mercoledì 2 novembre 2011


LETTERA DI PAOLO A FILEMONE



La lettera è scritta da Paolo (databile tra gli anni 54-63) durante il periodo di prigionia (nel carcere di Efeso, tra il 54-55, o in quello del pretorio di Roma, tra il 61-63) a causa del vangelo che predicava. Destinatario è il ricco Filemone e la comunità romana che si riunisce nella sua casa, la chiesa domestica dei primi cristiani. La lettera è improntata a captare la benevolenza di Filemone e dell’intera comunità a favore di Onesimo, lo schiavo pagano da lui fuggito e convertito dall’Apostolo, affinché trovi buona accoglienza al momento del ritorno dall’antico padrone e gli sia perdonata la colpa per il grave reato commesso contro la proprietà. Gli schiavi, infatti, nell’ordinamento e nel costume di quei tempi erano considerati non come persone ma come cose di proprietà del padrone. Paolo non chiede la liberazione dello schiavo, giacché nessuna rilevanza ha la condizione sociale degli uomini in vista dell’avvento, creduto imminente, del Regno di Dio. Del resto, lui stesso si considera servo, prigioniero del Cristo Gesù. Onesimo, in concreto, pur essendo divenuto come il suo padrone fratello in Cristo, non può eludere la sua condizione di schiavo, che lo obbliga a prestare gratuitamente il suo lavoro. Unica speranza per Onesimo sarà di essere accolto dal suo padrone con clemenza e con spirito di fratellanza per la sua conversione alla fede in Cristo.

Nei saluti finali alla comunità romana, Paolo non menziona Pietro (forse perché a Roma il Principe degli Apostoli non ha mai messo piede). In nessuna delle lettere attribuite a Paolo, si dice che la “chiesa” romana è stata evangelizzata da Pietro. Paolo, anzi, afferma che Pietro è l’apostolo dei giudei, essendo stato demandato a lui l’apostolato presso i “gentili”. Gli “Atti”, che trattano della storia della Chiesa fino al sessantuno, quantunque ispirati dallo Spirito Santo, tacciono sull’apostolato a Roma di Pietro. Sembra, dunque, che solo dopo gli anni 61-63 si potrebbe ipotizzare l’improbabile arrivo di Pietro a Roma. Secondo l’inattendibile tradizione della Chiesa, Pietro avrebbe subito il martirio a Roma nel 64, durante la persecuzione di Nerone; Paolo invece tre anni dopo, nel 67. Né le epistole di Paolo né quelle di Giovanni e di Giacomo e neanche gli Atti degli Apostoli attribuiti a Luca, trattano della missione di Pietro a Roma e, tantomeno, della pretesa primazia di Pietro. Nemmeno le lettere attribuite a Pietro fanno riferimento al suo apostolato a Roma, anche se nella parte finale della prima lettera Pietro invia i saluti della comunità radunata in Babilonia (città che si è voluta interpretare come indicante Roma). Occorre però considerare che i destinatari dell’epistola pietrina non avrebbero potuto capire che Babilonia significasse Roma. Inattendibili e di carattere agiografico sono gli apocrifi Atti di Pietro (scritti intorno al 200) e le Pseudo-clementine (databili fra il secondo e il terzo secolo), falsamente attribuite a Clemente Romano, il papa vissuto nel primo secolo. Lo stesso Clemente, nella sua lettera ai Corinzi, nulla dice riguardo alla presenza di Pietro a Roma. Né può dedursi tale circostanza dalle lettere attribuite a Ignazio, discepolo degli apostoli, morto nell’anno 110. Dubbia è anche la testimonianza dell’anno 180 di Ireneo, vescovo di Lione, la cui opera contro gli eretici è pervenuta in traduzione da una copia in latino, essendosi smarrito l’originale scritto in greco. Si sospetta (se si esclude una probabile contraffazione del testo) che Ireneo, giunto in missione a Roma, sia stato influenzato dalle autorità locali, interessate a sostenere il primato della Chiesa di Roma (cfr. Ernesto Buonaiuti, Storia del Cristianesimo). La supposta presenza di Pietro a Roma, in realtà, risale a tradizioni e leggende create tra il III e IV secolo. False sono le convinzioni che taluni oggetti e monumenti attesterebbero la pretesa presenza a Roma di Pietro, come la cattedra conservata in Vaticano o le catene con cui l’apostolo fu incatenato nel carcere Mamertino. Il sacro primato della Chiesa di Roma, la successione apostolica e lo stesso papato sono evidenti acquisizioni storiche, dedotte da leggende, false testimonianze e invenzioni costruite per affermare il potere primaziale del papa e l’autorità della Chiesa romana, fondata sul sistema gerarchico dogmatico. Riguardo all’episodio narrato dagli evangelisti sul mistero che circonda la persona di Gesù, solamente in Matteo (cfr.16,17-20) si accenna alla glorificazione di Pietro, come pietra vivente su cui Gesù edificherà la sua chiesa e a lui consegnerà le chiavi per accedere nel regno dei cieli. Sulla base di questa pericope (verosimilmente aggiunta in tempi successivi) la Chiesa romana ha voluto dedurre il titolo legale della sua autorità. Pietre viventi (come riporta la prima lettera attribuita a Pietro; cfr.1Pt, 2,4-8) sono invece tutti i cristiani formanti l’organismo sacerdotale della Chiesa. Pietro, infatti, non si è mai attribuito il titolo di massima autorità della Chiesa. Peraltro, la primitiva chiesa di Gerusalemme era guidata da Giacomo, fratello del Signore, non da Pietro. Quanto alle scoperte dell’archeologa cattolica Margherita Guarducci, circa gli scavi effettuati nel sotterraneo cimitero pagano del colle Vaticano, dove è stata trovata un’epigrafe su cui è inciso “Pietro è qui” e una cassa con dei resti umani, la stessa presume di aver trovato la reliquia dei resti di Pietro e la prova del suo soggiorno a Roma. Le sue argomentazioni, giacché basate su supposizioni, non hanno nulla di scientifico. Quanto al presunto teschio di Pietro, che per secoli era stato custodito nella chiesa di san Giovanni in Laterano, la stessa archeologa Guarducci ha dichiarato che si tratta di un falso. Il fatto che il teschio sia stato accettato e venerato come autentica reliquia di Pietro, sarebbe da attribuire all’aver prestato fede a una primitiva tradizione. E’ verosimile invece che Pietro sia stato sepolto a Gerusalemme, non a Roma. Infatti, dagli scavi effettuati nel 1953 a Gerusalemme sul monte degli Ulivi da due archeologi francescani, è stato trovato in un cimitero cristiano un ossario e un’epigrafe con la scritta in aramaico “Simone figlio di Giona” (così Gesù chiamava Pietro nel Vangelo matteano; cfr. Mt 16,17). La clamorosa scoperta, sottaciuta per ovvie ragioni dalle gerarchie ecclesiastiche romane, può essere addotta come verosimile prova della sepoltura di Pietro nel cimitero cristiano di Gerusalemme.


Lucio Apulo Daunio


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