lunedì 31 ottobre 2011


LETTERA DI PAOLO AI GALATI

              

          Questa lettera, ritenuta la più autentica delle epistole paoline, è databile all’anno 58. Ha per destinatarie le “chiese” di Antiochia, Iconio, Listra e Derba, appartenenti alla provincia romana della Galazia, in Asia Minore. In questa missiva (oltre che negli “Atti”) il fariseo Saulo, cittadino romano con il nome Paolo, ci fornisce la migliore, per quanto limitata, biografia che abbiamo di lui (cfr. Ga 1,11-2,14). Il tono della lettera è polemico. Rimprovera i Gàlati (definendoli sciocchi e poco intelligenti) per la superficialità della loro fede, esortandoli a una condotta di vita esemplare. Egli, che non ha mai conosciuto Gesù (benché porti marchiato nel suo corpo le stigmate della sua crocifissione), rivendica ai Gàlati la validità del suo apostolato, perché è stato costituito apostolo da Gesù stesso, che gli è apparso in visione, gli ha ispirato il “vangelo” e lo ha autorizzato ad annunciarlo alle genti. Non ha avuto bisogno di consultare gli altri apostoli, poiché il suo vangelo è autentico, giacché proveniente da Gesù. Perciò vota alla maledizione di Dio (anàtema!) chi predica un vangelo diverso dal suo. Non vi sono altri vangeli all’infuori del suo (che presume più autentico di quello annunciato dai dodici apostoli, testimoni oculari di Cristo). In verità, negli “Atti” (9,17 seg.) è scritto che dopo esser stato folgorato da una visione sulla via per Damasco, fu guarito da Anania, che lo istruì nella fede di Cristo. Attacca con virulenza, intimando anatemi (cioè scomuniche, dimenticandosi che in lui, come andava dicendo, viveva Cristo), le tesi di taluni missionari giudaizzanti (dissidenti legati alle pratiche cultuali giudaiche), che recavano scompiglio tra i cristiani provenienti dal paganesimo, inducendoli a seguire un altro vangelo (forse più autentico del suo, perché proveniente dalla testimonianza oculare degli apostoli). Costoro, infatti, insegnavano che l’osservanza della Legge non era stata abolita da Cristo, che il vecchio patto tra Dio e Israele era ancora valido, che la circoncisione era il segno d’appartenenza alla comunità, che la salvezza discendeva dal rispetto del patto suddetto, che Paolo stesso era un incompetente, un falso apostolo che predicava una dottrina non ortodossa, giacché non sottoposta all’approvazione da parte delle autorità apostoliche di Gerusalemme. Paolo si difende dalle calunnie, attaccando verbalmente i suoi avversari, ribattendo punto su punto le loro accuse. Egli vanta la sua indipendenza di apostolo, giacché la sua nomina proviene direttamente da Dio Padre, mediante la rivelazione in lui del figlio Gesù (insinuando in tal modo la credenza della figliolanza divina del Cristo). Egli difende a spada tratta il suo “vangelo”, appreso tramite rivelazione, senza aver consultato la comunità degli apostoli a Gerusalemme (solamente dopo tre anni dalla sua conversione andò a consultare Pietro). Lancia anatemi persino contro gli angeli, qualora questi predichino una dottrina differente dalla sua. Non per altro, egli è stato portato al terzo cielo, sede del Paradiso. Su questa base egli approfondisce alcuni temi riguardo alla giustificazione, alla salvezza, alla libertà dalle tentazioni della carne, esortando all’unità le comunità cristiane della Galazia. Ciò che sta più a cuore a Paolo, è l’identità dei cristiani distinta da quella giudaica. Egli annuncia la dottrina della salvezza per fede, anziché mediante le opere dalla Legge. La validità della promessa fatta da Dio ad Abramo e alla sua discendenza non può essere intaccata dalla Legge, a essa posteriore e avente funzione provvisoria. Secondo l’interpretazione di Paolo, la promessa di Dio ad Abramo riguarda la salvezza per mezzo della fede in Cristo. La Legge, invece, è servita per condurci a Cristo e alla giustificazione mediante la sola fede. L’osservanza della Legge, quindi, non giustifica; anzi, quanti si basano su di essa, sono soggetti a maledizione, se non ottemperano puntualmente alle prescrizioni. Proprio perché la Legge non giova per essere giustificati, appare superflua anche la maledizione, dalla quale Cristo ci ha liberato con il suo sacrificio espiatorio. Di contrario avviso è l’autore della “Lettera di Giacomo” (cfr. 2,14-26), secondo il quale l’uomo è giustificato in base alle opere compiute e non soltanto in base alla fede. Paolo insiste sul fatto che chi abbraccia il cristianesimo deve vivere secondo lo spirito, non secondo la carne, per non commettere i peccati indotti dalla carne (Ga, 5,16 seg.), precludendosi di entrare nel Regno di Dio (1 Co 6, 9). E poiché la carne, a differenza dello spirito, induce al peccato, il cristiano deve crocifiggerla, mortificarla, estinguendo i desideri cattivi, fino a non vivere più per il mondo.

            Nell’unione dei cristiani con Cristo - spiega Paolo - scompaiono le differenze etniche, sociali e fisiche (Ga 3, 28), fermo restando l’effettiva condizione in cui ognuno si trova nel mondo: libero o schiavo (cfr. 1 Tm 6,1-2; Gn 9,25-27; Lv 25,42-55), e fermo restando la subordinazione gerarchica secondo l’ordine che vede la donna inferiore all’uomo ed entrambi asserviti a Cristo, che a sua volta è subalterno al Padre (1 Co 11, 3). Dio è quindi di grado superiore a Cristo, che è il capo dell’uomo. Capo della donna è invece l’uomo. Dunque, se per un verso davanti a Dio si è tutti uguali, nella vita comunitaria, invece, si distingue secondo un ordine gerarchico, che vede la donna al grado infimo (per buona pace delle femministe), seguita dallo schiavo. Del resto, il biblico dio Elohim approvò la richiesta che Sara fece ad Abramo di scacciare la schiava Agar e il figlio Ismaele, perché il figlio della schiava non doveva aver parte all’eredità con il figlio della padrona libera (cfr. Ga 4,22 seg.; Gn 21,10 seg.). Che non fosse lecito andare oltre la propria condizione sociale, la Chiesa continuerà a sostenerlo anche in seguito, conformandosi alla disparità dell’amore del dio biblico. Ambrogio e Agostino considereranno la schiavitù “dono di Dio”. Sostenevano che lo schiavo è tale per il suo bene, perciò deve servire con zelo il padrone per rendersi meritevole davanti a Dio, dalla cui volontà dipende la condizione in cui ogni persona si trova nel mondo. Gregorio Magno e Tommaso d’Aquino giustificheranno la schiavitù, assimilandola alla condizione del servo della gleba (da sfruttare a beneficio di latifondisti clericali e laici, proprietari dei mezzi di produzione). Il papa vieterà che servi e schiavi possano accedere al sacerdozio. Gregorio IX, nel 1229, legittimerà la schiavitù. Nicolò V, nel 1454, la autorizzerà nei confronti dei Saraceni e dei prigionieri. Peraltro, anche i musulmani praticheranno la schiavitù, non essendo tale condizione proibita dal Corano. Pio IX continuerà a legittimarla, ritenendola non contraria alla legge naturale e divina. Leone XIII confermerà la non modificabilità dell’ordine delle cose, proponendo quella che sarà poi la concertazione tra le parti in conflitto. Ci si domanda se sia Dio o la Chiesa a volere lo “status quo” nella società. I teologi della liberazione contestano l’immobilismo della Chiesa, prospettando la teoria e la prassi dell’affrancamento dei poveri dall’oppressione e condannando il neoliberismo capitalistico.

La controversia di Paolo, nella lettera ai Gàlati, non risparmia nemmeno colui che diverrà “il Principe della Chiesa”. L’apostolo Pietro, infatti, è da lui biasimato per i suoi atteggiamenti ipocriti (dei quali, invero, anche Paolo non fu esente). Invettive e maledizioni (poco cristiane) scaglia anche contro chi reca scompiglio nella comunità, incitandola a giudaizzare (cioè a osservare le pratiche cultuali ebraiche, come l’obbligo della circoncisione). Numerose sono le discordanze che si riscontrano nell’epistola in questione, rispetto a quanto riportato negli “Atti”, soprattutto riguardo alla vocazione di Paolo e ai suoi rapporti con gli apostoli e con la comunità di Gerusalemme. Qui giunse per consultare Pietro solo dopo tre anni dal suo apostolato presso i pagani (Ga 1, 18-24). Fu introdotto nella comunità gerosolimitana, tramite la mediazione di Barnaba, e vi restò per quindici giorni (Paolo non godeva buona fama, essendo stato prima della conversione uno spietato giudeo, persecutore dei cristiani; cfr. At 9.26-31). Ritornò dopo 14 anni a Gerusalemme, in seguito ad una rivelazione, per esporre ai notabili il vangelo da lui predicato ai pagani. Fu dai notabili autorizzato a predicare il vangelo ai non giudei, senza ricevere altre disposizioni. A Pietro, invece, come precisa nella lettera, fu affidato il vangelo da predicare ai giudei (ma negli “Atti” non risulta tale ripartizione). Secondo la versione degli “Atti” (cfr. 15,2 seg.), invece, fu la “chiesa” di Antiochia a imporgli di andare a Gerusalemme per dirimere una controversia riguardo al suo rifiuto di circoncidere i pagani, ottenendo nel concilio presieduto da Giacomo, fratello del Signore, sia l’abrogazione della prescrizione mosaica ai pagani convertiti sia disposizioni in merito alla dieta alimentare. In realtà, Paolo, che si sentiva superiore persino a Mosè, si riteneva detentore di un mandato divino (cfr. le lettere agli Efesini e ai Corinzi), perciò si scagliò verbalmente contro taluni falsi fratelli, che s’intromisero come spie durante i colloqui con i notabili di Gerusalemme (forse perché non condividevano la sua opera di evangelizzazione). Non fu tenero neanche nei confronti di certi arci-apostoli, come lui li definiva, che dubitavano dell’autenticità del suo vangelo. Si può ritenere, invece, che questi arci-apostoli predicassero il vangelo appreso dai Dodici, diretti testimoni di Cristo, perciò diverso da quello di Paolo, che presume di averlo appreso per ispirazione da Cristo.


Lucio Apulo Daunio


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