del dono della vita eterna mediante il battesimo, che libera dal peccato originale e dalla morte eterna. Agostino esulterà per questa (assurda) “felice colpa”, meritevole di cotanto Salvatore. Così, questo strano dio cristiano, che ha consentito a Satana di dominare l’uomo, abbandonandolo con la sua discendenza al castigo di una vita di sofferenze, ora, bontà sua, si presenta come salvatore e misericordioso nella persona del Figlio Messia. Dio, tuttavia, è libero nel concedere o meno la sua misericordia. La speranza di essere meritevoli della grazia divina è una virtù teologale cristiana, come la fede e l’amore caritatevole.

Nel libro “Genesi” dell’A.T., si attesta che solo l’Essere (entità divina) esiste e che la realtà è una creazione dal nulla attuata dall’Essere. Dalla materia del creato Dio ha formato l’uomo, donandogli l’alito di vita. Per Paolo, la ragion d’essere di tutte le cose è Dio. Il cosmo, secondo la scienza, che si avvale del calcolo matematico e dell’osservazione sperimentale, non è una creazione dal nulla voluta da un Essere trascendente, ma, verosimilmente, il prodotto derivante da un caos originario esistente indipendentemente da supposte divinità. La materia dell’universo è in continua trasformazione ed espansione nella dimensione spazio-tempo (secondo l’accreditata teoria della grande esplosione o big bang). In “Isaia” (Is 45, 5-7) si proclama che Dio è l’autore d’ogni cosa, persino del male. Satana, personificazione del male, è stato concepito come angelo ribelle alla divina volontà. Dio, incredibilmente, gli assegna il principato sulla terra (Gv 12, 31), nominandolo suo emissario con l’incarico di indurre in tentazione gli uomini, ai quali tuttavia insegna come pregarlo, affinché li liberi dal male. Satana, infatti, nella visione di Paolo, sarà presto schiacciato dal Dio della pace sotto i piedi dei fedeli in Cristo Gesù (Rm 16, 20). La spiegazione dell’origine divina del male, della conseguente sofferenza degli uomini per una colpa degli avi, della successiva incarnazione di un dio come rimedio per la salvezza dell’uomo nell’atro mondo, sono concezioni che offendono l’intelligenza umana che non ragiona con il metro della fede. La mitica colpa descritta in “Genesi”, causa della caduta dell’uomo da un originario stato di perfezione, non può essere ereditaria, perché la responsabilità dell’uomo è personale e dipende, in parte, dalla sua volontà, per il resto da condizionamenti storicamente determinati dal suo essere nel mondo. Assurda è la concezione della trasmissione della colpa degli avi ai discendenti. Jahvè, dio dell’A.T., puniva le colpe dei padri fino alla quarta generazione. Gesù, invece, demanda l’espiazione delle colpe di tutte le generazioni nell’aldilà, esortando gli uomini nell’aldiquà a convertirsi a una nuova vita, conforme al suo modello etico. Ciò che non spiega è perché fin da principio il suo alter-ego, Dio-Padre, ebbe cura solamente degli ebrei, a scapito degli altri popoli.

Nella parte finale della lettera, Paolo si sofferma a esortare i cristiani di Roma, invitandoli alla moderazione, al reciproco amore fraterno (agape), all’amichevole accoglienza nella comunità anche di chi è debole nella fede, all’osservanza dei comandamenti di Dio. Prosegue, esortandoli a rifuggire dai vizi (come l’ubriachezza), dalle dissolutezze di natura sessuale (condanna dell’omosessualità maschile e femminile), dalle orge (spesso legate ai culti dionisiaci), dalle risse (conseguenti a discordie e gelosie). Provvede altresì a consolare la comunità con la speranza dell’attesa escatologica: la parusia del giorno del Signore, il suo ritorno nella gloria, creduta imminente. Invita alla sottomissione verso le autorità civili precostituite, in base all’assunto che ogni autorità è legittimata da Dio (visione teocratica). Chi si ribella all’autorità, sostiene Paolo, si contrappone a un ordine stabilito da Dio (Rm 13, 2), perciò ne subisce le conseguenze punitive dall’una e dall’altro. Gesù stesso si sottomise al potere di Pilato, da cui fu condannato a morire sulla croce, perché tale potere gli era stato concesso dall’alto (Gv 19, 10-11).

Sembra quindi che nella concezione di Paolo vi sia una stretta relazione fra l’autorità civile e Dio (piuttosto che una netta distinzione tra i due poteri, come nel contesto evangelico marciano; cfr. Mc 12, 17). Ne consegue che chi si ribella alle autorità civili si contrappone a un ordine stabilito da Dio. Da ciò risulterebbe che la legge civile va comunque osservata, anche se appare in contrasto con i precetti etici o non si concilia con i principi del cristianesimo, statuiti dalla Chiesa docente. Ciò però implicherebbe una netta indipendenza tra i due poteri, quello politico e quello spirituale. L’autonomia del potere politico, tuttavia, non può essere assoluta e indipendente dal rispetto di principi etici. La storia, in verità, è testimone della collusione tra cristianesimo e autorità civile, cui era demandato il compito di preservare la fede con la conseguenza che il dissenso religioso era equiparato all’indisciplina civica.

Si discute sull’autenticità del capitolo 15, l’ultimo della lettera, che alcuni studiosi datano al II secolo, sulla base di manoscritti brevi di quel periodo, terminanti in 14,23.


LUCIO APULO DAUNIO


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