LETTERA AGLI
EBREI
Agli Ebrei, convertiti al
cristianesimo, è indirizzata l’ultima missiva di scuola paolina, assimilabile a
un’omelia. Redatta (intorno agli anni 70) in conformità alle regole della
retorica, secondo lo stile c.d. “rodiano” (una sintesi tra lo stile barocco
degli oratori “asiani” e quello classico degli “atticisti”), è finalizzata alla
persuasione. L’autore è sconosciuto. Forse, è un discepolo degli apostoli, di
buona formazione culturale (ellenistica) e teologica. Egli consola la comunità
che è stata oggetto di persecuzione, esortandola a perseverare nella fede.
Annuncia il sacerdozio eterno di Cristo, secondo l’ordine non trasmissibile di
Melchisedech (che non è stato costituito secondo la Legge ed è superiore al sacerdozio
levitico). Gesù, infatti, ha sacrificato se stesso sull’altare del mondo per la
salvezza dei credenti una volta per tutte, abolendo il rituale ebraico
dell’offerta di vittime in espiazione dei peccati. Il suo efficace olocausto
espiatorio (rispetto ai sacrifici della precedente tradizione) è irripetibile
(dunque è incongruo ripeterlo simbolicamente nella celebrazione quotidiana
della messa). L’antica alleanza, fondata sul rituale del culto e sulle norme di
purità, è stata sostituita con la nuova alleanza, fondata sul sacrificio
espiatorio di Cristo (e con il formalismo rituale liturgico cattolico). Il
sangue di Cristo, sommo sacerdote che sacrifica se stesso, ha surrogato il
sangue delle vittime dell’antico rituale (Lv 23, 27-32, Nm 29, 7-11). Il sacerdozio
levitico e i relativi riti sono abrogati, perché inefficaci ai fini della
salvezza (salvo i nuovi riti decretati dalla Chiesa trionfante). Tutto il
precedente ordinamento (la legge mosaica e la sua morale), essendo pervenuto a
perfezione con il messaggio salvifico di Cristo, giudicato superiore a Mosè (Eb
3, 3), è abrogato e sostituito dal Vangelo (di contrario avviso è l’evangelista
Giovanni, cfr. 10,35, laddove rileva che la Scrittura non si può abolire).
Cristo, neo-sacerdote, ha sacrificato se stesso in espiazione dei peccati degli
uomini. Nel tempo antico, Dio progettò di vivere in mezzo al suo prescelto
popolo (Lv 26, 12; Gr 30, 22), generato da Abramo e Sara (Gn 17), cui concesse
di avere in tarda età il figlio Isacco (Ismaele, il figlio primogenito che il
poligamo Abramo ebbe congiungendosi con la schiava di Sara, non fu meritevole
agli occhi di Dio di appartenere al suo eletto popolo). Per istruire il suo
amato popolo, Dio si servì dei profeti (Eb 1, 1 seg.). Ora, invece, parla a un
nuovo popolo per mezzo del Figlio, che ha elevato sopra gli angeli e mandato in
missione sulla terra. E’ un figlio obbediente, fedele, remissivo, disposto al
sacrificio di se stesso per espiare i peccati degli uomini. Egli è divenuto
perfetto attraverso la sofferenza (dunque non aveva tutti gli attributi
divini), perciò ha la capacità di soccorrere quelli che soffrono. Il cristiano
deve perseverare nella fede, che è sia garante dei beni celesti, che si
sperano, sia certezza di realtà invisibili. Queste affermazioni, in verità,
appaiono paradossali, poiché fondate sulla certezza di una credenza (pìstis)
che è speranza di cose invisibili. Dante, infatti, nel “Paradiso” (XXIV, 64-65)
definirà la fede “sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi”.
L’autore esorta a non disertare le riunioni liturgiche, essendo imminente il
giorno dell’ira del Dio vivente. Il cristiano inoltre, conclude l’autore
dell’epistola, deve evitare di apostatare, perché non ci sarà più un altro
Cristo, prono al sacrificio per espiare i peccati commessi dagli uomini contro
la Maestà divina e ottenerne il perdono.
L’autore
della lettera avverte: senza la fede non si è graditi a Dio. Solamente chi
crede in lui sarà ricompensato (Eb 11,6). Chi poi sarà giudicato reo di aver
calpestato Gesù, Figlio di Dio, e di aver oltraggiato lo Spirito della grazia,
meriterà un castigo maggiore di quello che la legge mosaica riserva agli
inadempienti, cioè la condanna a morte sulla base della testimonianza di due o
tre persone (Eb 10,28; Dt 19, 15-20). Nel dettare la legge a Mosè, dunque, Dio
si dimentica del quinto comandamento, che vieta di uccidere? Giammai! Il
divieto di uccidere riguarda solamente innocenti e giusti (Es 23,7), non chi è
giudicato colpevole (tesi confermata dal Catechismo della Chiesa cattolica al
punto 2267). Nel concetto di colpevolezza Dio contempla ampie fattispecie;
tuttavia, quanto ordina al suo amato popolo di sterminare i nemici d’Israele,
include anche innocenti e giusti (Lv 27, 28 seg.; Nm 21, 2-3; Dt 7, 1-6.16; 20,
10-18; Gs 6, 17-21; 8, 22-24; 10, 28-42 e sim.; 1 Sm 15,2; 22,19). Per favorire
l’esodo di Mosè dall’Egitto, castiga gli Egiziani e uccide persino i loro
primogeniti (Es 12,12). Con il diluvio universale affoga tutta l’umanità, salvo
alcuni suoi protetti (Gn 6,17). Queste e altre bibliche nefandezze testimoniano
che Dio non è migliore dell’uomo.
Lucio Apulo Daunio
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