LETTERE
PSEUDOEPIGRAFE PAOLINE
AGLI EFESINI
Questa, come
la seconda Lettera ai Tessalonicesi, la Lettera ai Colossesi e le Lettere
Pastorali, sono tutte da considerare pseudoepigrafe (cioè redatte da
collaboratori o discepoli di Paolo e a lui attribuite per conferirne autorità),
ancorché la tradizione le attribuisca interamente a Paolo. La lettera
ecclesiologica “agli Efesini” (così denominata perché ritrovata nella Chiesa
d’Efeso, in Asia Minore), scritta tra gli anni 60-62, durante la prigionia di
Paolo a Roma, ha come destinatari i santi fedeli in Cristo, senza ulteriore
specificazione. Efeso era un importante centro commerciale, avente un famoso
tempio, dedicato alla dea Artemide, che era considerato una delle sette
meraviglie del mondo. Fu distrutto e ricostruito più volte, fino alla
definitiva distruzione nel 401 e.v. da parte dei cristiani, guidati da Giovanni
Crisostomo. L’autore della Lettera agli Efesini si sofferma sul tema della via
della salvezza, conseguibile con la fede nella grazia divina (predestinazione).
Accogliendo il vangelo predicato da Paolo, il cristiano può concretare l’unione
con Cristo, capo della Chiesa e padrone dell’universo. Nella concezione di
Paolo, infatti, Gesù risorto domina dalla sommità dei cieli, assiso alla destra
del Padre. Davanti a Cristo non vi sono distinzioni tra padroni e servi, ma
ognuno riceverà la retribuzione (quando soggiornerà nel celeste impero di Dio)
in funzione del bene o del male che avrà fatto in terra. Nella vita terrena,
però, vale la sottomissione in tutto della donna all’uomo, dei figli ai
genitori, degli schiavi ai padroni. Gli schiavi cristiani, in particolare, devono
obbedire ai padroni con timore e rispetto, come lo stesso Gesù ubbidisce a Dio
Padre (cfr. 6,1seg). La salvezza, per Paolo, consiste nel liberarsi dalle
potenze malvagie, che dominano nei bassi e tenebrosi fondi del cosmo. Tale
scopo si consegue spogliandosi dell’uomo vecchio (il modo di vivere pagano) e
rivestendosi dell’uomo nuovo (cioè il vivere cristianamente). Il corpo della
Chiesa è l’armatura protettiva di Dio, l’egida con cui difendere i fedeli,
predestinati ad essere i suoi figli spirituali, dai dardi del maligno. L’autore
rivolge una preghiera al Dio del Signore nostro Gesù Cristo (qui pare che
l’autore dubiti della divinità di Gesù; cfr. Ef 1,17), affinché conceda alla
comunità i doni della sapienza e della comprensione del mistero divino. Dio ha
voluto estendere il suo progetto salvifico a tutti gli uomini, mediante il
Cristo Gesù, di cui Paolo si dichiara suo prigioniero. I divini misteri,
infatti, non furono svelati agli uomini nei tempi passati (qualcosa, però,
Jahvè rivelò a patriarchi e profeti appartenenti al suo popolo eletto).
Solamente con l’avvento di Cristo, lo Spirito di Dio ha comunicato l’arcano ai
santi della Chiesa, tramite apostoli e profeti (ma ha anche illuminato
visionari e sedicenti vicari del Cristo Re). Anche Paolo, il più piccolo di
tutti i santi, ha ricevuto la rivelazione del mistero divino e la grazia di
evangelizzare i pagani.
AI COLOSSESI
La missiva
alla Chiesa di Colosse (città della Frigia, nell’Asia Minore, divenuta
provincia romana), che si suppone scritta da Paolo durante gli anni della
prigionia (58-62), mette in guardia la comunità da chi insegna una filosofia di
salvezza (caratterizzata da un sincretismo religioso, ossia dalla fusione di
diverse culture). Questa filosofia si discosta dall’insegnamento degli
apostoli. Essa è fatuo inganno, che s’ispira alle tradizioni umane. E’
superstizione, che si contrappone all’autentica religione. E’ una filosofia che
si pone in contrasto con il Vangelo di Cristo: la misteriosa parola di Dio
finalmente rivelata e annunciata da Paolo alle genti in tutto il mondo. Solo
l’insegnamento di Cristo, Dio visibile, giacché immagine nella carne
dell’invisibile Dio, è vera sapienza. Il cristiano deve perciò vivere una nuova
vita in Cristo, il Dio risorto, spogliandosi del suo uomo vecchio, intriso di
vizi, sui quali piomba l’ira divina. Il redattore della lettera ritiene che i
Colossesi, essendo ormai rivestiti dell’uomo nuovo, in virtù della fede nella
potenza di Cristo, siano diventati gli eletti, i santi amati da Dio, che attendono
l’imminente parusia (il ritorno di Cristo) per essere anche loro rivestiti di
gloria (la discesa dal cielo di Gesù, a cavalcioni delle nubi, si attende
ancora; cfr. Mt 24,14.30; 26,64; 16,27). Essi, perciò, devono rifuggire i vizi
indotti dalla debolezza della “carne” e continuare a praticare le virtù
cristiane (che erano anche quelle della cultura pagana, anche se priva della
pretesa grazia divina). Riguardo ai rapporti interpersonali, l’autore comanda
alle donne di sottostare all’autorità dei mariti; ai figli, di obbedire
all’autorità dei genitori; agli schiavi, di obbedire ai loro padroni, che
devono servire con docilità e nel timore del Signore (cfr. Col 3,22 seg.). Gli
schiavi, in concreto, restando umilmente asserviti ai padroni della terra (Dio
lo vuole!), onorano il Signore. L’autore della lettera identifica Cristo con la
creazione (una sorta di panteismo?). In lui - afferma - sono racchiusi tutti i
tesori della sapienza e della conoscenza (contrariamente in Mt 24, 36 e in Mc
13, 32, dove la conoscenza di Gesù appare lacunosa).
LETTERE
PASTORALI
A TIMOTEO
Fanno parte
della raccolta epistolare paolina tre lettere pastorali, così denominate perché
dirette a dei capi di comunità (due indirizzate a Timoteo, una a Tito), che la tradizione
attribuisce a Paolo (ma che la critica testuale le ritiene di scuola paolina e
databili verso la fine del I sec.). Paolo, apostolo di Cristo per comando di
Dio, invia dalla Macedonia al discepolo prediletto Timoteo, una lettera con cui
lo esorta a vigilare sull’ortodossia della fede, a guardarsi dai falsi dottori
e dalle loro fantasiose speculazioni, ad attingere sapienza dalla lettura delle
Sacre Scritture, che tutte e in tutto sono ispirate da Dio (su questa credenza
si fonda l’interpretazione mistico-spirituale della Bibbia). La legge mosaica,
su cui insistono quei falsi dottori – dice l’autore - non è stata istituita per
i giusti, ma per combattere il male delle persone inique. Con la venuta di
Cristo, unico mediatore fra Dio e gli uomini, vige una nuova legge: quella che
lui ha annunciato tramite il vangelo. Paolo raccomanda a Timoteo di pregare per
i re e per tutti quelli che sono in autorità, dimostrando così ai pagani che i
cristiani sono una comunità religiosa, non politica. Come responsabile della
Chiesa di Efeso, Timoteo riceve anche disposizioni riguardo all’atteggiamento
che devono assumere i fedeli durante le assemblee liturgiche, come devono
pregare gli uomini e come devono vestire le donne. A queste, inoltre, non è
concesso insegnare (contrariamente, in 1 Co 11, 5, dove si consente loro di
predicare o profetizzare nelle assemblee; invece, contraddittoriamente, in 1 Co
14, 34-35, s’impone loro di tacere), bensì imparare in silenzio e in perfetta
sottomissione. Le donne, insomma, non devono né insegnare né dominare l’uomo,
ma… zittire e ascoltare. La sudditanza della donna è giustificata con due
argomentazioni. L’una è fondata sul mitico racconto della creazione, descritto
nel libro “Genesi”. Adamo - si racconta - fu creato per primo, a somiglianza di
Dio; Eva, invece, fu formata prelevando una costola da Adamo. L’altra
argomentazione è riferita alla (falsa) convinzione della fragilità morale della
donna: non Adamo, bensì Eva, insidiata dal demonio, cadde nel peccato,
trascinando anche (l’ingenuo) Adamo. Autentica missione della donna è la
maternità, e questa quanto più è feconda tanto più è benedetta (secondo la
visuale biblica). Anche il dio islamico, al pari di quello biblico, antepone
nel Corano l’uomo alla donna a causa della preferenza che concede al primo
(sura IV, 34). In materia ereditaria, Allah ordina che al maschio spetti la
parte di due femmine (sura IV, 11). Paolo (o l’anonimo autore dell’epistola)
sottolinea le qualità (irreprensibilità morale; divieto della poligamia) che occorrono
per esercitare degnamente i ministeri di vescovo (episcopo), di diacono e di
diaconessa. Suggerisce le norme sul modo di comportarsi con le vedove e con i
presbiteri. Raccomanda il buon uso delle ricchezze a favore del prossimo, al
fine di costituirsi un capitale nel mitico paradisiaco aldilà. I ricchi,
infatti, devono la loro ricchezza alla benevolenza di Dio (!). L’autore invita
gli schiavi a contentarsi del giogo servile (anziché protestare per la loro
condizione di sfruttamento, perché la liberazione dalle ingiustizie e
dall’oppressione non fa parte del programma evangelico da attuare in questo
mondo, avendolo demandato post mortem nell’altro mondo). La
lettera termina con l'esortazione a Timoteo di schivare le false dottrine
gnostiche (consistenti nella fusione di quelle ellenistiche e di quelle
giudaiche).
La seconda
lettera a Timoteo è l’ultima scritta da Roma prima di subire il martirio
(avvenuto nel 67 d.C., secondo una tradizione). Paolo, da buon soldato di Gesù,
il dio risorto dalla morte, deve tutto soffrire per lui e immolarsi per la
redenzione del prossimo (e per ottenere la sua ricompensa nell’aldilà). Proprio
a causa della verità del vangelo da lui predicato, egli subisce le sofferenze e
porta le catene come un malfattore. Il suo fanatismo religioso lo porta a
glorificare se stesso, perseguitato per la fede in Cristo, datore di verità,
non di favole. Mette in guardia Timoteo dai falsi maestri, attivi negli ultimi
giorni, essendo già cominciata l’era escatologica, evocante l’imminenza della
parusia, il glorioso trionfo del ritorno di Gesù nel mondo come giustiziere. Lo
esorta a guardarsi da un certo Alessandro, il ramaio, che gli ha procurato
molti guai, contrastando la sua predicazione del vangelo. Egli invoca contro di
lui la giustizia (vendetta) divina. Si lamenta di sentirsi abbandonato dagli
altri confratelli e discepoli (ricorda che nessuno lo sostenne durante la sua
difesa in tribunale). Non dà notizie di un’eventuale presenza di Pietro a Roma.
Verosimilmente, questi si trovava in quel torno di tempo a Babilonia, come
indica chiaramente la lettera attribuita a Pietro (1Pt 5, 13). L’ipotesi che
Babilonia sia un nome simbolico, riferibile alla città di Roma, è
un’interpretazione sostenuta dalla Chiesa al fine di avvalorare la successione
pietrina dei papi e la supremazia della cattedra romana. Gli Atti degli
apostoli (scritti intorno agli anni 80) e gli altri testi canonici nulla dicono
sulla morte di Pietro e su quella di Paolo. Secondo una tradizione, Pietro
avrebbe subito il martirio nel 64 durante la persecuzione di Nerone.
Leggendaria è la descrizione della morte di Paolo, riportata nell’apocrifo
“Atti di Paolo”, databile alla fine del II secolo (sarebbe stato decapitato
presso la località “Aquae Salviae” della capitale, forse nel 67, per
ordine di Nerone).
A TITO
A Tito, il
discepolo di Paolo preposto alla comunità dell’isola di Creta, è indirizzata
l’epistola con la quale si danno disposizioni sull’organizzazione interna della
Chiesa locale, sugli obblighi che i fedeli devono osservare, sulle qualità
morali che devono avere i ministri della fede. L’autore esorta Tito a guardarsi
dagli eretici, uomini perversi da evitare (la scomunica paolina contro gli
eretici, in tempi successivi, si aggraverà con le pene comminate dal braccio
secolare a conclusione dell’iniquo processo inquisitorio), e dai falsi dottori
provenienti dal mondo giudaico, che sono insubordinati, parolai, ingannatori e
narratori di fole. Per stigmatizzare le fandonie di costoro, l’autore della
missiva riporta nella sua dura invettiva il detto di un poeta cretese secondo
cui i Cretesi sono sempre bugiardi (incappando involontariamente nel paradosso
del mentitore). Rammenta altresì a Tito di sorvegliare sia i comportamenti dei
cristiani nel loro insieme, riguardo ai doveri che devono adempiere verso le
autorità costituite, sia i contegni di ciascuna categoria di persona nei
confronti dei loro fratelli, che devono essere improntati ai dettami del
Vangelo. Gli suggerisce le virtù e le qualità morali che le matriarche devono
utilizzare per indottrinare le giovinette ai doveri coniugali: essere caste,
sottomettendosi ai propri mariti (non più valeva il costume pagano di delegare
alla Venere Verticordia il compito di volgere il cuore delle ragazze alla
costumatezza). Quanto agli schiavi, questi devono restare asserviti in ogni
cosa ai loro padroni, persino compiacerli, mai contraddirli o derubarli
(giacché l’ora della parusia e della fine dei tempi era ormai vicina). I liberi
cittadini, invece, devono restare sottomessi ai magistrati e alle autorità.
Tutti devono, durante l’attesa (vana speranza!) del ritorno glorioso di Cristo
(di cui l’autore esalta la natura divina), evitare i litigi, le ribellioni e le
mondane passioni per non incorrere nell’empietà e nel castigo divino.
La teologia
paolina non ha carattere politico, volto alla liberazione dalle ingiustizie e
dall’oppressione. L’ideale dell’eguaglianza è una conquista di là da venire. Il
Cristo del vangelo di Paolo è spoliticizzato: parla di redenzione e salvezza nell’altro
mondo. Per giunta, chi non si converte alla fede paolina è tacciato come
persona abominevole agli occhi di Dio (e anche a quelli dei cristiani).
Lucio Apulo Daunio
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