LETTERA DI
PAOLO A FILEMONE
La lettera è
scritta da Paolo (databile tra gli anni 54-63) durante il periodo di prigionia
(nel carcere di Efeso, tra il 54-55, o in quello del pretorio di Roma, tra il
61-63) a causa del vangelo che predicava. Destinatario è il ricco Filemone e la
comunità romana che si riunisce nella sua casa, la chiesa domestica dei primi
cristiani. La lettera è improntata a captare la benevolenza di Filemone e
dell’intera comunità a favore di Onesimo, lo schiavo pagano da lui fuggito e
convertito dall’Apostolo, affinché trovi buona accoglienza al momento del
ritorno dall’antico padrone e gli sia perdonata la colpa per il grave reato
commesso contro la proprietà. Gli schiavi, infatti, nell’ordinamento e nel
costume di quei tempi erano considerati non come persone ma come cose di
proprietà del padrone. Paolo non chiede la liberazione dello schiavo, giacché
nessuna rilevanza ha la condizione sociale degli uomini in vista dell’avvento,
creduto imminente, del Regno di Dio. Del resto, lui stesso si considera servo,
prigioniero del Cristo Gesù. Onesimo, in concreto, pur essendo divenuto come il
suo padrone fratello in Cristo, non può eludere la sua condizione di schiavo,
che lo obbliga a prestare gratuitamente il suo lavoro. Unica speranza per
Onesimo sarà di essere accolto dal suo padrone con clemenza e con spirito di
fratellanza per la sua conversione alla fede in Cristo.
Nei saluti
finali alla comunità romana, Paolo non menziona Pietro (forse perché a Roma il
Principe degli Apostoli non ha mai messo piede). In nessuna delle lettere
attribuite a Paolo, si dice che la “chiesa” romana è stata evangelizzata da
Pietro. Paolo, anzi, afferma che Pietro è l’apostolo dei giudei, essendo stato
demandato a lui l’apostolato presso i “gentili”. Gli “Atti”, che trattano della
storia della Chiesa fino al sessantuno, quantunque ispirati dallo Spirito
Santo, tacciono sull’apostolato a Roma di Pietro. Sembra, dunque, che solo dopo
gli anni 61-63 si potrebbe ipotizzare l’improbabile arrivo di Pietro a Roma.
Secondo l’inattendibile tradizione della Chiesa, Pietro avrebbe subito il
martirio a Roma nel 64, durante la persecuzione di Nerone; Paolo invece tre
anni dopo, nel 67. Né le epistole di Paolo né quelle di Giovanni e di Giacomo e
neanche gli Atti degli Apostoli attribuiti a Luca, trattano della missione di
Pietro a Roma e, tantomeno, della pretesa primazia di Pietro. Nemmeno le
lettere attribuite a Pietro fanno riferimento al suo apostolato a Roma, anche
se nella parte finale della prima lettera Pietro invia i saluti della comunità
radunata in Babilonia (città che si è voluta interpretare come indicante Roma).
Occorre però considerare che i destinatari dell’epistola pietrina non avrebbero
potuto capire che Babilonia significasse Roma. Inattendibili e di carattere
agiografico sono gli apocrifi Atti di Pietro (scritti intorno al 200) e le
Pseudo-clementine (databili fra il secondo e il terzo secolo), falsamente
attribuite a Clemente Romano, il papa vissuto nel primo secolo. Lo stesso
Clemente, nella sua lettera ai Corinzi, nulla dice riguardo alla presenza di
Pietro a Roma. Né può dedursi tale circostanza dalle lettere attribuite a
Ignazio, discepolo degli apostoli, morto nell’anno 110. Dubbia è anche la
testimonianza dell’anno 180 di Ireneo, vescovo di Lione, la cui opera contro
gli eretici è pervenuta in traduzione da una copia in latino, essendosi
smarrito l’originale scritto in greco. Si sospetta (se si esclude una probabile
contraffazione del testo) che Ireneo, giunto in missione a Roma, sia stato
influenzato dalle autorità locali, interessate a sostenere il primato della
Chiesa di Roma (cfr. Ernesto Buonaiuti, Storia del Cristianesimo). La supposta
presenza di Pietro a Roma, in realtà, risale a tradizioni e leggende create tra
il III e IV secolo. False sono le convinzioni che taluni oggetti e monumenti
attesterebbero la pretesa presenza a Roma di Pietro, come la cattedra
conservata in Vaticano o le catene con cui l’apostolo fu incatenato nel carcere
Mamertino. Il sacro primato della Chiesa di Roma, la successione apostolica e
lo stesso papato sono evidenti acquisizioni storiche, dedotte da leggende,
false testimonianze e invenzioni costruite per affermare il potere primaziale
del papa e l’autorità della Chiesa romana, fondata sul sistema gerarchico
dogmatico. Riguardo all’episodio narrato dagli evangelisti sul mistero che
circonda la persona di Gesù, solamente in Matteo (cfr.16,17-20) si accenna alla
glorificazione di Pietro, come pietra vivente su cui Gesù edificherà la sua
chiesa e a lui consegnerà le chiavi per accedere nel regno dei cieli. Sulla
base di questa pericope (verosimilmente aggiunta in tempi successivi) la Chiesa
romana ha voluto dedurre il titolo legale della sua autorità. Pietre viventi
(come riporta la prima lettera attribuita a Pietro; cfr.1Pt, 2,4-8) sono invece
tutti i cristiani formanti l’organismo sacerdotale della Chiesa. Pietro,
infatti, non si è mai attribuito il titolo di massima autorità della Chiesa.
Peraltro, la primitiva chiesa di Gerusalemme era guidata da Giacomo, fratello
del Signore, non da Pietro. Quanto alle scoperte dell’archeologa cattolica
Margherita Guarducci, circa gli scavi effettuati nel sotterraneo cimitero
pagano del colle Vaticano, dove è stata trovata un’epigrafe su cui è inciso
“Pietro è qui” e una cassa con dei resti umani, la stessa presume di aver trovato
la reliquia dei resti di Pietro e la prova del suo soggiorno a Roma. Le sue
argomentazioni, giacché basate su supposizioni, non hanno nulla di scientifico.
Quanto al presunto teschio di Pietro, che per secoli era stato custodito nella
chiesa di san Giovanni in Laterano, la stessa archeologa Guarducci ha
dichiarato che si tratta di un falso. Il fatto che il teschio sia stato
accettato e venerato come autentica reliquia di Pietro, sarebbe da attribuire
all’aver prestato fede a una primitiva tradizione. E’ verosimile invece che
Pietro sia stato sepolto a Gerusalemme, non a Roma. Infatti, dagli scavi
effettuati nel 1953 a Gerusalemme sul monte degli Ulivi da due archeologi
francescani, è stato trovato in un cimitero cristiano un ossario e un’epigrafe
con la scritta in aramaico “Simone figlio di Giona” (così Gesù chiamava Pietro
nel Vangelo matteano; cfr. Mt 16,17). La clamorosa scoperta, sottaciuta per
ovvie ragioni dalle gerarchie ecclesiastiche romane, può essere addotta come
verosimile prova della sepoltura di Pietro nel cimitero cristiano di
Gerusalemme.
Lucio Apulo Daunio
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