venerdì 11 novembre 2011


LETTERA AGLI EBREI

             
          Agli Ebrei, convertiti al cristianesimo, è indirizzata l’ultima missiva di scuola paolina, assimilabile a un’omelia. Redatta (intorno agli anni 70) in conformità alle regole della retorica, secondo lo stile c.d. “rodiano” (una sintesi tra lo stile barocco degli oratori “asiani” e quello classico degli “atticisti”), è finalizzata alla persuasione. L’autore è sconosciuto. Forse, è un discepolo degli apostoli, di buona formazione culturale (ellenistica) e teologica. Egli consola la comunità che è stata oggetto di persecuzione, esortandola a perseverare nella fede. Annuncia il sacerdozio eterno di Cristo, secondo l’ordine non trasmissibile di Melchisedech (che non è stato costituito secondo la Legge ed è superiore al sacerdozio levitico). Gesù, infatti, ha sacrificato se stesso sull’altare del mondo per la salvezza dei credenti una volta per tutte, abolendo il rituale ebraico dell’offerta di vittime in espiazione dei peccati. Il suo efficace olocausto espiatorio (rispetto ai sacrifici della precedente tradizione) è irripetibile (dunque è incongruo ripeterlo simbolicamente nella celebrazione quotidiana della messa). L’antica alleanza, fondata sul rituale del culto e sulle norme di purità, è stata sostituita con la nuova alleanza, fondata sul sacrificio espiatorio di Cristo (e con il formalismo rituale liturgico cattolico). Il sangue di Cristo, sommo sacerdote che sacrifica se stesso, ha surrogato il sangue delle vittime dell’antico rituale (Lv 23, 27-32, Nm 29, 7-11). Il sacerdozio levitico e i relativi riti sono abrogati, perché inefficaci ai fini della salvezza (salvo i nuovi riti decretati dalla Chiesa trionfante). Tutto il precedente ordinamento (la legge mosaica e la sua morale), essendo pervenuto a perfezione con il messaggio salvifico di Cristo, giudicato superiore a Mosè (Eb 3, 3), è abrogato e sostituito dal Vangelo (di contrario avviso è l’evangelista Giovanni, cfr. 10,35, laddove rileva che la Scrittura non si può abolire). Cristo, neo-sacerdote, ha sacrificato se stesso in espiazione dei peccati degli uomini. Nel tempo antico, Dio progettò di vivere in mezzo al suo prescelto popolo (Lv 26, 12; Gr 30, 22), generato da Abramo e Sara (Gn 17), cui concesse di avere in tarda età il figlio Isacco (Ismaele, il figlio primogenito che il poligamo Abramo ebbe congiungendosi con la schiava di Sara, non fu meritevole agli occhi di Dio di appartenere al suo eletto popolo). Per istruire il suo amato popolo, Dio si servì dei profeti (Eb 1, 1 seg.). Ora, invece, parla a un nuovo popolo per mezzo del Figlio, che ha elevato sopra gli angeli e mandato in missione sulla terra. E’ un figlio obbediente, fedele, remissivo, disposto al sacrificio di se stesso per espiare i peccati degli uomini. Egli è divenuto perfetto attraverso la sofferenza (dunque non aveva tutti gli attributi divini), perciò ha la capacità di soccorrere quelli che soffrono. Il cristiano deve perseverare nella fede, che è sia garante dei beni celesti, che si sperano, sia certezza di realtà invisibili. Queste affermazioni, in verità, appaiono paradossali, poiché fondate sulla certezza di una credenza (pìstis) che è speranza di cose invisibili. Dante, infatti, nel “Paradiso” (XXIV, 64-65) definirà la fede “sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi”. L’autore esorta a non disertare le riunioni liturgiche, essendo imminente il giorno dell’ira del Dio vivente. Il cristiano inoltre, conclude l’autore dell’epistola, deve evitare di apostatare, perché non ci sarà più un altro Cristo, prono al sacrificio per espiare i peccati commessi dagli uomini contro la Maestà divina e ottenerne il perdono.

L’autore della lettera avverte: senza la fede non si è graditi a Dio. Solamente chi crede in lui sarà ricompensato (Eb 11,6). Chi poi sarà giudicato reo di aver calpestato Gesù, Figlio di Dio, e di aver oltraggiato lo Spirito della grazia, meriterà un castigo maggiore di quello che la legge mosaica riserva agli inadempienti, cioè la condanna a morte sulla base della testimonianza di due o tre persone (Eb 10,28; Dt 19, 15-20). Nel dettare la legge a Mosè, dunque, Dio si dimentica del quinto comandamento, che vieta di uccidere? Giammai! Il divieto di uccidere riguarda solamente innocenti e giusti (Es 23,7), non chi è giudicato colpevole (tesi confermata dal Catechismo della Chiesa cattolica al punto 2267). Nel concetto di colpevolezza Dio contempla ampie fattispecie; tuttavia, quanto ordina al suo amato popolo di sterminare i nemici d’Israele, include anche innocenti e giusti (Lv 27, 28 seg.; Nm 21, 2-3; Dt 7, 1-6.16; 20, 10-18; Gs 6, 17-21; 8, 22-24; 10, 28-42 e sim.; 1 Sm 15,2; 22,19). Per favorire l’esodo di Mosè dall’Egitto, castiga gli Egiziani e uccide persino i loro primogeniti (Es 12,12). Con il diluvio universale affoga tutta l’umanità, salvo alcuni suoi protetti (Gn 6,17). Queste e altre bibliche nefandezze testimoniano che Dio non è migliore dell’uomo.
       
                  
  Lucio Apulo Daunio
                  

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