LETTERA DI
PAOLO AI GALATI
Questa lettera, ritenuta la più
autentica delle epistole paoline, è databile all’anno 58. Ha per destinatarie
le “chiese” di Antiochia, Iconio, Listra e Derba, appartenenti alla provincia
romana della Galazia, in Asia Minore. In questa missiva (oltre che negli
“Atti”) il fariseo Saulo, cittadino romano con il nome Paolo, ci fornisce la
migliore, per quanto limitata, biografia che abbiamo di lui (cfr. Ga
1,11-2,14). Il tono della lettera è polemico. Rimprovera i Gàlati (definendoli
sciocchi e poco intelligenti) per la superficialità della loro fede,
esortandoli a una condotta di vita esemplare. Egli, che non ha mai conosciuto
Gesù (benché porti marchiato nel suo corpo le stigmate della sua crocifissione),
rivendica ai Gàlati la validità del suo apostolato, perché è stato costituito
apostolo da Gesù stesso, che gli è apparso in visione, gli ha ispirato il
“vangelo” e lo ha autorizzato ad annunciarlo alle genti. Non ha avuto bisogno
di consultare gli altri apostoli, poiché il suo vangelo è autentico, giacché
proveniente da Gesù. Perciò vota alla maledizione di Dio (anàtema!) chi predica
un vangelo diverso dal suo. Non vi sono altri vangeli all’infuori del suo (che
presume più autentico di quello annunciato dai dodici apostoli, testimoni
oculari di Cristo). In verità, negli “Atti” (9,17 seg.) è scritto che dopo
esser stato folgorato da una visione sulla via per Damasco, fu guarito da
Anania, che lo istruì nella fede di Cristo. Attacca con virulenza, intimando anatemi
(cioè scomuniche, dimenticandosi che in lui, come andava dicendo, viveva
Cristo), le tesi di taluni missionari giudaizzanti (dissidenti legati alle
pratiche cultuali giudaiche), che recavano scompiglio tra i cristiani
provenienti dal paganesimo, inducendoli a seguire un altro vangelo (forse più
autentico del suo, perché proveniente dalla testimonianza oculare degli
apostoli). Costoro, infatti, insegnavano che l’osservanza della Legge non era
stata abolita da Cristo, che il vecchio patto tra Dio e Israele era ancora
valido, che la circoncisione era il segno d’appartenenza alla comunità, che la
salvezza discendeva dal rispetto del patto suddetto, che Paolo stesso era un
incompetente, un falso apostolo che predicava una dottrina non ortodossa,
giacché non sottoposta all’approvazione da parte delle autorità apostoliche di
Gerusalemme. Paolo si difende dalle calunnie, attaccando verbalmente i suoi
avversari, ribattendo punto su punto le loro accuse. Egli vanta la sua
indipendenza di apostolo, giacché la sua nomina proviene direttamente da Dio
Padre, mediante la rivelazione in lui del figlio Gesù (insinuando in tal modo
la credenza della figliolanza divina del Cristo). Egli difende a spada tratta
il suo “vangelo”, appreso tramite rivelazione, senza aver consultato la
comunità degli apostoli a Gerusalemme (solamente dopo tre anni dalla sua
conversione andò a consultare Pietro). Lancia anatemi persino contro gli
angeli, qualora questi predichino una dottrina differente dalla sua. Non per
altro, egli è stato portato al terzo cielo, sede del Paradiso. Su questa base
egli approfondisce alcuni temi riguardo alla giustificazione, alla salvezza,
alla libertà dalle tentazioni della carne, esortando all’unità le comunità
cristiane della Galazia. Ciò che sta più a cuore a Paolo, è l’identità dei
cristiani distinta da quella giudaica. Egli annuncia la dottrina della salvezza
per fede, anziché mediante le opere dalla Legge. La validità della promessa
fatta da Dio ad Abramo e alla sua discendenza non può essere intaccata dalla
Legge, a essa posteriore e avente funzione provvisoria. Secondo
l’interpretazione di Paolo, la promessa di Dio ad Abramo riguarda la salvezza
per mezzo della fede in Cristo. La Legge, invece, è servita per condurci a
Cristo e alla giustificazione mediante la sola fede. L’osservanza della Legge,
quindi, non giustifica; anzi, quanti si basano su di essa, sono soggetti a
maledizione, se non ottemperano puntualmente alle prescrizioni. Proprio perché
la Legge non giova per essere giustificati, appare superflua anche la
maledizione, dalla quale Cristo ci ha liberato con il suo sacrificio
espiatorio. Di contrario avviso è l’autore della “Lettera di Giacomo” (cfr.
2,14-26), secondo il quale l’uomo è giustificato in base alle opere compiute e
non soltanto in base alla fede. Paolo insiste sul fatto che chi abbraccia il
cristianesimo deve vivere secondo lo spirito, non secondo la carne, per non
commettere i peccati indotti dalla carne (Ga, 5,16 seg.), precludendosi di
entrare nel Regno di Dio (1 Co 6, 9). E poiché la carne, a differenza dello
spirito, induce al peccato, il cristiano deve crocifiggerla, mortificarla,
estinguendo i desideri cattivi, fino a non vivere più per il mondo.
Nell’unione
dei cristiani con Cristo - spiega Paolo - scompaiono le differenze etniche,
sociali e fisiche (Ga 3, 28), fermo restando l’effettiva condizione in cui
ognuno si trova nel mondo: libero o schiavo (cfr. 1 Tm 6,1-2; Gn 9,25-27; Lv
25,42-55), e fermo restando la subordinazione gerarchica secondo l’ordine che
vede la donna inferiore all’uomo ed entrambi asserviti a Cristo, che a sua
volta è subalterno al Padre (1 Co 11, 3). Dio è quindi di grado superiore a
Cristo, che è il capo dell’uomo. Capo della donna è invece l’uomo. Dunque, se
per un verso davanti a Dio si è tutti uguali, nella vita comunitaria, invece,
si distingue secondo un ordine gerarchico, che vede la donna al grado infimo
(per buona pace delle femministe), seguita dallo schiavo. Del resto, il biblico
dio Elohim approvò la richiesta che Sara fece ad Abramo di scacciare la schiava
Agar e il figlio Ismaele, perché il figlio della schiava non doveva aver parte
all’eredità con il figlio della padrona libera (cfr. Ga 4,22 seg.; Gn 21,10
seg.). Che non fosse lecito andare oltre la propria condizione sociale, la Chiesa
continuerà a sostenerlo anche in seguito, conformandosi alla disparità
dell’amore del dio biblico. Ambrogio e Agostino considereranno la schiavitù
“dono di Dio”. Sostenevano che lo schiavo è tale per il suo bene, perciò deve
servire con zelo il padrone per rendersi meritevole davanti a Dio, dalla cui
volontà dipende la condizione in cui ogni persona si trova nel mondo. Gregorio
Magno e Tommaso d’Aquino giustificheranno la schiavitù, assimilandola alla
condizione del servo della gleba (da sfruttare a beneficio di latifondisti
clericali e laici, proprietari dei mezzi di produzione). Il papa vieterà che
servi e schiavi possano accedere al sacerdozio. Gregorio IX, nel 1229,
legittimerà la schiavitù. Nicolò V, nel 1454, la autorizzerà nei confronti dei
Saraceni e dei prigionieri. Peraltro, anche i musulmani praticheranno la
schiavitù, non essendo tale condizione proibita dal Corano. Pio IX continuerà a
legittimarla, ritenendola non contraria alla legge naturale e divina. Leone
XIII confermerà la non modificabilità dell’ordine delle cose, proponendo quella
che sarà poi la concertazione tra le parti in conflitto. Ci si domanda se sia
Dio o la Chiesa a volere lo “status quo” nella società. I teologi della
liberazione contestano l’immobilismo della Chiesa, prospettando la teoria e la
prassi dell’affrancamento dei poveri dall’oppressione e condannando il
neoliberismo capitalistico.
La
controversia di Paolo, nella lettera ai Gàlati, non risparmia nemmeno colui che
diverrà “il Principe della Chiesa”. L’apostolo Pietro, infatti, è da lui
biasimato per i suoi atteggiamenti ipocriti (dei quali, invero, anche Paolo non
fu esente). Invettive e maledizioni (poco cristiane) scaglia anche contro chi
reca scompiglio nella comunità, incitandola a giudaizzare (cioè a osservare le pratiche
cultuali ebraiche, come l’obbligo della circoncisione). Numerose sono le
discordanze che si riscontrano nell’epistola in questione, rispetto a quanto
riportato negli “Atti”, soprattutto riguardo alla vocazione di Paolo e ai suoi
rapporti con gli apostoli e con la comunità di Gerusalemme. Qui giunse per
consultare Pietro solo dopo tre anni dal suo apostolato presso i pagani (Ga 1,
18-24). Fu introdotto nella comunità gerosolimitana, tramite la mediazione di
Barnaba, e vi restò per quindici giorni (Paolo non godeva buona fama, essendo
stato prima della conversione uno spietato giudeo, persecutore dei cristiani;
cfr. At 9.26-31). Ritornò dopo 14 anni a Gerusalemme, in seguito ad una
rivelazione, per esporre ai notabili il vangelo da lui predicato ai pagani. Fu
dai notabili autorizzato a predicare il vangelo ai non giudei, senza ricevere
altre disposizioni. A Pietro, invece, come precisa nella lettera, fu affidato
il vangelo da predicare ai giudei (ma negli “Atti” non risulta tale
ripartizione). Secondo la versione degli “Atti” (cfr. 15,2 seg.), invece, fu la
“chiesa” di Antiochia a imporgli di andare a Gerusalemme per dirimere una
controversia riguardo al suo rifiuto di circoncidere i pagani, ottenendo nel
concilio presieduto da Giacomo, fratello del Signore, sia l’abrogazione della
prescrizione mosaica ai pagani convertiti sia disposizioni in merito alla dieta
alimentare. In realtà, Paolo, che si sentiva superiore persino a Mosè, si
riteneva detentore di un mandato divino (cfr. le lettere agli Efesini e ai
Corinzi), perciò si scagliò verbalmente contro taluni falsi fratelli, che
s’intromisero come spie durante i colloqui con i notabili di Gerusalemme (forse
perché non condividevano la sua opera di evangelizzazione). Non fu tenero
neanche nei confronti di certi arci-apostoli, come lui li definiva, che
dubitavano dell’autenticità del suo vangelo. Si può ritenere, invece, che
questi arci-apostoli predicassero il vangelo appreso dai Dodici, diretti
testimoni di Cristo, perciò diverso da quello di Paolo, che presume di averlo
appreso per ispirazione da Cristo.
Lucio Apulo Daunio
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